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Neil Young, dopo 50 anni una musica che rimane vera

  • Data 6 Febbraio 2022

Un giovane hippie in abiti trasandati e capello lungo guarda negli occhi un anziano contadino, anche lui in abiti sgualciti, ma per il duro lavoro. Due mondi che collidono in quegli anni, i primi dei 70, quando l’America era divisa in due: da una parte i giovani che usavano l’ardito motto “non fidarti di chi ha più di trent’anni”, contestavano la guerra nel Vietnam, cosa inaudita e inedita per ogni buon americano, rifiutavano le morali e le buone abitudini dei loro genitori (lavoro fisso, moglie, figli, ubbidienza). Fumavano marijuana, prendevano acidi per fare viaggi cosmici, praticavano il libero amore. Dall’altra la generazione che aveva fatto la Seconda guerra mondiale, si erano sacrificati, avevano dato tutto al loro Paese senza mai chiedersi nulla e in silenzio avevano costruito un boom economico mai visto prima, facendo del loro paese il più ricco e potente al mondo. Quel giovane hippie avrebbe potuto essere suo figlio, un “baby boomer” che gode dei sacrifici fatti dal padre. Eppure quei due tizi si guardano e si parlano. “Vecchio” gli dice il giovane “guarda la mia vita, sono simile a come eri tu”. L’anziano scuote la testa incredulo, stenta a capirlo. “Vecchio, guarda la mia vita, 24 anni e c’è molto di più, vivi da solo in un paradiso, mi fa pensare a due persone, un amore perduto a un tale costo, dammi cose che non si perdano, come una moneta che non verrà lanciata, rotolando a casa da te”. Adesso il vecchio capisce.

Non importano le differenze ideologiche, la politica. C’è una cosa che ci accomuna tutti: il desiderio di felicità, di qualcosa su cui non riusciamo a mettere le mani. E’ stupito che quel ragazzo abbia capito tutto quando lui ancora non c’è arrivato: “Ho bisogno di qualcuno che mi ami l’intera giornata, uno sguardo nei miei occhi e puoi dire che è vero, ninne nanne, guardati negli occhi corri nella stessa vecchia città, non significa molto per me per significare così tanto per te, sono stato il primo e l’ultimo, guarda come passa il tempo, ma alla fine sono tutto solo, rotolando a casa da te”. I due sono uno lo specchio dell’altro.

In un’altra canzone dello stesso disco, quel giovane va ancora più a fondo: “Voglio vivere voglio dare, sono stato un minatore per un cuore d’oro, sono queste espressioni che non lascio mai trapelare, che mi fanno continuamente cercare un cuore d’oro, e sto invecchiando”.

Neil Young e quell’anziano agricoltore si erano davvero incontrati, c’è anche una foto che li ritrae. Il musicista canadese da tempo stabilitosi in California aveva appena comprato un ranch a nord di San Francisco dove il vecchio contadino aveva lavorato tutta la vita, grazie al mucchio di milioni di dollari guadagnati in una carriera appena cominciata. Si sentiva a disagio, lui ricco capitalista che combatteva l’establishement davanti a quel contadino che si era spaccato la schiena tutta la vita. Non sapeva più chi avesse ragione o torto, chi fosse lui, e si interroga.

Harvest, pubblicato il giorno di San Valentino, 14 febbraio 1972, è il disco più amato e conosciuto del cantautore canadese. Sbancò ogni record di vendita in quell’anno, il 1972, in cui uscivano infiniti capolavori, ad esempio Thick As A Brickdei Jethro Tull e Machine Head dei Deep Purple. Per la generazione degli anni 70, sia in America che in Europa, fu “il” disco rock per eccellenza. Perché si discostava da tutti gli altri, con una malinconica tristezza e i sapori agresti di un raccolto che allora sembrava infinito (Harvest significa raccolto). Non è il più bel disco di Neil Young, After the gold rush ad esempio lo è molto di più, grazie all’intelligente ripartizione fra brani acustici di intensità strazia cuore e epiche cavalcate elettriche, anche musicisti migliori. Ma Harvest fece breccia in tutti per l’onestà intrinseca che lasciava trapelare ad ogni nota. Il ricco hippie appariva nudo nella sua fragilità.

Aperto da quel “tum-tum bam” ritmico della batteria e quel solo lancinante di armonica, Harvest è il disco che segna il momento di passaggio fra un’epoca di grandi ideali e l’incertezza del divenire adulto e la droga che ormai cominciava a mietere vittime dappertutto. Non è più tempo per le invettive di Southern Man o Ohio, è tempo di ritirarsi in se stessi per capire chi siamo: “Guarda quel ragazzo da solo per il weekend” canta nella traccia di apertura, Out on the weekend, manifesto della solitudine che Neil Young ha appiccicata dentro, il loner per definizione. Basta caricare un vecchio giradischi sul pick-up per andarsene lontano dallo smog di Los Angeles a respirare l’aria buona di Big Sur. Basta un weekend. E basta rifugiarsi un po’ nelle atmosfere puramente nashvilliane della title track.

Ma è anche un giovane che si guarda intorno e vede i suoi amici morire di overdose di eroina. Quando esce il disco, Danny Witten, chitarrista dei Crazy Horse, la sua backing band da anni, non è ancora morto, ma è ormai un junkie, manca poco. La sua fine verrà il 18 novembre di quello stesso anno, ma Young ha già capito tutto: “Every junkie’s like a settin’ sun”, ogni drogato è come un sole che tramonta. “Sono andato in città e ho perso la mia band, ho visto l’ago prendere un altro uomo, andato, andato, il danno fatto, canto la canzone perché amo l’uomo, so che alcuni di voi non capiscono”. Amare l’uomo, amare l’umanità, amare il prossimo. Quel riff in fingerpicking che tutti abbiamo imparato, l’applauso del pubblico che sfuma nelle note ruvide di chitarra elettrica, lo sbandamento totale dell’abbandono in un mare oscuro, l’incubo deve ancora cominciare. Words (Between The Lines Of Age) chiude il disco con una baraonda di note lancinanti alzate verso la disperazione: Harvest ha fallito nel suo compito, ci aspettano momenti terribili, l’energia inimitabile che caratterizza ancora oggi l’anima rock del canadese, nonostante le “rughe del tempo”.

Nonostante tutto Neil Young resta ancora fedele alla sua anima protestataria. Alabama conficca il coltello nella stessa piaga di Southern man, ancora più a fondo, stato razzista maledetto, tanto da far infuriare un gruppo rock dello stesso stato, gli ancora sconosciuti Lynyrd Skynyrd che gli risponderanno per le rime: “Ho sentito Mister Young cantare di lei, ho sentito il vecchio Neil insultarla, bene spero che Neil Young si ricordi che un uomo del sud non ha bisogno di lui”. Lui se la riderà e a un concerto indosserà una loro t-shirt.

Are you ready for the country è per tutti coloro, nel 1972 ancora in tanti, che sono obbligati a partire per il Vietnam: “Stavo parlando con il predicatore, ha detto che Dio era dalla mia parte poi mi sono imbattuto nel boia, ha detto che è ora di morire, sei pronto per il paese?”.

Registrato a Nashville, la sua prima volta, il disco adotta l’atmosfera rilassata e acustica della capitale del country, ma in un modo differente. La pedal steel di Ben Keith non è allegra, anzi, è un lamento lugubre; le armonie vocali di star come James Taylor e Linda Ronstadt danno solo più malinconia al tutto. Poi ci sono i due svarioni, quelle A man needs a maid e There’s a world che lasciate in mano al produttore Jack Nietzsche sprofondano negli archi barocchi della London Symphony Orchestra.

Alla fine Harvest è una profezia, è l’eco di un ideale giunto agli sgoccioli. Comincerà immediatamente dopo la trilogia della morte, il tunnel dell’alcol e della droga, il tentativo auto lesionista di distruggere quel successo colto proprio con Harvest. Ne uscirà solo anni dopo, rimettendo piede a Nashville, con un disco che celebra la rinascita, Comes a time.Ma tutta la carriera del canadese sarà sempre segnata da cadute e resurrezioni.

C’è un fienile in quarta di copertina di questo disco, con tutti i musicisti seduti su balle di fieno che guardano verso l’obiettivo con aria interrogativa. In un altro fienile, costruito appositamente, Neil Young è tornato recentemente per registrare il suo ultimo disco. E se aprite il vinile originale c’è una foto di una maniglia in cui si rispecchia Neil Young. L’unico sorriso di Neil mai apparso in un suo disco. Lo stesso che abbiamo noi, ogni qualvolta ascoltiamo le prime note di Harvest. Siamo e saremo sempre alla ricerca del nostro “cuore d’oro”.

di Paolo Vites

da ilsussidiario.net – 2 febbraio 2022

Tag:Neil Young

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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