Apollo 11
(Dal Corriere della Sera di Alessandro D’Avenia)
“Quindi potresti non tornare?”. Il figlio di Neil Armstrong fissa il padre, facendogli proprio la domanda che rimbalza da mesi nella testa dell’astronauta. «Esatto», risponde serio e distaccato, senza edulcorare la verità, da uomo a uomo, più che da padre a figlio, alla vigilia del viaggio che lo porterà a posare, primo nella storia, un’orma umana sulla Luna, con l’undicesima missione del programma Apollo. Il piccolo, orgoglioso, gli stringe la mano, come aveva visto fare nelle occasioni ufficiali. C’è qualcosa di asciuttamente epico in questa scena di First Man, il film che racconta il lungo viaggio di Armstrong verso il fatidico 20 luglio 1969. La posta in gioco non è solo la lotta per la supremazia, in piena guerra fredda, tra Russi e Americani, e neanche il superamento della frontiera delle scoperte scientifiche. C’è il dramma di un padre che, persa la figlia di due anni per un tumore, intraprende un viaggio decisivo verso l’ignoto: per lui la Luna è una porta chiusa come il dolore. Il nostro fedele satellite è sempre stato l’interlocutore di domande su cui continuiamo a interrogarci: «Dimmi, o luna: a che vale/al pastor la sua vita,/dimmi: ove tende/questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?», si chiede infatti il pastore errante di Leopardi.