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Il virus del Mondo Nuovo

  • Data 1 Novembre 2020

Fabrice Hadjadj è filosofo, direttore dell’Institut Philanthropos, luogo di formazione all’antropologia cristiana situato a Friburgo, in Svizzera. E’ una delle voci più originali e ascoltate della cultura francese. Col Figaro, Hadjadj parla della pandemia. Del timore che finiremo per abituarci a questo mondo senza volti e senza contatti. “Ahimè, la nostra iperadattabilità fa sì che ci abituiamo a tutto. Sono esistite delle tribù dove ci si trapanava il cranio o si inseriva un grande disco nel labbro inferiore, e ci sono stati nel passato dei rituali imperiali dove ci si salutava a distanza, facendo due passi in avanti, tre indietro, poi ancora mezzo passo verso destra. Al di là della loro evidente utilità, la mascherina e il gel idroalcolico possono essere considerati come gli ornamenti di una nuova popolazione esotica. C’è in noi una comprensione simbolica del mondo, prima di qualsiasi ricerca dell’utile. Ma in questo momento proponiamo i simboli di un rapporto funzionale al mondo, che si vorrebbe allo stesso tempo edonista e igienista. Qualcosa che potremmo chiamare il “preservativo integrale”. E’ assai buffo vedere degli uomini mascherati indignarsi per una donna velata all’Assemblea nazionale. La mascherina obbligatoria per tutti, con il suo rifiuto della responsabilità personale e la sua credenza in una malattia unica, è anch’esso un fondamentalismo. A dire il vero, si oppone meno al burqa che al pennacchio, che è stato il simbolo di un’altra epoca. Prima dell’elmetto mimetico, c’era l’elmo con le piume rosso e bianco che, dal punto di vista utilitaristico e sanitario, è completamente assurdo, perché scopre maggiormente la testa al tiratore che si trova di fronte. Eppure, fino al 1914, dei saint-cyriani, (l’École spéciale militaire de Saint-Cyr è la principale accademia militare francese, e forma i quadri dell’Armée de Terre, ndr) si ripromisero di combattere in uniforme, con pennacchio e guanti bianchi, senza cercare di proteggersi, bensì al contrario esponendo il proprio corpo. In questo modo, si voleva manifestare il proprio onore, ossia che ci si batteva non per il proprio interesse, ma per un bene per cui valeva la pena mettere la propria vita in pericolo, anche a costo di diventare un bersaglio più facile da colpire. La mascherina del personale sanitario in prima linea è associabile a questo pennacchio, ed è per questo motivo che lo amiamo ancora, all’antica. Ma è lecito temere che siamo in un mondo in cui il pennacchio apparirà sempre ridicolo, dove l’eroismo è divenuto pressoché impossibile. Forse è così dalla Grande guerra, appunto. Alcuni uomini sono partiti con uno spirito cavalleresco, e si sono ritrovati di fronte a delle macchine che facevano piovere l’acciaio. I saint-cyriani in casoar furono massacrati in pochissimo tempo. Che cosa può il coraggio nell’èra dei droni e degli algoritmi? Al posto del pennacchio, dunque, la mascherina Ffp2 – ultimo ornamento di un tempo segnato dall’obsolescenza del coraggio.

Le Figaro – I gendarmi non sparano più a vista sui passanti come nel quadro da incubo della Provenza collerica di Jean Giono, ma l’epidemia sembra tuttavia aver resuscitato una forma di timor panico degli altri. Avevamo già difficoltà a “vivere assieme”, e ciò sicuramente non aggiusterà le cose…

Fabrice Hadjadj – Nell’eroismo che ho appena evocato, c’è una dissimmetria fondamentale. Sono pronto a esporre la mia vita per proteggere la vita degli altri. Ecco perché Lévinas parla della relazione con gli altri come “vita pericolosa” e “bel rischio da correre”. Nelle circostanze attuali, tutto è invertito. Proteggo la mia vita evitando di espormi all’altro. Non amo il mio prossimo come me stesso, amo me stesso come il mio prossimo, e spero, per la mia salute, che il prossimo resterà lontano, perché non so quanti germi trasporti con lui. Ieri, ammiravamo il bacio al lebbroso. Oggi, promuoviamo il gesto barriera. C’è soprattutto questa figura terribile dell’“asintomatico”, i cui baci sono tutti baci di Giuda. Tuttavia, sarebbe un errore scivolare, per reazione alla quarantena, nell’apologia del rischio. Il vigliacco non si riscatta diventando temerario. Si tratta di passare a un altro piano, di riconoscere che la vita umana, nelle sue dimensioni più profonde, è sempre oltre il rischio e la riuscita. Il rischio, così come la riuscita, sono relativi a un obiettivo che è stato fissato in anticipo. E’ un rischio ciò che mi impedisce di raggiungere questo obiettivo. E’ una riuscita il fatto di averlo raggiunto. Ma le nostre esperienze più profonde non dipendono dalle categorie legate alla pianificazione. Conoscere la verità non è un vantaggio evolutivo, non è né un rischio né una riuscita. E se ci innamoriamo, se abbiamo dei figli, è allo stesso tempo una grande riuscita e il più grande dei rischi, o piuttosto ciò non rientra nella semplice logistica del calcolo, ma nella logica della vita.

Le Figaro – La smaterializzazione dei rapporti sociali era già in corso prima dell’epidemia, che non ha fatto altro che accelerare alcune trasformazioni (telelavoro, videoconferenze, insegnamento a distanza). L’ecologista probabilmente si rallegra di una tale opportunità di riduzione degli spostamenti e dunque delle emissioni di carbone, ma l’antropologo non dovrebbe lamentarsi di questa virtualizzazione delle relazioni umane?

Fabrice Hadjadj – Ciò che lei chiama smaterializzazione è una rimaterializzazione nascosta, con dei data centers, dei cavi sotto l’oceano, delle centrali nucleari, delle fabbriche in Cina e delle mine in Congo, e infine delle grandi aziende come Google e Netflix, ossia una standardizzazione e una mercificazione mondiale dei rapporti sociali. In occasione dell’influenza di HongKong del 1968, che fece un milione di morti, i governi non hanno confinato, e hanno risposto diversamente al dramma dell’epidemia. Ciò che da noi ha reso possibile l’accettazione del confinamento, ciò che ha uniformato tutte le politiche, è l’impero di internet. Temiamo il “contatto di un caso Covid-19”, ma i nostri “contatti” erano già nei nostri smartphone. Internet non è solo un mezzo di telecomunicazione, è anche una certa rappresentazione della realtà. Il Covid-19 non è la peste nera. E’ allo stesso tempo il virus microbico e il virus digitale: conteggio dei casi diffuso sulla rete, epidemiologia preventiva che si basa su una modellizzazione probabilistica e statistica. I Big Data e l’intelligenza artificiale sono già al potere. Possiamo ridurre il dato del mondo a dei data, ossia a una base di dati da trattare per trovare una soluzione ottimale a un problema. Ma prima del dato in quanto data, c’è il data in quanto donum – in quanto dono. Certo, è una questione metafisica: una certa gratuità è alla base dell’esistenza, e questa gratuità è sia quella dell’assurdo sia quella della grazia. Ma è anche una questione etica: se l’origine di tutto è in un dono, allora devo entrare con gli altri in una comunità di miseria (perché non ho nulla che non ho prima ricevuto) e di mistero (perché non conosco la ragione di questa donazione senza merito). Prendete il lavoro: implica necessariamente qualcosa di utilitaristico, di produttivo e se funziona bene anche a distanza nessun problema… Ma c’è anche il fatto di lavorare con delle persone, di esistere assieme a loro nello stesso tempo e nello stesso luogo, in una sorta di comunità di destino (…). Lo stesso vale per l’insegnamento: si trasmettono dei saperi, certo, ma si fa anche l’esperienza di un incontro con il maestro e con i compagni, non si tratta solo di conoscere qualcosa, ma anche di diventare qualcuno.

Le Figaro – Come può ritenere che non si può insegnare a distanza quando alcune delle vostre conferenze hanno avuto successo su YouTube?

Fabrice Hadjadj – Con YouTube, l’insegnamento è imperfetto. Platone già diffidava del libro che parla benché nessuno parli né risponda. Parlare non è semplicemente dire qualcosa su qualcosa, ma dirlo da qualcuno a qualcuno, in un dialogo che può virare al pugilato, ma che può anche dirigersi verso una conversazione amichevole, dove si parla di bagatelle, si evoca il bello e il cattivo tempo, il gusto del whisky, la musica di Mozart, che non serve assolutamente a nulla, se non a provare piacere di essere lì, insieme (…). Il 14 settembre, nel suo discorso agli “attori dell’economia digitale”, Emmanuel Macron faceva l’apologia del 5G e non temeva di presentare la crisi attuale come un’“opportunità per l’accelerazione delle transizioni che erano già in corso”. Invocava nella stessa frase un “bisogno antropologico” e la “disponibilità dei mercati a investire”. E’ in quel momento che si è dispiaciuti di non essersi trovati di fronte a lui. Non dico che l’avrei attaccato, ma avrei potuto intavolare con lui un dialogo socratico, per verificare se pensava veramente ciò che diceva. Sono sicuro che Macron sappia, in fondo, che l’essenziale accade in 0G.

Le Figaro – Ma allora non bisogna essere contenti, nonostante la scomparsa dei luoghi pubblici, di questo rinnovato interesse per la propria casa, di questo ricentramento sui propri cari?

Fabrice Hadjadj – Forse un certo numero di privilegiati, che conoscono ancora le arti della tavola e del riposo, sanno ancora raccontare delle storie davanti a un camino. Ma bisogna pur ammettere che con gli schermi siamo spesso separati sotto lo stesso tetto, e che questo ricentramento è molto spesso un decentramento verso il virtuale. D’altra parte, il rinnovato interesse che lei menziona presuppone che si abbia una casa – diciamo una casa con giardino, e non un bilocale in un “ghetto”. Il confinamento ha aggravato in maniera violenta le diseguaglianze abitative. I luoghi pubblici, condizione di una vita politica concreta, sono quelli dell’incontro con il prossimo.

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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