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Il Sinodo e il destino della Chiesa

  • Data 17 Ottobre 2021

Il Sinodo sulla sinodalità sarà probabilmente, nonostante l’urticante cacofonia, la principale eredità del pontificato bergogliano. Monsignor Piero Coda, da poche settimane nominato segretario generale della Commissione teologica internazionale, l’ha definito “l’avvenimento ecclesiale più importante dopo il Concilio Vaticano II: “Per la prima volta in duemila anni di storia della Chiesa, un Sinodo è chiamato a coinvolgere tutto il Popolo di Dio”, ha detto a Vatican News. Per la Bbc, “Papa Francesco ha lanciato ciò che qualcuno descrive come il più ambizioso tentativo di riforma cattolica degli ultimi sessant’anni”. Una sorta di Vaticano III, insomma, senza l’impegnativo titolo di Concilio a pesare sull’evento ma con tutti i presupposti per segnare una svolta. “Papa Francesco invita la Chiesa intera a interrogarsi su un tema decisivo per la sua vita e la sua missione: ‘ Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del Terzo millennio’”, si legge all’inizio del Documento preparatorio. Che questo fosse il punto- chiave lo si era già capito all’inizio, nella serata del 13 marzo 2013, con quel riferimento meditato a sant’Ignazio di Antiochia e alla sua massima sulla Chiesa di Roma che presiede nella carità tutte le Chiese. E poi la doppia assise sinodale sulla famiglia, con scrutini all’ulti – mo voto per stabilire se la comunione ai divorziati risposati era cosa da farsi, cardinali su fronti contrapposti divisi tra chi era impegnato a tendere agguati al piano preordinato e chi sguainava le lance a protezione del deposito innovato. Ora si parte con un percorso lungo, “dal basso”, come più volte è stato ripetuto: prima nelle diocesi, quindi a Roma, sub Petro et cum Petro. Un processo, come ebbe a dire il cardinale Gualtiero Bassetti aprendo l’ultima assemblea generale della Cei e riferendosi al percorso sinodale italiano, “che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile”.

La strada l’ha indicata il Papa nel suo discorso inaugurale ( inaugurale del percorso, non del Sinodo vero e proprio), una settimana fa: comunione, partecipazione, missione. Serve coltivare “la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’opera – re, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire – ha osservato Francesco – che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera”. Per fare cosa? Lo spiega sempre il documento preparatorio, che tra le altre cose indica come obiettivi del percorso la necessità di “sperimentare modi partecipativi di esercitare la responsabilità nell’annuncio del Vangelo e nell’impegno per costruire un mondo più bello e più abitabile” e il bisogno di “esaminare come nella Chiesa vengono vissuti la responsabilità e il potere, e le strutture con cui sono gestiti, facendo emergere e provando a convertire pregiudizi e prassi distorte che non sono radicati nel Vangelo”. La Chiesa tutta, scriveva il Papa, “è chiamata a fare i conti con il peso di una cultura impregnata di clericalismo, che eredita dalla sua storia, e di forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano i diversi tipi di abuso ( di potere, economici, di coscienza, sessuali). E’ impensabile una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio”. E deve essere vera questa partecipazione: “Siamo disposti all’avventura del cammino o, timorosi delle incognite, preferiamo rifugiarci nelle scuse del ‘ non serve’ o del ‘ si è sempre fatto così’?”, ha domandato Bergoglio nell’omelia di apertura, pronunciata domenica scorsa in San Pietro. Il Sinodo non deve essere “una convention ecclesiale, un convegno di studi o un congresso politico”. Non deve essere neppure “un parlamento, ma un evento di grazia, un processo di guarigione condotto dallo spirito”. Iniziando questo cammino, ha aggiunto il Pontefice, “siamo chiamati a diventare esperti nell’arte dell’incontro. Non nell’organizzare eventi o nel fare una riflessione teorica sui problemi”. Ogni incontro “richiede apertura, coraggio, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro. Mentre talvolta preferiamo ripararci in rapporti formali o indossare maschere di circostanza – lo spirito clericale e di corte: sono più monsieur l’abbé che padre”.

I discorsi sono belli, profondi e ricchi di dotte citazioni, gli obiettivi alti e condivisibili. C’è anche un benefico effetto poetico di sottofondo, tra i rimandi alla “santa memoria” di Yves Congar e le immagini più o meno allegoriche evocate negli interventi che si sono succeduti. Però il quadro rischia di essere troppo perfetto per corrispondere al reale. Francesco, nel suo messaggio, ha sfidato rischi e perplessità, incoraggiando a salpare verso una meta che al momento più ignota non potrebbe essere. Un po’ come Ferdinando Magellano, quando salpò dalla Spagna non sapendo bene dov’era localizzato il passaggio tra l’atlantico e il Pacifico ( non lo sapeva, ma non disse a nessuno di non saperlo). Il senso, ancora una volta, è di generare processi, andare al largo e poi si vedrà. L’importante è muoversi, non restare fermi aspettando che accada qualcosa o che i tempi migliorino, magari chiusi in qualche ridotta utile a preservare una sorta di utopica purezza. L’idillio rappresentato cozza con la realtà di una Chiesa divisa – è un’evidenza, non la lamentazione dell’improvvisato profeta di sventura – e già finita sul lettino anatomico di assemblee locali che si propongono di svuotarla e di riempirla con qualcosa di nuovo, di “fresco”, in sintonia con quel che richiede il tempo d’oggi. Proprio citando Congar, Francesco ha detto che “non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa”. E’ questa, ha aggiunto il Papa, “la sfida. Per una ‘ Chiesa diversa’, aperta alla novità che Dio le vuole suggerire”.

Il problema è che laddove la spinta alla sinodalità ( sovente confusa con la collegialità) è più forte, l’intento dichiarato non è quello di fare una Chiesa “diversa”, bensì di edificare una Chiesa “altra”. Una Chiesa “nuova”, in sintonia con le mode correnti, ammiccando al mondo e cercando non di rado di rendere ammaliante una Chiesa incapace di parlare il linguaggio contemporaneo. Se, come accade in Germania, si mette ai voti la proposta di discutere del sacerdozio ( non più del solo celibato, ma proprio del senso del sacerdozio in quanto tale e l’idea riscuote anche parecchio consenso), significa che si vuole costruire qualcosa di mai visto prima. Lo ha detto il cardinale Walter Kasper, lodato da Francesco al primo Angelus e per una buona parte del pontificato teologo di riferimento bergogliano: parlando del Sinodo tedesco, Kasper ha detto che “c’è chi vuole reinventare la Chiesa con l’aiuto di un erudito quadro teologico e teorico”. Già mesi fa, all’inizio dell’estate, aveva chiarito il concetto: “Sono molto preoccupato. Va oltre la mia immaginazione che richieste come l’abolizione del celibato e l’ordinazione delle donne al sacerdozio possano finire con una maggioranza di due terzi nella Conferenza episcopale o che possano raggiungere un consenso nella Chiesa universale”. Tant’è che, sono sempre parole del porporato tedesco, qualcuno potrebbe domandarsi se questo percorso sia ancora “totalmente cattolico”. Un osservatore esterno, senza badare troppo alla prudenza diplomatico- clericale, non avrebbe troppe difficoltà a definire il percorso scismatico.

Nel suo messaggio inaugurale di una settimana fa, il Papa ha parlato di tre rischi che possono interessare un Sinodo. Intanto, il formalismo: “A volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine ‘ il padrone della baracca’ e non il pastore di tutta la Chiesa che sta andando avanti. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via”. Secondo rischio, l’intellettualismo, cioè “l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte”. Il “far diventare il sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di ‘parlarci addosso’, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo”. Infine, il rischio dell’immobilismo e cioè “che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo maggiore”.

Francesco vuole “un lavoro appassionato e incarnato”, convinto che davanti alla Chiesa vi siano tre opportunità da cogliere, la prima delle quali “è quella di incamminarci non occasionalmente ma strutturalmente verso una Chiesa sinodale: un luogo aperto, dove tutti si sentano a casa e possano partecipare”. Laddove però questo lavoro appassionato e incarnato è già iniziato, i risultati mostrano che anziché edificare una “Chiesa della vicinanza” si è andati incontro a ulteriori divisioni, sovente arrecando ferite sanguinolente alla Chiesa stessa. Disorientando e allontanando, alimentando battaglie tra laici e guerricciole clericali, cristallizzando gli schieramenti contrapposti. La Chiesa non è un Parlamento né una democrazia, come ha voluto ribadire il segretario generale del Sinodo, il cardinale Mario Grech, terrorizzato ( probabilmente a ragione) che il percorso avviato si concluda con drammatiche conte all’ultimo voto – e infatti ha già fatto balenare l’ipotesi che le procedure possano essere riviste, evitando calcolatrici e tesi scrutini – che riportano la memoria all’assemblea sulla famiglia del 2014, quando il via libera al riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati prese le sembianze di un voto di fiducia a un governo balneare italiano, con cori da stadio e cardinali che vestivano i panni da capi ultrà non distinguibili dai baroni che frequentano le curve nostrane. La Germania è il caso di scuola, gli Stati Uniti inseguono con la spaccatura sulla comunione da dare o negare a Biden e ai cattolici liberal pro choice: lo si è visto a giugno, con i vescovi collegati su Zoom che dicevano sì o no alla linea dura. Lo si è visto in occasione del Sinodo sull’amazzonia, partito con obiettivi nobili e temi davvero incarnati nella realtà delle popolazioni interessate e finito con le lotte sui viri probati, le diaconesse da istituire visto che nei tempi antichi forse esistevano ( ci sono commissioni al lavoro su questo, intente a cercare appigli storici per clericalizzare le donne, andando così paradossalmente contro le linee- guida date dal Pontefice, che ha sempre parlato di valorizzazione delle figure femminili nella Chiesa) e i presuli tedeschi pronti ad assicurare a radio e giornali che ogni decisione adottata per le Chiese della regione sudamericana sarebbe stata importata in Europa e ovunque nel mondo, scordandosi del principio bergogliano secondo cui il mondo è un poliedro complesso in cui ogni faccia è diversa l’una dall’altra e non una sfera dove tutto è uguale e ogni punto è equidistante dal centro.

In tutti questi tre casi di immobilismo ce n’era ben poco: il mulino, soprattutto in Germania e nell’assise amazzonica, era alimentato da proposte non nuove ma comunque tese a rimuovere la polvere depositata sugli antichi drappi di una stagione ormai passata. Muoversi per innovare e riformare, per ridare slancio a un corpaccione infiacchito e non più seducente. Eppure, il risultato è stato che anziché raggiungere l’esaltazione della partecipazione vera e corale, si è fomentato il caos. Anziché incamminarsi strutturalmente verso una Chiesa sinodale “dove tutti si sentano a casa e possano partecipare” (obiettivo papale), il fossato tra i fronti contrapposti si è allargato. Il salvagente, se la barca dovesse iniziare ad avere problemi durante la navigazione, il Papa l’ha comunque lanciato. Due anni e mezzo fa, preoccupato per la piega che gli eventi stavano prendendo in Germania, scrisse che “gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati”. E’ una sorta di altolà, rispettoso delle legittime aspirazioni di ciascuno, a cercare di ribaltare il tavolo. Un velato richiamo a chi può essere tentato di caricare un’assemblea sinodale di aspettative troppo alte, tali poi da suscitare comprensibili sentimenti di delusione tra clero e fedeli laici se gli alti obiettivi non si raggiungono.

Il punto di partenza è un’evidenza. Il Papa ne parlò alla curia romana, in occasione degli auguri natalizi del dicembre 2019: “Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. Il discorso era diretto ai vescovi e al clero in generale, ma è facilmente estendibile a tutti. Capire che il tempo della cristianità è finito ( e non da ieri) è qualcosa di non scontato. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris missio ( 1990), scrisse che “oggi la Chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo”. C’è bisogno – aggiungeva Wojtyla – “di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione”. Basterebbero queste poche frasi per tenere lontano lo spettro di un Sinodo universale ridotto a congresso di studi per intellettuali del settore, convention ecclesiale o centro di ascolto diocesano dove registrare lamentele di laici impegnati e proposte innovative non di rado stravaganti. Non dimenticando che quando Paolo VI istituì il Sinodo dei vescovi, nel 1965, mise nero su bianco che tra suoi fini generali c’è quello di “rendere più facile l’accordo delle opinioni almeno circa i punti essenziali della dottrina e circa il modo d’agire nella vita della Chiesa”.

di Matteo Matzuzzi

Il Foglio – 16 ottobre 2021 

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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