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Voto incerto negli Usa divisi

  • Data 25 Ottobre 2020

«Quando ventisei anni fa ho lasciato Pesaro per trasferirmi negli Stati Uniti il presidente era il garante dell’unità nazionale, una volta eletto era il rappresentante di tutti. Oggi non è più così. Il tasso ideologico è aumentato moltissimo e il paese è profondamente spaccato». Riro Maniscalco è un conoscitore dell’America profonda. A questa da italiano trapiantato negli Usa alcuni anni fa ha dedicato anche un libro intitolato «Mi mancano solo le Hawaii». A 65 anni dopo aver vissuto per oltre 25 a New York, si è spostato nel Minnesota. Da là, nel cuore del Midwest, dove in questi giorni è già arrivata la prima neve, si è collegato venerdì sera per un dialogo organizzato dalla Fondazione San Benedetto in vista delle elezioni presidenziali e all’indomani dell’ultimo confronto fra i due sfidanti, Donald Trump e Joe Biden.
«Al di là dei sondaggi il risultato è apertissimo, ci sono una marea di incerti. Io stesso ho ancora il ballot (la scheda elettorale) sulla scrivania e non ho ancora deciso cosa fare. Già 40 milioni di americani si sono espressi col voto postale, un numero altissimo. E per la prima volta si sente parlare della possibilità di brogli elettorali. Ad aggiungere preoccupazione al quadro generale c’è il fatto che gli americani non provano particolare entusiasmo per nessuno dei due candidati», ha spiegato Maniscalco. Proprio questa mancanza di entusiasmo verso i due candidati è forse il dato che carica di incognite la sfida elettorale dentro un paese fortemente lacerato. «Trump non ha alcun interesse all’unità nazionale, è divisive, se non fosse così sin dal primo giorno dopo la sua elezione si sarebbe preoccupato di conquistare l’altra metà del paese che non l’aveva votato. Bisogna però essere consapevoli che Trump non è spuntato fuori dal nulla. È l’esito di un processo di ideologizzazione che ha investito gli Usa e che ha avuto il suo apice con la presidenza di Obama. Un processo che ha trasformato l’avversario politico in nemico. In fondo Trump è la risposta di una certa America dimenticata che vuole riconquistare il suo spazio. Ci sarebbe da chiedersi quanti sono i cripto-elettori di Trump che non ne possono più della politica correctness e che pubblicamente non ammetterebbero mai di aver votato per lui».
Dall’altra parte, Biden potrebbe essere la carta dell’America cosiddetta giovane ma «in realtà – sottolinea Maniscalco – non c’è alcun entusiasmo per candidati come lui. È votabile solo perché si ha in odio l’attuale presidente e si teme per il bene del paese, ma non si può dimenticare la violenza ideologica dell’establishment del partito Democratico: incarna l’idea di uno Stato che viene a dirmi chi essere, cosa fare, come tirare su i figli, come curarmi, come difendere ciò che ho costruito. Siamo dunque chiamati a scegliere tra l’illibertaria ideologia democratica e la prepotenza di Trump che spacca il Paese». Insomma due espressioni politiche in apparenza opposte, in realtà molto simili nella loro incapacità di ascoltare l’altro, di accoglierne bisogni ed esigenze, di immaginare creativamente un nuovo volto oggi per il sogno americano.

QUANTO al bilancio della presidenza uscente non si può certo dire che Trump non abbia fatto. «È stato forse il presidente più attivo degli ultimi decenni ma il prezzo pagato è stata la lacerazione del paese. Si sono approfondite le fratture che erano latenti. Giustificata dall’esigenza di favorire il business abbiamo assistito a una gestione disastrosa dell’epidemia o alla costruzione di un muro ai confini del Texas con la separazione di centinaia di minori immigrati dalle loro famiglie. Contraddizioni e prepotenze sono state un carattere distintivo della sua presidenza. Basti considerare – ha aggiunto Maniscalco – che di tutti i collaboratori di cui si era attorniato all’inizio del suo mandato nessuno è rimasto. Uno alla volta sono stati fatti fuori tutti». Del resto è solo lui a fare o disfare. Questo è il personaggio e lo si è visto anche nell’ultimo confronto elettorale con Biden di giovedì. «Nessuno dei duellanti ha detto nulla di veramente nuovo – ha spiegato Maniscalco -, ma anche un ascoltatore un po’ distratto o scarsamente preparato è riuscito a capire che meglio o peggio che siano le proposte dei due l’unico convincente è Trump come quando rivolgendosi a Biden gli ha detto: “Sei stato Vicepresidente per otto anni e non hai fatto nessuna delle cose che stai promettendo di fare…”. E non è questione di “verità”. Quante ne ha dette Trump rispetto al virus? Eppure basta un suo “non possiamo chiuderci nello scantinato come fa Joe” per fargli conquistare tre quarti del palcoscenico… E nella sua mania di onnipotenza, parlando di rapporti razziali è arrivato persino a dire che “forse l’unico che ha fatto qualcosina più di me per la comunità di colore è stato Abraham Lincoln… forse”. Eppure in qualche modo è sempre lui a prevalere, mentre Biden un po’ alla volta sembra perdere energia».
Quanto alla contestata nomina della conservative Amy Barrett come giudice alla Corte suprema Maniscalco non vede alcuna forzatura, rientra appieno nel sistema di Checks and Balances previsto dalla Costituzione americana. In passato ci avevano provato anche i democratici con Obama a nominare un giudice della loro area ma poi in Senato non era passato. «Se questa volta passerà è perché ci sono i numeri per farlo, ma è normale».
A poco più di una settimana dal voto rimane dunque una grande atmosfera di incertezza che i due candidati non sembrano in alcun modo essere in grado di dissipare.

di Piergiorgio Chiarini

Bresciaoggi, 25 ottobre 2020

 

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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