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Il clown di Kierkegaard e la via stretta della fede

  • Data 27 Febbraio 2022

Un clown avverte di un incendio scoppiato in un circo. Viene deriso e nessuno gli crede. Così le fiamme raggiungono il vicino villaggio seminando distruzione e morte. Questo apologo di Kierkegaard, 54 anni fa, è stato ripreso e sviluppato all’inizio del suo libro “Introduzione al cristianesimo” da Joseph Ratzinger che osservava: «Oggi il mondo guarda spesso il messaggio cristiano come un gioco da circo che sembra non avere rapporto né con il vero né con il falso». Per «uno strano oscuramento del pensiero» le verità della fede sembrano cadere in un contesto nel quale non hanno presa, appaiono fuori dal mondo, non credibili. Essere una minoranza potrebbe diventare una condizione molto dura ma proprio questa «via stretta» sarebbe al tempo stesso l’unica possibilità per non soccombere al nulla. Su questo tema è tornato nei giorni scorsi lo scrittore Claudio Magris con un articolo sul Corriere della Sera di cui proponiamo la lettura.


di Claudio Magris – dal Corriere della Sera – 20 febbraio 2022

La Storia del mondo è anche una fiaba, quasi la stessa ma con alcune varianti che la rendono unica e irripetibile come ogni vita e ogni vicenda umana. Il bambino si perde nel bosco, vede una luce o più luci che appaiono e scompaiono fra le macchie scure dei cespugli, bianchi sassi segnano un cammino, che può condurre a un buio ancora più profondo o sfociare in una felice radura. La fiaba è come una foresta, in cui nascono, da cui provengono e in cui riaffondano i canti, le leggende, i miti. Questo vale per ogni Paese e ogni cultura, ma in particolare per la Germania e la cultura tedesca. Nelle fiabe dei fratelli Grimm c’è l’anima, la varietà, il profondo passato e il tangibile presente di tutto il vasto e vario Paese, le voci e la musica dei suoi grandi e minori poeti; uno spartito, possente e sfuggente, ora attraversato da un soffio di eternità ora fuggitivo come una nostalgia d’amore. Incantevoli Lieder, personalissimi e impersonali come ogni fiore, ogni vita. «Tutto sta eterno davanti allo sguardo di Dio — dice nel Divano occidentale-orientale di Goethe la bellissima Suleika — amalo in me, per questo istante».

Nella sua Introduzione al Cristianesimo (1968) Joseph Ratzinger si richiama a una storia popolare, ad una fiaba. Non tedesca e nemmeno cattolica, ma di Søren Kierkegaard. È la storia di un clown di eccezionale bravura, irresistibile nella comicità e nel gioco delle somiglianze. Non si può non ridere ascoltando le sue storie e non credere a ciò che egli narra e che ha — come la Poesia — una forza di verità. Un giorno il clown, stanco di lavorare — ridere e fare ridere è faticoso — va a fare una lunga passeggiata nel bosco, attraversa altri piccoli paesi, finché arriva a un villaggio in cui è scoppiato un terribile incendio. Tutto brucia e crolla, tante persone muoiono. Il clown corre più presto che può al suo paese e racconta, gridando angosciato, di ciò che ha visto, le fiamme omicide e i morti. Ma nessuno gli crede; tutti, anzi, ridono, convinti che si tratti di uno dei suoi spettacoli.

È significativo che la storia del clown sia inserita da Benedetto XVI nella sua Introduzione al Cristianesimo. Oggi, scrive, il mondo guarda spesso il messaggio cristiano come un gioco da circo che sembra non avere rapporto né con il vero né con il falso. Questo pessimismo, non privo di dolorose sfumature contenute nella dignità del ruolo, ha certo a che fare con la sua cultura tedesca, abituata a confrontarsi con il male e a stringere patti con il diavolo, anche se non con un diavolo da film dell’orrore. Certe scenografie sataniste sono più innocue di tutte le fandonie che si raccontano ogni giorno, dell’indifferenza relativa al vero e al falso e delle conseguenze di tale indifferenza, che può lasciare morire qualcuno tra le fiamme, come accade alle vittime dell’incendio invano denunciato dal clown. Nella cultura tedesca — che spesso ha trovato nella teologia, così importante nella sua storia, una carica radicale di verità — c’è poco posto per la confidenza ottimista con la natura dell’uomo, per la fiduciosa speranza di poter sputare in qualsiasi momento quella stupida mela che un serpente non meno stupido ci ha messo in bocca.

Più recentemente Benedetto XVI si è trovato ad affrontare con rischiosa intensità orribili piaghe della Chiesa — in particolare la pedofilia e la tolleranza o complicità nei suoi confronti. Cose che indirettamente chiamano in causa chi può essere stato responsabile del cammino, della gloria e delle colpe della Chiesa stessa. Benedetto XVI — in questo caso soprattutto Joseph Ratzinger — ha replicato con durezza e sofferenza. Quel suo grido — «non sono un bugiardo» — è uno dei più grandi, dolorosi e sconvenienti scoppi di ira e di dolore che si possa sentire da un Papa. Benedetto XVI ha incontrato grandi consensi, specie da chi vede in lui chi impedisce al Tempio di crollare e disgregarsi, e grandi contestazioni e rifiuti da parte di chi lo accusa di tradizionalismo reazionario, che cerca di bloccare il rinnovamento della Chiesa — da lui stesso auspicato con fervore all’inizio del Concilio, irrigidendolo in una statua di sale come la moglie di Lot. Che la sua visione del futuro della Chiesa sia problematica e preoccupata è innegabile e che quelle preoccupazioni siano fondate lo è ancora di più.

Nel secondo — e il più bello — volume del suo Gesù di Nazareth egli si pone domande radicali sulla possibilità di quel futuro. Certo, scrive, noi — noi cattolici — abbiamo la promessa del «non praevalebunt», dell’indistruttibile durata del cristianesimo e della Chiesa. Ma nulla ci dice che, ad esempio per mille anni, la Chiesa non possa essere ridotta a una sparuta e irrilevante minoranza da catacomba. Potrebbe, anche in questo caso, prima o dopo ritornare nella pienezza, ma per le generazioni che si trovassero a vivere in quei mille anni sarebbe dura. Avrebbero l’impressione, dice Ratzinger, «di essere un pagliaccio», oppure addirittura un resuscitato da un sarcofago che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi e pertanto dell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro. Benedetto XVI ha la fortuna di provenire da un Paese in cui la fede cristiana, professata e praticata, può essere cattolica e protestante. Un binomio — un dialogo, un confronto, uno scontro — che è stato ed è formativo e fecondo e può aiutare un po’ a resistere a quello che il catechismo, quando ero ragazzo, chiamava «il mondo e le sue pompe».

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piergiorgio

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Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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