Dopo l’assassinio di Charlie Kirk si sono innescate da fronti opposti contrapposizioni molto dure con episodi di violenza verbale, arrivando in qualche caso anche a giustificare quanto è successo. Respingiamo le strumentalizzazioni da qualunque parte provengano che diventano sempre una comoda cortina fumogena che impedisce di guardare la realtà. Ci interessano invece i fatti. E un fatto che senz’altro colpisce è quanto accaduto in occasione dei funerali di Kirk con il gesto di Erika, la vedova di Charlie, che ha pubblicamente perdonato il giovane che le ha ucciso il marito. Un gesto spiazzante, disapprovato dal presidente Trump, che trova la sua unica ragione nella fede in Chi ha detto «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno», come ha detto Erika. È un fatto su cui riflettere, che zittisce letture sociologiche o visioni ideologiche, e pone la questione della presenza della fede nello spazio pubblico. Su questo tema vi proponiamo la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara, pubblicato dal Foglio, per il quale non si può liquidare tutto come fanatismo. Il primo passo è cercare di capire il mondo nel quale viviamo senza paraocchi. Oggi l’Europa e l’America sono su due sponde opposte. «In Europa – scrive Ferrara – la laicità è laicismo, ideologia della separazione tra Chiesa e stato divenuta nel tempo esclusione della fede dallo spazio pubblico, fatto di procedure democratiche che si presumono ideologicamente neutre e impermeabili al credo personale e collettivo, accuratamente scristianizzate. In America è diverso, la laicità è la convivenza libera di ricerche di fedi diverse, alle quali lo stato garantisce la piena agibilità senza preferenze o esclusioni, con un riconoscimento simbolico e non solo simbolico, presente nella cultura di massa e nello spazio pubblico dagli albori della Repubblica americana, della centralità di Dio e dell’esperienza del trascendente nella vita personale e in quella della società». L’America senz’altro per molti aspetti oggi può inquietare le nostre coscienze «liberali», ma siamo sicuri che un’Europa che rinnega le proprie radici, in nome di una presunta neutralità ideale, culturale, morale, esaltando i soli diritti individuali, non rischi di implodere su se stessa? Si chiede Ferrara: «Può resistere e fortificarsi una democrazia che s’ingegna a considerarsi neutra, che esclude famiglia, fede e libertà come aspirazione collettiva invece che come emancipazione e teoria dei diritti individuali?». In particolare sul significato del gesto di Erika Kirk vi segnaliamo anche l’articolo di Pietro Baroni, pubblicato dal quotidiano online ilsussidiario.net: «Perché siamo tutti bravissimi – scrive – a gridare pace e ancor più frettolosi a schierarci dalla parte giusta, quella dei buoni che combattono i cattivi; ma nessuno ha più la forza di usare l’unica parola che può portare la vera pace: perdono».
Venerdì 24 ottobre alle 18.30, a Brescia nella Sala convegni della Poliambulanza, in via Bissolati 57, la Fondazione San Benedetto propone un incontro-dialogo con Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, sul tema «Da Papa Francesco a Papa Leone, le nuove sfide per la Chiesa». Introduce l’incontro Piergiorgio Chiarini. La partecipazione è aperta a tutti previa registrazione e sino a esaurimento posti.
L’elezione di papa Leone XIV è stata senza dubbio una sorpresa. Spiazzante e, quindi, salutare. Previsioni e congetture si sono dissolte in un attimo come neve al sole. Perciò in …
«L’uomo che vuole fare senza Dio, fallisce. Alla fine dei conti, arriva a fare esperienza di vuoto. Di vuoto di senso. Non riesce a costruire prospettive a lungo termine. In questa società post secolare l’uomo è rimasto con la fame dentro. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Mi viene ora in mente l’Inquisitore dei Fratelli Karamazov, “dategli il pane e staranno bene!”. Diamo il pane, diamo la giustizia umana… tutte cose che abbiamo già visto. Poi l’uomo si accorge che resta affamato, alla ricerca di qualcosa che gli riempia la vita e il cuore. Lì la Chiesa deve intervenire con la sua proposta». A parlare così è il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista davvero interessante pubblicata dal Foglio, che vi vogliamo proporre come lettura in occasione di questa Pasqua 2025. Un testo da leggere con grande attenzione che contiene passaggi illuminanti che vanno al cuore dei problemi di oggi. Nell’intervista Pizzaballa si sofferma sull’attuale situazione in Terra Santa, dove «niente tornerà più come prima», per passare poi alla crisi della Chiesa e al tema della fede. «Non dobbiamo temere i cambiamenti – sottolinea il patriarca -, non dobbiamo vivere di paura. Sta finendo un modello di Chiesa. Credo che Benedetto XVI l’abbia detto bene: sappiamo che sta finendo qualcosa ma non sappiamo come sarà dopo. Si definirà col tempo. Anche questa crisi, dunque, produrrà qualcosa. Le nostre valutazioni sono sempre molto umane, c’è la tentazione del potere, dei numeri, della visibilità. Ci sta anche, eh. Dobbiamo essere visibili. Ma non dobbiamo temere più di tanto questo, perché c’è anche Dio, c’è anche lo Spirito Santo. C’è la Chiesa che, attraverso la testimonianza di tante realtà, crea ancora qualcosa di buono. Non avrei troppa paura. Bisogna preoccuparsi, e lo ripeto, di essere autentici, genuini. La Chiesa non deve fare marketing: la Chiesa deve dire che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo». Quello di Pizzaballa è anche un forte invito a riscoprire la differenza che il cristianesimo introduce nella vita dell’uomo e della società: «Il rischio – spiega – c’è sempre, sia nella Chiesa sia fuori dalla Chiesa, quello di non complicarsi la vita, di stare nell’ordinario, fatto di orizzonti normali, che stanno dentro una comprensione solo umana. Mentre invece l’incontro con Dio rompe sempre gli schemi e su questo il cristianesimo deve fare la differenza. Se non la fa, puoi avere anche tante chiese e belle basiliche, ma diventi irrilevante perché non hai niente di importante da dire».
Riprende da oggi il nostro appuntamento settimanale con la newsletter domenicale «Fissiamo il pensiero». È il primo del 2025, un anno che coincide con i vent’anni di presenza della Fondazione San Benedetto. Iniziamo questo nuovo tratto di strada ringraziando tutti coloro che ci seguono, con la speranza di poter continuare a offrire ogni settimana un piccolo contributo utile a ciascuno e alla vita comune attraverso la proposta di spunti di lettura. Non un flusso continuo di informazioni e di opinioni, ma semplicemente la segnalazione di un articolo o di un testo su cui fissare l’attenzione e il pensiero, oltre che delle iniziative che la fondazione promuoverà nel corso dell’anno.
Questa settimana vi suggeriamo la lettura dell’intervista al Foglio di Erik Varden, 50 anni, vescovo cattolico in Norvegia. «Avere speranza come cristiani – sottolinea nell’intervista – non significa aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene. Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà». Dopo essere cresciuto in una famiglia agnostica, Varden si è convertito dopo aver ascoltato una sinfonia di Gustav Mahler, abbracciando la fede cattolica a 19 anni. Monaco cistercense ha insegnato a Cambridge prima di essere nominato vescovo in un paese fra i più secolarizzati come la Norvegia. Pubblicata in occasione dello scorso Natale, l’intervista merita di essere letta integralmente per la bellezza e l’intelligenza delle risposte mai appiattite sui soliti cliché.
Come suggerimento di lettura questa settimana vi proponiamo un’intervista inedita di Joseph Ratzinger, pubblicata nel 1988 solo sull’edizione tedesca dell’Osservatore Romano, contenuta nel volume delle sue opere in uscita il 25 novembre. Già allora appariva evidente, e tanto più lo è oggi, che non è più possibile essere credenti «per conformismo» o perché «trascinati dalla corrente». In questo panorama la religione non è sparita ma «va diffondendosi sotto forma di surrogati e degenerazioni». Il ricorso alle superstizioni o ad altre pratiche trascendentali ne sono un esempio. In un ambiente sempre più secolarizzato da dove può arrivare una riscoperta della fede cristiana?
Ratzinger non ha dubbi: «Il Vangelo diviene credibile là dove ci sono persone che se ne lasciano completamente afferrare e dove l’esperimento della vita diventa la sua conferma. Non abbiamo bisogno di ricette (ce ne sono sin troppe), ma di persone che sono colpite dal Vangelo». E poi ci sono «le crepe, nel mondo autoprodotto della banalità», che diventano sempre più evidenti e che possono aprire la strada al riconoscimento che nessun uomo può farsi da solo e all’incontro con Dio.
C’è la fede semplice e genuina delle 600 mila persone di Timor Est o dei poverissimi abitanti dei villaggi fra la foresta e il mare in Papua Nuova Guinea che hanno accolto Papa Francesco durante il suo recente viaggio in Asia e Oceania. E pochi giorni fa, nell’udienza del mercoledì, ricordando il suo viaggio, il Papa si è detto «colpito dalla bellezza» di quei popoli «provati ma gioiosi». «Ho respirato aria di primavera», ha aggiunto, sottolineando di aver trovato una Chiesa «molto più viva in quei paesi». Una Chiesa che cresce non per proselitismo ma «per attrazione». E poi c’è la Chiesa stanca e autoreferenziale dei paesi europei che, nel deserto di umanità del mondo occidentale, sembra aver dimenticato l’originalità della fede in Gesù Cristo, preferendo occuparsi di altro. È un raffronto spiazzante che costringe chi crede a interrogarsi su cosa ne ha fatto della propria fede. Scrive Matteo Matzuzzi nell’articolo apparso sul Foglio di cui vi proponiamo la lettura: «Si è proprio sicuri che la fede genuina e semplice sia quella dei Sinodi infiniti che producono documenti, tabelle, schemi, strumenti di lavoro. Sinodi che vorrebbero combattere l’autoreferenzialità e poi finiscono per chiudersi in Vaticano per settimane a discutere di questioni che il mondo, fuori, conoscerà solamente attraverso sintesi e mediazioni? Si è proprio certi che ai popoli di Timor Est, di Singapore, ma anche al piccolo gruppo di fedeli della Mongolia o a quelli di Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino sinodale tedesco che tra un cenacolo sulla collegialità e l’istituzione di un Comitato ad hoc punta a rovesciare la struttura gerarchica della Chiesa? S’è mai domandato, qualcuno, perché i seicentomila cattolici riuniti per accogliere il Papa e pregare con lui siano tutti a Timor est e non nelle spianate bavaresi o nella Grand Place di Bruxelles?»
Oggi e domani a Brescia si vota per eleggere sindaco e consiglio comunale. In tale occasione suggeriamo la lettura di un recente intervento di monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia, a un gruppo di cattolici impegnati in politica a livelli diversi e pubblicato sulla rivista Tempi. La domanda è se per un cristiano non ci sia qualche cosa che viene prima di ogni preferenza partitica o scelta elettorale. È possibile quindi un lavoro comune tra coloro che hanno la stessa fede, anche se militano in schieramenti differenti, o l’appartenenza di partito è più importante? «Il fondamento della vostra vita non è la politica – sottolinea Camisasca -. Se la speranza fosse la politica voi sareste più miseri di tutti gli altri». Una strada forse impervia ma necessaria per non rendere irrilevante la fede. Altrimenti «quale senso avrebbe per un credente impegnarsi in politica?».