Lettera dalla trincea
L’esperienza di un medico dell’ospedale “Sacco” di Milano, tra i malati dove è scomparso perfino il lamento (Da Il Foglio, di Amedeo Capetti)
Al direttore
Sono un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, fino a ieri esperto di terapia antiretrovirale con 650 pazienti sieropositivi per Hiv, catapultato poi come tutti in reparto Covid. Oggi ho un attimo di pausa e le scrivo per condividere i pensieri che mi affollavano la testa questa mattina mentre guidavo per venire in ospedale.
Il primo pensiero era stridente rispetto al forzato ottimismo che vedo in giro in questi giorni, gli applausi, la nuova idolatria per la classe medica e infermieristica. Sono, a mio parere, tutti comprensibili tentativi di esorcizzare una umanissima paura, ma deboli quanto al contenuto. Ce la faremo, infatti, cosa significa? Che dobbiamo guardare solo alla fine dell’epidemia saltando la drammaticità del presente? E poi: chi ce la faremo? Io e lei che ci scriviamo? Il popolo italiano inteso astrattamente? Tutto questo mi convince poco e mi lascia francamente perplesso.