I recenti fatti di sangue che hanno visto dei giovani come protagonisti (dall’omicidio di Sharon alla strage familiare di Paderno Dugnano, ai vari accoltellamenti) ripropongono prepotentemente da un lato il tema della «presenza attiva del male» nella nostra vita e dall’altro la necessità dell’educazione come unico antidoto contro il venir meno dell’umano. In questi giorni abbiamo letto o sentito tante analisi sociologiche o psicologiche alla ricerca dei colpevoli o delle cause recondite di quanto è accaduto, mentre in realtà siamo di fronte a fatti che sfuggono alle nostre anguste spiegazioni. L’educazione non è certo un insieme di regole o di buone maniere e non ha niente a che vedere con qualche richiamo moralistico. È «un cammino» che richiede un lavoro su di sé e che «dovrebbe proseguire tutta la vita», come sottolinea Susanna Tamaro nell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera di cui vi consigliamo la lettura questa settimana. «Il culto del bambino perfetto», oggi molto diffuso, – continua la scrittrice – è uno «straordinario salto indietro fatto dalla società postmoderna». Nel compito dell’educazione un ruolo, non esclusivo ma fondamentale, lo ricopre la scuola. Tra pochi giorni alcuni milioni di bambini e ragazzi torneranno nelle aule. In vista di questo appuntamento vi proponiamo l’articolo di Sergio Belardinelli apparso sul Foglio. A proposito del processo educativo scrive: «Anziché coltivare la gratuità di un processo che di per sé non serve a nulla, se non a diventare noi stessi, abbiamo preferito finalizzare l’educazione alle esigenze della società. Ci ricordiamo le famose tre “I”: Inglese, Informatica e Impresa? La scuola deve servire a questo, deve servire a quest’altro, mettendoci dentro ognuno ciò che ritiene più importante. Ma un progetto educativo non è, non può essere, un progetto tecnico; è un processo di generazione di una persona e quindi fondamentalmente gratuito, sempre esposto al rischio della libertà che ciascuno di noi è».
Si è chiuso da pochi giorni l’anno scolastico e mercoledì inizieranno gli esami di maturità. Spesso la scuola e i ragazzi che la frequentano finiscono sotto i riflettori per le situazioni problematiche, che certo non mancano, o per gravi episodi di cronaca, ma non possiamo accettare che questa sia l’unica narrazione. Semplicemente perché non rappresenta la realtà. Lo documenta in modo singolare e autentico quanto ha scritto ai suoi compagni Francesco, uno studente di Brescia, al termine di cinque anni di vita condivisa, giorno dopo giorno, sui banchi di scuola. Nel testo emerge una coscienza della realtà matura e positiva. Si coglie un senso delle relazioni con gli altri e del tempo che abbiamo a disposizione che con semplicità esprime qualcosa di estremamente vero. «Mi siete entrati nel cuore – scrive Francesco -, c’è poco da dire, mi avete permesso di riscoprire emozioni che ormai credevo perdute, di riscoprire come ci si sente a casa quando non lo si è. Mi guardo attorno e mi rendo conto che queste pareti, questi corridoi, questi momenti non sono più scontati». Questa consapevolezza vale molto di più di qualunque titolo di studio perché è la condizione per ogni vera conoscenza. Possiamo dire che è la vera prova di maturità. Ed è un motivo di speranza che possa farsi strada in un diciottenne che frequenta le nostre scuole, dove gli insegnanti (insieme agli infermieri e alle badanti) sono i veri eroi del nostro tempo.
Il 22 maggio sono stati ricordati i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni. L’anniversario è stato celebrato con una cerimonia ufficiale nella casa milanese dello scrittore, che ha visto gli interventi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del presidente emerito del Centro Studi Manzoniani Giovanni Bazoli, discorsi a cui la stampa ha dedicato ampio spazio e a cui rimandiamo per la lettura. Nella nostra newsletter di oggi vogliamo invece segnalare l’articolo di Valerio Capasa pubblicato su ilsussidiario.net. Relatore sempre molto apprezzato del Mese letterario, Capasa cala l’opera di Manzoni dentro la realtà della scuola e della società di oggi alle prese con il grande compito dell’educazione e si sofferma su donna Prassede, personaggio apparentemente secondario dei Promessi Sposi. Una figura «molto inclinata a far del bene» che incarna un atteggiamento molto diffuso dal quale stare in guardia.
Dopo la decisione del governo di aggiungere al nome del Ministero dell’Istruzione la parola merito si è sviluppato un ampio dibattito. Ma è davvero il merito la questione prioritaria per le nostre scuole che si trovano da tempo in una situazione di grande disorientamento sulla loro stessa missione? E qual è l’idea di merito che abbiamo? Non c’è prima di tutto un problema che riguarda gli insegnanti, sempre più ostaggio della burocrazia scolastica, e la qualità dell’insegnamento? Per questo ci riconosciamo nella posizione espressa nell’articolo pubblicato sul quotidiano online ilsussidiario.net che segnaliamo questa settimana: “Sarebbe tutto più facile se invece di affrontare tutto in modo teorico e dall’alto in basso si imparasse dall’esperienza: non mancano nella scuola tanti professori seri, stimati, amati, capaci di impegnare gli studenti e così lasciando a loro qualcosa di prezioso”. Forse proprio da qui si dovrebbe ripartire, è questo il vero “merito” che ci interessa.