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Strage della Marmolada, quando la bellezza diventa morte

  • Data 10 Luglio 2022

di Monica Mondo

da ilsussidiario.net – 5 luglio 2022

Marmolada, la montagna che splende di rocce cristalline, dei suoi azzurri ghiacciai. Che ci parla di altezze, dell’uomo e di Dio. Che tanta bellezza sia diventata rombo di morte, in una luminosa giornata d’estate, è mistero. Cerchiamo di spiegare tutto, cerchiamo le ragioni, le cause, le colpe. Almanacchiamo per chiudere una domanda che ci fa male. Perché tutto questo dolore, perché il male che trasfigura e trasforma in mostruosità il dono di tanta struggente grazia?

Certo, il riscaldamento globale. Certo, l’imprudenza, l’imperizia, di scalatori improvvisati. E l’azzardo di guide che avrebbero dovuto frenare, spiegare una prudenza che non esclude la baldanza e il desiderio ardente, ma è rispetto, studio delle proprie forze, coscienza che la natura è per noi, con i modi e i tempi giusti, ma può  essere contro di noi, e cercare il limite, on the border, sempre, non aiuta a crescere e gustare. Non tutte le esperienze sono giuste e praticabili, non tutte le sfide sono lecite, senza calcolo e pazienza. Tutto vero.

Epperò, qualcosa non torna. Nulla spiega in modo soddisfacente, nulla corrisponde del tutto alla nostra ragione. Perché quel giorno, perché quelle persone, perché così. Siamo in balia del caso, parrebbe. Siamo appesi al filo che le Parche beffarde tessono e tranciano per noi, senza un preavviso, un motivo. Poi, pensiamo, capita sempre così. Perché quella malattia, perché la guerra, perché il dolore innocente, che non ha cause e motivazioni abbastanza valide, abbastanza convincenti. Perché Giobbe, così provato. E Giobbe non si piega, inerte e succube di fronte al male, ma lo interroga, e ne chiede conto al suo Creatore.

Ecco, “chi ha creato il mondo e ciò che contiene dà a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa”. Perché allora la toglie, perché alcuni e non altri, perché. Giobbe chiama Dio a testimonio, lo accusa, lo spinge a palesarsi e ad abbracciare la sua miseria. Non ci sono risposte se non parziali al male, per chi non crede, che non ha risposte. E quindi presto o tardi esclude anche le domande. E per chi crede, le domande si affollano con un’urgenza più bruciante man mano che col tempo, il dolore si affaccia e provoca, scandalizza, interroga.

Però possiamo chiedere a Dio, e spingerlo a palesarsi, anche nel male, ad abbracciarci, e farcelo amico, perché passi con noi il tempo della prova, e noi con lui, nella croce. Non c’è altro da dire, che tener vivo questo perché, e prima o poi Dio parlerà. Se non Lui, chi altri? Se non Lui, che speranza avremmo di  salvezza per i bambini innocenti straziati dalle guerre, negli ospedali? Se non a Lui, a chi chiedere che gli amici tolti alla montagna siano accolti in paradiso? È un canto bellissimo degli alpini, che su quelle montagne hanno dato la vita. E si trattava di colpa degli uomini. Allora la montagna era madre, copriva con la sua neve candida la loro fine prematura. Oggi è stata matrigna, perché la natura, checché ci raccontino, non ha anima e cuore, domina, quanto più cerchiamo di dominarla. Ma Dio ha creato l’uomo a sua immagine e ha dato la vita per l’uomo. Questo vince il male, anche quello che ci pare, a ragione, troppo lacerante e insensato.

 

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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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