Gli occhi dentro il tormento: incursioni nel romanzo del Novecento
(Da ilsussidiario.net di Valerio Capasa)
Il bisogno di storie, non fosse che per Instagram e le serie tv, parrebbe un dato inoppugnabile nel nostro tempo, con la significativa variante, tuttavia, del prodotto usa e getta: si guarda, si legge, poi tutto rimane in equilibrio e si rimodella nella forma precedente. Esistono libri, però, che non è il caso di leggere prima di andare a dormire: non mettono l’anima in pace, la rendono anzi insonne e squilibrata. Quel «represso gemito / di cui non si sa, di cui non si dice», come lo chiamava Pier Paolo Pasolini, tremerebbe intrappolato nelle «segrete gallerie dell’anima» (per dirla con Machado) se qualcuno non riuscisse nel miracolo di inseguirlo nel dipanarsi di una storia. Chi scrive si ritrova «senza consiglio e non può darne ad altri», perché «l’incommensurabile della vita umana» di cui parla Walter Benjamin nel saggio Il narratore, rilutta a ogni velleità di sistemare l’esistenza: «pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente», che in fondo in fondo si sente troppo spesso fuori posto e di se stesso comprende appena due briciole. Guardare in faccia lo «smarrimento con cui il lettore si vede inserito in questa vita determinata», senza diluirlo nella staticità di appaganti aforismi, è uno dei tremendi rischi che gli scrittori corrono: la caccia al «“significato della vita” è giusto il centro intorno a cui ruota il romanzo».