Quella di oggi è l’ultima newsletter prima del Natale ed è l’occasione per scambiarci gli auguri. Vogliamo farlo proponendovi la lettura di un articolo di Sergio Belardinelli pubblicato pochi giorni fa dal quotidiano Il Foglio. Affronta un tema inusuale per un articolo di giornale: la preghiera. Eppure quella di pregare è «una delle caratteristiche specifiche degli uomini». «Preghiamo i nostri simili, il destino, gli dei, Dio. Nessun altro animale lo fa», sottolinea Belardinelli. È segno allo stesso tempo della nostra fragilità, di una natura segnata dal male e dall’imperfezione, e della nostra grandezza che riconoscendo la sua dipendenza strutturale si sottrae alla sua autoreferenzialità aprendosi all’altro e implorandone l’aiuto. «Preghiamo perché siamo esseri bisognosi, mai completamente autosufficienti», si legge nell’articolo. Con una sottolineatura fondamentale: mentre quando preghiamo i nostri simili possiamo verificare in tempi brevi se la nostra richiesta viene esaudita, quando ci rivolgiamo invece a Dio le cose cambiano completamente. In questo caso l’effetto delle nostre preghiere non è altrettanto facile da verificare. «Soltanto la fede – scrive Belardinelli – ci dice che non possiamo chiedere a Dio di esaudire le nostre preghiere senza metterci nelle sue mani, senza riconoscere che la sua volontà è più importante della nostra». Tutto questo si scontra con le tragedie della vita, il dolore, le ingiustizie, le guerre, ma «Dio per principio non delude mai». E questo è anche l’annuncio del Natale, del Dio che si fa bambino e viene in mezzo a noi. Come si legge nella poesia natalizia di T.S. Eliot, che vi invitiamo a leggere e che racconta l’esperienza dei pastori a Betlemme, il Natale è un invito a non temere «il grido del cuore che aspetta l’impossibile perché quando il cielo sposa la terra l’uomo può ricominciare».
Da ultimo vogliamo esprimere le nostre felicitazioni a don Armando Nolli al quale nei giorni scorsi è stato assegnato il Grosso d’oro, il massimo riconoscimento civico che il Comune di Brescia può conferire, per il suo impegno costante al servizio della comunità, l’attenzione ai più bisognosi, la capacità di coinvolgere realtà sociali, associative e tanti giovani in iniziative solidali. È davvero lungo l’elenco di quanto ha fatto dalla direzione della Caritas ai vent’anni come parroco di San Faustino e Giovita. Oggi presta il suo servizio nella parrocchia di Santo Stefano alla Bornata nel cui territorio c’è anche la nostra sede di Borgo Wührer. Come Fondazione San Benedetto gli siamo particolarmente riconoscenti per la sua autentica amicizia e per aver ricevuto da lui, in tanti anni, concreti segni di incoraggiamento nella nostra azione.
Buon Natale e un buon 2025!
L’appuntamento con la nostra newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 12 gennaio.
Sono oltre otto milioni gli italiani che ogni giorno si prendono cura di familiari non autosufficienti (disabili, anziani, malati cronici). Poco meno di un italiano su sette. Sono i cosiddetti «caregiver». «Un esercito silenzioso di dedizione e fatica. Non riconosciuto, non supportato», scrive Maurizio Crippa che ha dedicato a questa figura un ampio e documentato articolo sul Foglio di cui consigliamo la lettura. Un tema di grande attualità considerato anche che viviamo in una società nella quale, con l’aumento della popolazione anziana, il numero delle persone non autosufficienti è destinato a crescere in misura significativa. Servono «ambiti di condivisione e aiuto» che spesso mancano lasciando sulle spalle dei soli caregiver tutto il peso delle diverse situazioni di bisogno.
Restando in tema di «prendersi cura», martedì a Brescia si è svolto l’incontro di fine anno della Fondazione Poliambulanza, grande ospedale privato a carattere non profit nato dal carisma delle Ancelle della Carità. In quanto non profit condivide le finalità del pubblico, cioè soddisfare i bisogni del cittadino senza ottenere profitti economici, i costi del pubblico e il trattamento riservato al settore privato per quanto riguarda i finanziamenti e gli aspetti fiscali. A differenza di altre strutture sanitarie private, non persegue quindi fini di lucro. L’incontro è stato un’occasione per presentare i dati più recenti sull’attività dell’ospedale con oltre 30mila pazienti ricoverati nel 2024, 90mila accessi al pronto soccorso, 2.150 collaboratori in servizio. «A fronte del sempre crescente numero di pazienti – ha spiegato il direttore generale Marcellino Valerio – sono state effettuate prestazioni per un valore di circa 6 milioni di euro oltre al budget assegnato, di cui 4 milioni di supero non finanziato relativo alle prestazioni ambulatoriali convenzionate con il Sistema Sanitario Regionale, e circa 2 milioni relative alle attività di ricovero del Servizio Sanitario Nazionale a ulteriore conferma del fatto che, nel nostro agire, mettiamo al primo posto i pazienti e le loro esigenze». Gli interventi che si sono succeduti del presidente della fondazione Mario Taccolini, del vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada, della presidente della Consulta dei fondatori di Poliambulanza suor Gabriella Tettamanzi e di fratel Gedovar Nazzari dell’Opera Don Calabria hanno messo in evidenza i frutti di una storia nata da un’originale intuizione creativa, quella di umanizzare la sanità, che ha saputo coniugare compassione e competenza nel segno della carità, dando vita a un polo sanitario di eccellenza di rilevanza nazionale. Da questi elementi appare evidente il valore per tutto il territorio della presenza di una realtà come la Poliambulanza. Per la sua storia e la sue caratteristiche è un bene della comunità. Facendo nostro quanto ha sempre sostenuto l’ex presidente di Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, e cioè che una comunità fatta di relazioni vive tra le persone si esprime in una capacità di solidarietà che è vicinanza al territorio, ascolto dei bisogni, progettualità, come Fondazione San Benedetto vogliamo avanzare una proposta: solo a Brescia città ci sono oltre 51mila nuclei familiari; se ognuno di questi devolvesse 10 euro alla Poliambulanza, questa avrebbe a disposizione 500mila euro da poter investire per rafforzare e potenziare la sua capacità di «prendersi cura». È una proposta semplice: attraverso un piccolo gesto possiamo dare un grande contributo a servizio della nostra comunità. A questo link trovate tutte le indicazioni per le donazioni, oltre alla possibilità sempre valida di destinare anche il 5 per mille con la dichiarazione dei redditi.
A cinque anni dall’incendio che l’aveva devastata ieri a Parigi è stata riaperta la cattedrale di Notre Dame. Oltre duemila gli artigiani, architetti e ingegneri coinvolti, e 250 le aziende, in quello che è ricordato come un restauro colossale. Nel suo messaggio Papa Francesco sottolinea il «grande slancio di generosità internazionale che ha contribuito al restauro», simbolo di un impegno non solo per il campo dell’arte e dell’architettura, ma per il valore sacrale di questo edificio.
«I nostri cuori – aggiunge – hanno sofferto per il rischio di veder scomparire un capolavoro della fede e dell’architettura cristiana, una testimonianza millenaria della vostra storia nazionale. Oggi la tristezza e il lutto hanno lasciato il posto alla gioia, alla celebrazione e alla lode». È bello e rassicurante, scrive il Papa, che le competenze di un tempo siano state sapientemente conservate e migliorate. Francesco evidenzia in quest’opera la capacità di seguire una tradizione, di sentirsi parte di un passato che riemerge: «Hanno seguito le orme dei loro padri, la cui sola fede, vissuta nel lavoro, è stata in grado di costruire un tale capolavoro dove nulla di profano, inintellegibile o volgare trova posto». Su questo avvenimento vogliamo proporvi la lettura di due articoli: il primo di Antonio Socci su Libero ricostruisce cosa rappresenta Notre Dame nella storia della Francia e dell’Europa soffermandosi in particolare sul fatto che la cattedrale sia dedicata alla Madonna e che la riapertura avvenga in occasione della festa dell’Immacolata. Il secondo articolo è di Adrien Candiard sull’Osservatore Romano. Nato e cresciuto a Parigi, con un passato di impegno politico, nel 2006 è entrato nell’ordine domenicano e oggi è priore del convento del Cairo in Egitto. Candiard riflette soprattutto su quale sia la sfida che la riapertura di Notre Dame pone fra la riscoperta della fede e «le brutali realtà del turismo di massa». «Come onorare questa vocazione cristiana nel monumento più visitato del mondo? È la sfida di questa riapertura – conclude Candiard -, una sfida che richiederà non meno creatività, immaginazione e lavoro della ricostruzione dell’edificio. Ma il manto di Maria non è forse abbastanza ampio da coprire e proteggere tutti i suoi figli?».
Questa settimana ci soffermiamo ancora sul Mese Letterario per segnalarvi anzitutto che a questo link, sul sito dell’Associazione Mese Letterario, trovate il video integrale dell’incontro su Omero tenuto pochi giorni fa da Valerio Capasa al Teatro Sociale davanti a oltre 700 studenti delle scuole superiori bresciane. Si è trattato del primo appuntamento del Mese Letterario School edition appositamente ideato per le scuole. Come Fondazione San Benedetto, pur non essendo direttamente coinvolti nell’iniziativa, siamo contenti che dall’idea del Mese Letterario, nata ormai più di quindici anni fa, stiano gemmando nuove proposte attorno alla valorizzazione della letteratura come un formidabile aiuto nel «cammino verso la scoperta di sé stessi». È una storia che continua. Su questo tema vi proponiamo la lettura dell’editoriale di don Luca Montini pubblicato sulla prima pagina del settimanale La Voce del popolo dedicato proprio all’incontro su Omero visto attraverso gli occhi di alcuni studenti. Giovani che, «come Telemaco, sono alla ricerca di sé stessi», non si accontentano di essere spettatori passivi della propria vita e «sono pronti a intraprendere un viaggio».
Come suggerimento di lettura questa settimana vi proponiamo un’intervista inedita di Joseph Ratzinger, pubblicata nel 1988 solo sull’edizione tedesca dell’Osservatore Romano, contenuta nel volume delle sue opere in uscita il 25 novembre. Già allora appariva evidente, e tanto più lo è oggi, che non è più possibile essere credenti «per conformismo» o perché «trascinati dalla corrente». In questo panorama la religione non è sparita ma «va diffondendosi sotto forma di surrogati e degenerazioni». Il ricorso alle superstizioni o ad altre pratiche trascendentali ne sono un esempio. In un ambiente sempre più secolarizzato da dove può arrivare una riscoperta della fede cristiana?
Ratzinger non ha dubbi: «Il Vangelo diviene credibile là dove ci sono persone che se ne lasciano completamente afferrare e dove l’esperimento della vita diventa la sua conferma. Non abbiamo bisogno di ricette (ce ne sono sin troppe), ma di persone che sono colpite dal Vangelo». E poi ci sono «le crepe, nel mondo autoprodotto della banalità», che diventano sempre più evidenti e che possono aprire la strada al riconoscimento che nessun uomo può farsi da solo e all’incontro con Dio.
Il 15 novembre alle 18.15 a Brescia, al Centro Paolo VI, si è svolto l’incontro, promosso dalla Fondazione San Benedetto, sul tema «Tra vita e morte, la vera battaglia» per …
«Della morte è fastidioso parlare perché non abbiamo un rapporto serio con la vita». Lo ha detto Luciano Violante nell’incontro promosso venerdì sera a Brescia dalla Fondazione San Benedetto per presentare il libro dell’ex presidente della Camera «Ma io ti ho sempre salvato». L’aula magna del Centro Paolo VI era gremita di pubblico e una seconda sala era videocollegata. Violante ha risposto ad alcune domande arrivate da persone che hanno letto il suo libro, insieme a don Julián Carrón, docente di teologia alla Cattolica di Milano. È stato un confronto molto intenso, impossibile da riassumere in poche righe; nei prossimi giorni sarà possibile riascoltarlo nel video dell’incontro che metteremo a disposizione online sul sito della fondazione. Qui richiamiamo solo alcuni piccoli flash dagli interventi. Nel libro viene messo a tema il nostro rapporto con la morte non in modo astratto o filosofico, ma partendo dall’esperienza personale dell’autore che mentre lo stava scrivendo ha dovuto affrontare la scomparsa della moglie dopo 56 anni di matrimonio. Per Violante oggi c’è una sorta di assuefazione alla morte. «Assistiamo alle guerre in televisione come se fossero un videogame, tra una notizia e l’altra. Il loro ripetersi ci ha fatto acquisire un sentimento di insensibile convivenza. È come se i meccanismi tecnici tendessero a prevalere dentro di noi. C’è una “cosizzazione” delle persone, persone ridotte a cose e non c’è reazione su questo. Mi pare di assistere a una sofferenza senza misericordia». Per Carrón è il momento di tornare ai fondamentali «per rispondere all’indebolimento della persona. L’Illuminismo ci ha lasciato in eredità una razionalità ridotta a ragione strumentale. Davanti a una tragedia come quella di Valencia ci rendiamo conto che la vita urge. Se ciò che accade non diventa occasione per tornare a farsi domande, per crescere, per aumentare la nostra consistenza umana, ne usciremo ogni volta più indeboliti. Eliot si chiedeva dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo. Non basterà neppure la conoscenza».
La vita, sottolinea Violante, «è una lotta tra il bene e il male.
«Le questioni radicali, oggi, sono la vita e la morte, il significato del vivere, il senso della sua conclusione». Lo scrive Luciano Violante, nel suo libro «Ma io ti ho sempre salvato» (ed. Bollati Boringhieri), che sarà presentato venerdì 15 novembre alle 18.15, a Brescia al Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30, in un incontro promosso dalla Fondazione San Benedetto. L’ex presidente della Camera dei deputati ne parlerà insieme a Julián Carrón, docente di teologia all’Università Cattolica di Milano. In vista di tale appuntamento questa settimana vi proponiamo la lettura di alcuni brevi estratti dal libro di Violante che ci sembrano particolarmente significativi. Nel testo viene messa a tema la questione del rapporto con la morte, partendo dall’esperienza diretta e personale dell’autore raccontata in pagine molto toccanti. «Nei momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando, è necessario porsi le domande cruciali del convivere civile, imporci di tornare ai fondamentali. Quando la tenuta stessa della società civile sembra essere messa in discussione conviene fermarsi e domandarci quale sia il collante che ci tiene uniti, quale il criterio che sopra ogni altro può farci restare umani».
Ricordiamo che la partecipazione è aperta a tutti sino a esaurimento posti, previa registrazione a questo link dove è possibile iscriversi immediatamente. Chi intendesse partecipare e non si fosse ancora iscritto è invitato a farlo al più presto, in quanto, avendo già ricevuto molte richieste, stiamo valutando la possibilità di predisporre una seconda sala videocollegata.
Le elezioni americane, con la polarizzazione mai vista prima, sintomo di un paese spaccato, al di là del risultato che martedì uscirà dalle urne, sono lo specchio della crisi che le società occidentali e i sistemi democratici stanno attraversando. Siamo alla fine di un mondo? Su questo tema segnaliamo il commento, pubblicato dal sito inglese di opinione UnHerd e ripreso dal Foglio, di David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore statunitense, oltre che Premio Pulitzer per i suoi lavori teatrali. Figlio di una famiglia di genitori ebrei originari della Russia, Mamet ha sviluppato una «forma di insofferenza viscerale verso il perbenismo della cultura dominante». Per lui «oggi, non stiamo semplicemente assistendo, ma partecipando a uno spostamento di civiltà». C’è il rischio che al nostro mondo accada come al «viaggiatore verso una civiltà scomparsa da tempo che guarda, senza comprendere, le rovine della Cattedrale di San Paolo». Le considerazioni di Mamet sono volutamente provocatorie, ma portano allo scoperto le comode ipocrisie dietro cui spesso ci si trincera addossando le responsabilità a qualche capro espiatorio, a «una causa sopportabile nelle vicinanze».
«In questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte. Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede. Nella società di oggi, l’essere umano rischia di smarrire il centro, il centro di se stesso. L’uomo contemporaneo, infatti, si trova spesso frastornato, diviso, quasi privo di un principio interiore che crei unità e armonia nel suo essere e nel suo agire. Modelli di comportamento purtroppo assai diffusi ne esasperano la dimensione razionale-tecnologica o, all’opposto, quella istintuale. Manca il cuore». Lo scrive Papa Francesco «nella sua nuova lettera enciclica Dilexit nos pubblicata giovedì (qui il link al testo integrale). Il vaticanista del Corriere della Sera Gian Guido Vecchi, nell’articolo che vi segnaliamo questa settimana, la definisce «la più sorprendente e forse anche la più bella del suo pontificato». Un’enciclica dedicata all’amore umano e divino del Cuore di Gesù. Scrive ancora il Papa: «il modo in cui Cristo ci ama è qualcosa che Egli non ha voluto troppo spiegarci. Lo ha mostrato nei suoi gesti. Guardandolo agire possiamo scoprire come tratta ciascuno di noi…».
Martedì si è tenuto a Brescia l’incontro sul Libano promosso dall’associazione La Speranza con il sostegno anche della Fondazione San Benedetto. La sala era piena e la serata è stata un’occasione puntuale per documentare la gravissima crisi che nelle ultime settimane ha investito il Libano. Come ha spiegato la presidente dell’associazione Amal Baghdadi, sono oltre un milione gli sfollati costretti a lasciare il sud del paese schiacciato nella morsa della guerra tra le milizie di Hezbollah e l’esercito israeliano. Anche la capitale Beirut è stata colpita dai bombardamenti. Una escalation «pericolosissima», come l’ha definita l’ex ministro della Difesa Mario Mauro, che si innesta sulla situazione da paese in bancarotta che il Libano sta attraversando ormai da diversi anni. Di quello che in passato era definito la Svizzera del Medio Oriente, dove etnie e religioni diverse hanno sempre convissuto, non resta più nulla. Adesso la priorità è mettere in salvo e aiutare la popolazione vittima inerme del conflitto. Graziano Tarantini per la San Benedetto e Michele Brescianini di Punto Missione hanno illustrato alcune iniziative concrete di aiuto in atto o già realizzate sia in Libano che ad Aleppo in Siria. L’associazione La Speranza ha lanciato una raccolta fondi alla quale è possibile contribuire con donazioni sul conto corrente IT79X0501811200000017230673 (Banca Popolare Etica – Filiale di Brescia – Detrazioni 35% per i privati, 10% per società ed enti, con la causale: erogazione liberale a favore de La Speranza Odv – Brescia).
Stiamo attraversando lo stesso «crinale della storia pericolosissimo», segnato dalle guerre, che ha ricordato la scrittrice Susanna Tamaro nella bellissima lezione tenuta mercoledì all’inaugurazione della Buchmesse, la fiera del libro di Francoforte, di cui vi riproponiamo un estratto pubblicato dal settimanale del Corriere la Lettura. Niente di accademico, ma un atto d’amore verso l’Italia, un paese dove «tutto è troppo», a cominciare dalla bellezza. Una bellezza che si è espressa con una luce particolare nell’opera di San Benedetto piuttosto che nelle terzine di Dante o nella letteratura come vero «antidoto al Paese dei Balocchi perché richiede impegno, ci spinge a conoscere altri mondi, a coltivare il dubbio, la curiosità e, soprattutto, l’apertura della mente».
I venti della guerra e dell’odio soffiano sempre più forti. Di fronte a una guerra «che sembra non avere fine, e che sta seminando morte e distruzione, non solo nelle strutture fisiche, ma anche nella vita delle persone, nelle relazioni a ogni livello», c’è la necessità «di non perdere la nostra umanità». Lo ha scritto il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa all’indomani della commemorazione del 7 ottobre. Noi, nel nostro piccolo, vogliamo farlo questa settimana proponendovi, attraverso la lettura di due articoli, le storie di due persone che hanno affermato con il loro esserci un amore per la vita più forte della morte e della volontà di ridurre tutto a nulla, anche dentro situazioni molto drammatiche. La prima è la storia di Sammy Basso che ha colpito tutti non per la sua malattia, ma per come ha saputo stare di fronte a questa vivendo fino in fondo. Ne è una prova la sua straordinaria lettera-testamento, letta venerdì durante il funerale che trovate a questo link. Come scrive Federico Pichetto nell’articolo pubblicato dal quotidiano online ilsussidiario.net, la sua esistenza per Sammy non è stata «una via angusta che il tempo priva d’ogni gioia e d’ogni possibilità, bensì come il luogo di una festa». Una positività contagiosa che investe tutto come ha detto la madre di Sammy in un’intervista al Corriere: «Dai suoi 14 anni abbiamo vissuto con lui ringraziando ogni giorno. Ci svegliavamo al mattino dicendo: “Che bello che sia qui anche oggi”». La seconda storia che vi segnaliamo è quella di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco scomparso il 9 ottobre di cinquant’anni fa, che salvò più di mille ebrei dallo sterminio della Shoah, e la cui vicenda è stata raccontata da un celebre film di Steven Spielberg. In un articolo sull’Osservatore Romano il direttore Andrea Monda scrive: «Fu un grande, grandissimo imprenditore. Si pose davanti il dilemma che il filosofo danese Kierkegaard ha posto di fronte ad ogni uomo quando ha scritto che “osare è perdere momentaneamente l’equilibrio. Non osare è perdere per sempre se stessi”, e seppe rispondere. Forse i grandi della storia devono essere “squilibrati”. Solo così Oskar riuscì a dare un colpo all’asse terrestre che ruotava pigramente sempre su se stesso re-indirizzandolo verso un altro orizzonte, più umano». La sua storia è la dimostrazione concreta che la nostra felicità, che il compimento di ciascuno, non dipendono dagli Stati o da chi ci governa anche quando possono essere di nostro gradimento.