Le parole prime
(Dal Corriere della Sera di Alessandro D’Avenia)
Gli occhi dei bambini sono così aperti che la responsabilità per ciò che racconterò mi fa trepidare. Sono più di duecento quegli occhi puntati su di me, sei terze classi della primaria. Il tema dell’incontro è affascinante ma impegnativo: come si scrive un diario? Vedo le loro dita, capaci di una grafia ancora acerba, in attesa sulle pagine bianche. Ho cominciato leggendo l’inizio di Oscar e la dama in rosa di Eric Emmanuel Schmitt: il protagonista è un bambino di 10 anni che, nei giorni della sua degenza in ospedale, decide di scrivere un diario rivolgendosi a Dio. Sin dalle prime righe emerge che tenere un diario significa non poter mentire a se stessi. Questo genere di scrittura, oggi più che mai, è necessario per bambini e adolescenti, perché nasce dal bisogno di ritrovare l’io perduto. In un tempo come il nostro in cui l’io è disgregato, frammentato, confuso, per ragioni culturali e relazionali, scrivere un diario è un modo in cui ci si concede la possibilità di non perdersi nel caos e non essere schiacciati dalla vita. La frammentazione o destrutturazione della cosiddetta «conversazione interiore», l’originaria capacità che abbiamo di dire «io», oggi ferisce a morte la crescita personale. La solidità della conversazione interiore è ciò che ci consente di diventare «soggetto» (ciò che sta sotto): l’io a fondamento di tutti gli io provvisori che indossiamo a motivo di ruoli e compiti. Senza l’io-soggetto ci dissolviamo, con grande sofferenza, nei centomila e nessun io che le circostanze della vita richiedono…