La fragilità delle democrazie e la nostra responsabilità
di Giuliano Amato
presidente della Corte Costituzionale
estratto dalla Lectio magistralis all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Roma La Sapienza – 15 settembre 2022
Si parla ormai da decenni di crisi delle democrazie e c’è chi arriva a profilare una superiorità dei regimi autoritari. Due le linee argomentative. Da un lato le crescenti difficoltà decisionali dovute a sistemi politici sempre più radicalizzati, nei quali soprattutto sui temi più importanti e controversi i parlamenti si paralizzano; con il rischio aggiuntivo che, quando invece decidono per la prevalenza di una delle parti, la decisione sia fortemente unilaterale, divisiva e quindi fonte di conflitti e resistenze. Dall’altro lato le ragioni che hanno ridotto le democrazia in queste condizioni: la sclerosi dei partiti del Novecento, che avevano aggregato attorno a visioni comuni gli interessi e le domande di milioni di persone e di gruppi; poi l’avvento della società liquida, con la individualizzazione delle vite e dei fini e lo smarrimento del bene comune; ed infine l’emergere sì di piattaforme comuni, ma intorno a valori etnici, religiosi, culturali fortemente identitari e divisivi, per ciò stesso poco propensi ad una composizione reciproca.
Democrazie disadattate
Se questa è la diagnosi, largamente condivisa, lo stato delle democrazie appare ancora più disadatto e addirittura controproducente di fronte alla gravità, all’urgenza e alla specificità dei problemi che ci verranno, e già ci stanno venendo, dal cambiamento climatico. Perché? Perché quei problemi solo in parte comportano l’adozione di regole destinate soltanto agli apparati o a singole categorie di cittadini. In buona, buonissima parte si tratterà piuttosto di regole concernenti i comportamenti di tutti i consociati, regole che produrranno gli effetti necessari, in più casi drammaticamente necessari, solo se effettivamente osservate dalla larghissima maggioranza di tutti noi: sulle tipologie di uso e sulla quantità di acqua e di energia che consumeremo, sui limiti nel consumo dei cibi la cui produzione ha costi ambientali molto elevati, come la carne bovina ad esempio, su ciò che ciascuno potrà scaricare nell’atmosfera, a partire (indirettamente) dai rifiuti.
Ebbene, in assetti come quelli delle nostre democrazie in crisi, che non hanno più i grandi aggregatori di un tempo ed hanno caso mai aggregazioni parziali e divisive, come fare a ottenere quella generale osservanza di cui c’è bisogno? La stessa pandemia ci ha insegnato quanto i dubbi personali, l’influenza di amici fidati, la contro-informazione possano in più casi conformare le scelte individuali ben più delle regole dettate dalle autorità politiche e sanitarie. Ed è qui, appunto, il grande tema che abbiamo davanti. Come si creano le condizioni di quella osservanza generalizzata delle stesse regole di condotta, da cui dipenderà il nostro successo nel fermare i danni del cambiamento climatico?
Far rispettare le regole (in democrazia)
Far rispettare regole in democrazia non è la stessa cosa che farlo in un regime autoritario.
La democrazia – è vero – può anche stabilire degli obblighi, e tanti del resto ne stabilisce. Ma non è meno vero che, per farli rispettare, non può contare sugli apparati coercitivi, pervasivi e sempre presenti, di cui dispongono i regimi autoritari. C’è l’effetto deterrente delle sanzioni, che è tuttavia molto elevato nei regimi autoritari, dove, per diverse ragioni (compresa la diffusa e organizzata attenzione per le vite degli altri), è alto il rischio di essere colti in fallo, ma è molto minore in democrazia. Qui infatti, proprio per l’assenza di apparati pervasivi e onnipresenti, quanto più ampia è la platea degli obbligati, tanto più basso è il rischio conseguente all’inosservanza. Possono esserci altri strumenti, a volte più efficaci delle stesse sanzioni. Così è per il razionamento, utilizzato anche in democrazia in tempo di guerra, e particolarmente adatto a contenere entro i limiti voluti determinati consumi.
Certo si è che, esaurite le altre, limitate possibilità, l’osservanza generalizzata di cui avremo bisogno sarà davvero conseguibile se a produrla sarà la generalizzata convinzione che così bisogna fare. Come accadde, con poche sbavature, per la legge sul fumo, il cui successo fu appunto reso possibile dalla convinzione, ormai poco o nulla contrastata, che fumare e soprattutto imporre ad altri il fumo passivo è male; e non va fatto. Ma oggi quali chance abbiamo di arrivare a risultati del genere con società divise come quelle in cui viviamo e nelle quali tutto e il contrario di tutto trovano canali per contrapporsi e far valere ciascuno i propri argomenti?
Di chi è la responsabilità
Ebbene, questa possibilità esiste, a condizione, da una parte che nessuno di noi pensi che la responsabilità di realizzarla sia solo di altri e, dall’altra, che nessuno pretenda per converso di assolverla in solitudine a beneficio di tutti. Per le democrazie questa sarà davvero la prova della loro stessa sopravvivenza e per superarla dovranno mettere in gioco tutte le loro risorse: le loro istituzioni centrali, le loro autonomie regionali e locali, le formazioni intermedie, i singoli residenti, cittadini o non cittadini che siano.
Le istituzioni centrali serviranno eccome, così come servirà la politica che ha il compito di gestirle. Impensabile affrontare difficoltà come quelle che avremo senza princìpi chiari e regole uniformi; e queste solo il governo centrale, lo Stato può darcele (prescindo, per il momento, dal concerto internazionale e da quello europeo). Ma qui devono intervenire due fondamentali corollari. Il primo è che i princìpi e le regole abbiano una sicura matrice scientifica. Davanti ai fenomeni naturali che dovremo fronteggiare e che saranno comunque i protagonisti del cambiamento climatico null’altro se non la scienza potrà aspirare alla credibilità necessaria per rendere egemone la cultura sottesa alle politiche che faremo. Sappiamo tutti che la fonte scientifica di quanto abbiamo fatto contro la pandemia non ha evitato controversie anche aspre né divisioni, che hanno vistosamente coinvolto gli stessi scienziati. Quanto di peggio per dar luogo a egemonia. Anche questa però è una lezione di cui tener conto. Lo sappiamo bene che il mondo della scienza non è un monolite, guai se lo fosse. Ma guai anche a una tribuna sulla quale si alternano scienziati diversi e si trattano fra di loro – e si fanno trattare – come siamo abituati a veder fare con i politici. Non è di sicuro questa la procedura più adatta.
Quando entrano in campo le istituzioni, sulla base delle indicazioni della scienza, arriva il secondo, fondamentale corollario: ci si deve saper sottrarre alla tentazione del centralismo, che è particolarmente forte in tempi di emergenza, ma che proprio in una emergenza come quella che ci aspetta è davvero la tentazione sbagliata. Se è vero infatti che l’approdo ha da essere, non l’arrivo delle scelte di governo in Gazzetta Ufficiale (e a quel che segue provvede la forza del diritto), ma la generalizzata convinzione che esse vanno condivise e attuate dal maggior numero possibile di noi e possibilmente da tutti, le istituzioni centrali di una democrazia non dispongono di ciò che, a quel punto, serve di più: i processi e le sedi di partecipazione che, in modi diversi, coinvolgono tanti cittadini attivi ora nell’elaborazione, ora nell’attuazione delle scelte pubbliche e che sono previste e praticate, non a caso, nelle sedi regionali e locali, le sedi più vicine al territorio.
Scelte e condivisioni
Il coinvolgimento, sia chiaro, non è non sarà mai totalitario, ma i cittadini che si faranno coinvolgere potranno essere ciò che erano gli intellettuali nel disegno della cultura egemonica di Gramsci, i portatori presso gli altri della voce e degli argomenti che servono. E alla fine il risultato potrà essere il più collimante con i princìpi democratici, un’ampia e diffusa osservanza non per costrizione, ma per convinzione.
Quello dei processi partecipativi è uno dei capitoli per decenni meno esplorati delle nostre democrazie, il che può sembrare un paradosso in presenza di una Costituzione come quella italiana (ma non è la sola), che in una delle sue disposizioni fondamentali àncora il principio di eguaglianza alla possibilità che ciascuno deve avere di partecipare pienamente alla vita collettiva. Il fatto si è che fra i Costituenti del secondo dopoguerra prevalse l’idea che la democrazia fosse tale in quanto effettivamente rappresentativa e che la rappresentatività avesse bisogno di un unico correttivo di democrazia cosiddetta diretta, il referendum su singole leggi. Al resto provvedevano i partiti.
Davanti al vuoto che si è aperto nella società liquida, davanti ai poli aggreganti a vocazione divisiva successivamente emersi, è anche emersa la potenzialità della democrazia partecipativa come veicolo degli interessi comuni, del bene comune. Nella nostra dottrina più recente c’è chi ha scritto che essa è non meno irrinunciabile della scelta elettorale dei propri rappresentanti. Non c’è democrazia senza tale scelta, ma essa, di per sé, ben può essere fatta al solo fine di proteggere i propri individuali interessi, senza alcuna attenzione al bene comune. Per converso sono proprio la partecipazione, la discussione con altri, la valutazione reciproca degli argomenti che possono portare a quel rendez vous fra interesse individuale e bene comune, che è il vero approdo del processo democratico.
Il valore del bene comune
Il bene comune, nella materia di cui qui ci occupiamo, ha un duplice valore fondativo. In primo luogo lo ha con riferimento ai rapporti fra istituzioni centrali e autonomie, che noi, noi italiani, abbiamo vissuto sinora sulla premessa che esse abbiano sfere di interessi distinte, con lo Stato che si occupa dei temi nazionali e le autonomie che fanno valere le rispettive diversità. Il modello da seguire è quello del federalismo cooperativo, che in presenza di un bene comune pone le risorse di tutti e di ciascuno al servizio della sua realizzazione e non consente a nessuno, neanche allo Stato, di avere l’esclusiva. Solo così, per essere concreti, quando arriva il momento, gli apparati sono tutti presenti e sintonizzati, mentre le assemblee dei cittadini potranno giovarsi dell’apporto di sindaci e di assessori regionali, di consiglieri locali e di consiglieri della Regione, un personale preparato e abituato ai confronti, che mai lo Stato da solo potrebbe mobilitare. Né ci si chieda chi ci sarebbe dall’altra parte, dalla parte dei cittadini. A parte i tanti che già oggi si manifestano in vari modi e che non vedono l’ora di avere occasioni del genere, basterebbe che le istituzioni mobilitassero, per tali occasioni, i tanti volontari ed addetti al terzo settore. Sono oltre quattro milioni, in contatto, a loro volta, con quasi 40 milioni di persone. Insomma, gli ingredienti della democrazia non ci mancano, basta volerli e saperli usare.
Ed entra in gioco qui la seconda ragione del valore fondativo, con questo impianto cooperativo, del bene comune. Il mondo del futuro non sarà migliore nell’interesse di tutti se ciascuno Stato baderà soltanto al proprio interesse. Questo davvero non è credibile. Mai come in questo nuovo frangente della storia del mondo, avremo modo di accorgerci quanto noi, componenti della famiglia umana, siamo tutti eguali, tutti legati l’uno all’altro dalla incombenza degli stessi problemi; bisognosi perciò delle stesse soluzioni e feriti dalle stesse inadempienze, ovunque esse accadano e chiunque di noi le faccia accadere sul nostro piccolo pianeta.
La cooperazione che servirà nei prossimi decenni è ancora largamente da inventare. Abbiamo stipulato trattati a tutela dell’ambiente, ma come garantirne il rispetto da parte degli Stati è un quesito che ancora oggi sbatte nei privilegi della loro perdurante sovranità. Cominciamo allora noi a creare le condizioni che servono, nelle nostre democrazie. Noi all’interno di ciascuna democrazia e noi europei attraverso la nostra Unione, che già oggi ha tante carte per assolvere a un ruolo trainante in vista di una cooperazione la più ampia e la più efficace possibile nel mondo: pensiamo all’esperienza cooperativa fatta con la pandemia, al nostro riconosciuto primato nella regolazione di fenomeni di rilievo sopranazionale, al peso che già abbiamo avuto nelle conferenze ambientali.
Nel suo famoso libro sulla pace perpetua Immanuel Kant inserì un capitolo sulla garanzia della stessa pace, nel quale scrisse: «Ciò che fornisce la garanzia è niente di meno che la grande artefice natura, dal cui corso meccanico si vede brillare la finalità che dalla discordia fra gli uomini fa sorgere la concordia anche contro la loro volontà; per questo viene chiamata destino».
Davanti a noi, oggi, c’è proprio la natura, a cui le nostre azioni non cooperative hanno fatto un grandissimo male. Potremmo affidarci alla speranza che sia essa stessa a spingerci oggi alla concordia. E può anche darsi che accada, l’emergenza climatica fa e farà paura. Ma non ci affidiamo solo a questa speranza. Per la sua pace perpetua, alla fine non lo fece neppure Kant.
Per leggere il testo integrale della lectio magistralis
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