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Il nostro peggior nemico

  • Data 24 Ottobre 2021

Nessuna società sopravvivrebbe se tutti al suo interno fossero in grado di comunicare tutto”, diceva lo storico americano Daniel J. Boorstin con molti anni di anticipo sulla stagione della iperconnettività. E’ da questa citazione che parte Tom Nichols per raccontare al Foglio il suo nuovo libro, “Our Own Worst Enemy”, appena pubblicato negli Stati Uniti e in arrivo in Italia a ottobre. In queste pagine potete leggere un estratto del capitolo V, che Nichols sintetizza così: “Gli esseri umani hanno bisogno di connessione, ma hanno anche bisogno di distanza, tranquillità e tempo per riflettere. Con i social media e Internet, abbiamo creato il peggiore di tutti i mondi: siamo ‘ iperconnessi’, 24 ore al giorno se lo desideriamo, a perfetti sconosciuti con i quali spesso abbiamo pochissimo in comune. E poiché la natura del nostro cervello e del modo in cui affrontiamo il dibattito su Internet favorisce i conflitti e le divisioni, abbiamo passato troppo tempo a preoccuparci di ciò che gli estranei pensano di noi – e a urlare contro di loro quando ci troviamo in disaccordo – piuttosto che pensare a ciò che abbiamo in comune. Questo approccio è disastroso per la democrazia, perché trasforma la vita in una gigantesca battaglia in cui possiamo insultare e umiliare gli altri tutto il giorno, ma poi non dobbiamo mai incontrarli, vedere i loro volti o scusarci. Alla fine, le altre persone diventano la materia prima delle nostre rivendicazioni, del piacere di sfogarci ogni volta che qualcosa ci fa arrabbiare”.

Nichols è professore al Naval War College e alla Harvard Extension School, studia e insegna gli affari russi, le armi nucleari, le politiche di sicurezza, e qualche anno fa è diventato molto celebre per il suo libro sulla fine degli esperti, uscito quando Brexit, trumpismo e sovranismi di varia forma e bruttura si imponevano in occidente ( prima del Covid naturalmente: ora conoscenza, esperienza e scienza hanno ripreso credibilità). Nichols si definisce “un entusiasta della democrazia”, ha individuato e raccontato perfettamente l’èra dell’incompetenza, oggi parla del nemico interno, quello che sta erodendo da dentro i sistemi democratici occidentali. Ci sono gli attacchi stranieri, poi ci sono le erosioni interne. Quando lo ha visto per la prima volta, il nostro peggior nemico? “Ho iniziato a preoccuparmi per la stabilità della democrazia negli Stati Uniti e in Europa alla fine degli anni Novanta – risponde Nichols – Ero preoccupato dalla rapidità con cui i ricordi della Guerra fredda e del XX secolo stessero svanendo dalla nostra memoria collettiva. In quel momento ho iniziato a sentire le lamentele di molta gente: viviamo in tempi terribili, dicevano, la democrazia è una farsa, tutto è corrotto e via così. Alcuni di questi discorsi sono normalissimi in una società aperta, ma penso che la fine della Guerra fredda abbia prodotto una specie di euforia irragionevole e insostenibile, e molti hanno iniziato a pensare che i governi dovessero essere in grado di risolvere tutti i nostri problemi da un giorno con l’altro”.

Chiediamo immediatezza, ci accontentiamo di slogan facili tanto intuitivi quanto impraticabili, attacchiamo briga con passanti dei social senza remore, uno vale uno e chi non la pensa come me è un cretino. E’ così che muore una democrazia? “Penso che molti studiosi abbiano provato a scrivere troppe volte l’epitaffio della democrazia – dice Nichols, facendo tirare un breve sospiro di sollievo a noi anti declinisti – Con questo mio libro non voglio dare un giudizio definitivo, voglio soltanto avvertire, allertare”, evitare che diventiamo dei sonnambuli, come disse in un celebre discorso al Parlamento europeo il presidente francese Emmanuel Macron nel 2018. “Ma credo che molti dei critici della democrazia liberale abbiano ragione su una cosa – continua Nichols con il suo andamento lento e chiarissimo – la democrazia non riguarda solo la conquista dei voti, e una società decadente o corrotta non è una democrazia” solo perché ci sono le elezioni. I critici della democrazia che sottolineano la distanza tra gli alti obiettivi del costituzionalismo liberale e le reali motivazioni degli elettori – molti dei quali cercano semplicemente di ottenere vantaggi dal governo – hanno ragione”. Tali considerazioni colpiscono ancora di più in queste ore in cui collassa l’Afghanistan, paese che ha scoperto la democrazia anche attraverso le elezioni: si muovevano sugli asini, gli afghani, facendo chilometri per andare a votare alle loro prime elezioni, e mostrare le dita colorate, intinte nell’inchiostro e nel primo assaggio democratico, con i talebani che mozzavano quelle stesse dita appena le scorgevano un po’ dipinte. Noi democrazie mature siamo nella fase della stanchezza, “exhaustion” dicono gli americani, e le democrazie nuove collassano sotto i nostri occhi inerti, anzi forse molto cinici. Chissà se è questo il punto di non ritorno. Nichols ci accompagna su questa frontiera, a volte ci tiene in bilico lì, per ricordarci la paura che si prova quando il nostro peggior nemico ha la meglio: è un saggio sulla memoria corta, questo. E su tantissimi altri sentimenti, rabbia, risentimento, soprattutto il narcisismo. “Il narcisismo è la radice di tutto il resto – dice Nichols, senza bisogno di fare citazioni freudiane – Quando le persone hanno un senso esagerato della propria importanza, smettono di vedere gli altri esseri umani come persone simili a loro. Quando ciò accade, tutti gli altri problemi, come rabbia e risentimento, fluiscono meglio. Gli elettori narcisisti si risentono facilmente e si arrabbiano quando pensano che le altre persone non li apprezzino abbastanza o non soddisfino le loro richieste o che siano sempre irragionevoli. E questo narcisismo deriva da un lungo periodo in cui queste stesse persone hanno goduto di uno standard di vita molto elevato nel quale non hanno dovuto né voluto comunicare e cooperare con gli altri. Viviamo la nostra vita attraverso la televisione e il computer e senza quel senso di comunità che in passato ci ha ricordato che siamo solo una persona tra tante e che tutti quanti hanno i loro aspetti buoni e cattivi”. Il cortocircuito è presto detto: iperconnessi ma soli, aggressivi perché innamorati di noi stessi e delle nostre opinioni.

La politica cavalca questo narcisismo, lo incarna e lo amplifica. Non è un affare soltanto americano o del trumpismo, di cui Nichols è stato un avversario esplicito e impietoso: discutiamo dell’Ungheria, di cui questo professore sa molto, e delle cosiddette democrazie illiberali ( siamo sempre più tentati di levare la parola democrazia) e Nichols dice persino qualcosa di vagamente consolante. “Non c’è una soluzione esterna per uno come Orbán – dice, intendendo: l’Unione europea non può fare granché – Ma la cosa più importante è che i populisti non sono molto bravi a governare, e alla fine le persone si rendono conto non solo delle menzogne, ma anche del fatto che stanno perdendo la loro libertà. Anche se l’Ue dovesse ridurre il commercio o il sostegno all’Ungheria, Orbán, proprio come Vladimir Putin in Russia, darebbe la colpa agli stranieri. Mi dispiace dirlo, ma a volte l’unico modo in cui le persone ritrovano la strada per la democrazia è dopo aver subito il prezzo dell’autoritarismo. Spero che questo non accada, ma non credo nemmeno che si possa ragionare con persone che hanno fatto scelte irrazionali e autodistruttive. Puoi solo fare un passo indietro e lasciare che accada e sperare che i costi non siano troppo grandi né che siano permanenti”.

Nell’ultima parte del saggio, Nichols traccia tre scenari distopici e tre proposte di salvezza. “Ho cercato di evitare di proporre cambiamenti rivoluzionari – spiega – perché ci sono sono cose molto facili da dire e immaginare, ma che non hanno possibilità di successo. Ho cercato di offrire alcune idee che potrebbero essere implementate, in particolare nel sistema americano, sulla struttura delle istituzioni democratiche, come il servizio civile o il ruolo dei partiti politici, e spero che queste idee possano incuriosire e ispirare anche i lettori di nazioni europee come l’Italia. I partiti, in particolare, devono difendere qualcosa, valori, idee: devono avere un significato, altrimenti votiamo soltanto persone e personalità. Ma se votiamo per le personalità, non dovremmo essere sorpresi quando scopriamo di aver creato un culto della personalità nel bel mezzo di una democrazia”. Quanto agli “incubi” peggiori, come li definisce lui, Nichols dice di aver attinto “alla letteratura e alla cultura popolare per spiegare come potrebbe apparire un crollo democratico. In uno scenario, diventiamo i proletari di ‘ 1984’ di George Orwell, persone impoverite che non hanno un peso politico perché ci preoccupiamo solo di noi stessi e dei nostri piccoli divertimenti, come il gioco d’azzardo e il bere e litigare l’uno con l’altro. Ma il futuro di cui mi preoccupo molto di più è quello in cui i tecnocrati devono gestire i nostri paesi per noi, perché non ci interessa abbastanza per farlo da soli. Ho preso il finale del film americano ‘ I tre giorni del Condor’ per dire che quando una società vuole soltanto conforto e ordina semplicemente al governo di darglielo, ci saranno leader che ci daranno volentieri qualunque cosa vogliamo finché li lasciamo al potere. Questo scenario non è la conquista del potere da parte di autocrazie, nient’affatto: è una dissoluzione volontaria della democrazia per mano nostra semplicemente perché siamo troppo pigri e troppo dipendenti dalle comodità per essere disturbati a fare scelte politiche difficili. Questo mi preoccupa, moltissimo”.

Nichols individua anche i segnali che il nostro peggior nemico lancia. La fine della democrazia la senti nell’aria “quando le persone smettono di discutere di politiche e idee e invece attaccano soltanto sulla base della lealtà a un certo team o a un certo leader. Questo sta già accadendo. Quando gli elettori trattano la politica come lo sport – dove sosterranno sempre la loro squadra e non cambieranno mai idea – allora siamo già sulla strada del disastro. La politica e il voto non sono uno sport con squadre e tifosi. Le celebrities non sono i nostri padroni. Le persone che mettiamo al potere sono i nostri concittadini e chiediamo loro di fare un lavoro difficile. Se ci provano, se fanno uno sforzo in buona fede per essere buoni amministratori delle nostre istituzioni, allora dovremmo lavorare con loro ed essere in grado di mettere da parte alcune delle nostre differenze. Ma quando votiamo semplicemente perché un certo voto ci dà una carica emotiva per far infuriare altre persone, o semplicemente per vedere il nostro uomo vincere, o il nostro partito sconfiggere l’altro partito, allora non siamo più cittadini. Siamo solo tifosi senza cervello, che sventolano striscioni e cantano slogan che non capiamo”.

Ci lasciamo con questi avvertimenti che Nichols condisce sempre con un po’ di ironia e con il suo entusiasmo: si capisce che pensa che abbiamo ancora a disposizione gli strumenti per fermare il nostro peggior nemico. Dovremmo solo usarli, subito e bene. Si sente troppo catastrofista? “Spero davvero di starmi preoccupando troppo. Ma se cinque anni fa mi avessi chiesto se potessi mai immaginare una folla urlante che dissacra il Senato degli Stati Uniti, un posto dove lavoravo da giovane, ti avrei risposto di no. Ora mi chiedo se invece non mi sto preoccupando abbastanza. Spero, con tutto il cuore, di sbagliarmi”.

di Daniele Raineri

da Il Foglio – 30 agosto 2021

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piergiorgio

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Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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