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Fissiamo il Pensiero

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Quei versi di Carver in cui riconosco il volto di Gesù

  • Data 2 Ottobre 2022
Albrecht Dürer, Autoritratto di monaco

di Alessandro D’Avenia

dal Corriere della Sera – 24 settembre 2022

https://www.corriere.it/cronache/ritratto-autore/22_settembre_24/quei-versi-carver-cui-riconosco-volto-gesu-e903cbd8-3b6c-11ed-8e93-4aa9ade4f3e7.shtml

Un’irrequieta bambina delle elementari che si placava solo nell’ora di disegno era ancora intenta sul foglio quando il tempo della consegna, disegnare la persona più cara, era ormai scaduto. Mentre tutti i bambini avevano già finito, la bambina continuava il suo lavoro ignorando i richiami della maestra. Alla domanda indispettita: «Ma chi stai ritraendo?», rispose: «Dio». Alla maestra che ribatté con ironia: «Ma Dio nessuno l’ha mai visto!», la bambina disse: «Se mi lascia finire, fra poco lo vedrà». L’episodio scolastico mi è tornato in mente quando ho accettato di comporre uno dei ritratti d’autore dedicati al proprio mito. Io ne ho solo uno: Cristo. E l’unico modo che ho per farne il ritratto è provare a raccontare il rapporto con lui, e non perché sia rilevante, ma perché il suo volto si mostra solo in modo relazionale: lo vedi nella misura in cui rispondi al suo sguardo.

Nietzsche, Marx e Freud hanno mostrato che la religione è spesso l’illusione di un mondo oltre il mondo per rendere accettabile la durezza del vivere costringendo la ragione allo stato infantile. Eppure, da bambino, del divino mi affascinò il contrario. In chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro. Per un certo tempo anche io ho vissuto il rapporto con Dio secondo il meccanismo al cuore del sacro in ogni tempo: il sacrificio, cioè io rinuncio a qualcosa per Dio, così lo controllo e mi protegge. Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti).

Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita.

Per questo un giorno ho compreso il paradosso di Dostoevskij: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». In una situazione molto dolorosa in cui «la verità» e Cristo si separavano, seguendo Cristo, ho scoperto che quella che ritenevo verità era solo una mia ideologia utile a sentirmi sicuro o migliore, gonfiava il mio ego e copriva la mia mancanza di amore. Per questo non amo il binomio credente/praticante che riduce la fede da relazione a prestazione. È come chiedere a un innamorato: credi alla tua amata? E la frequenti? O ami o non ami, non è un hobby ma la vita intera: più sei innamorato più diventi attivo, creativo, attento. E si vede, non devi dirlo. Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà. Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.

Come accadde al Cireneo che vidi da bambino non solo mi sento dire: «Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do. E nessuno come Cristo — e coloro che me ne hanno mostrato il volto, dai miei genitori a don Pino Puglisi (professore di religione della mia scuola, ucciso dalla mafia all’inizio del mio quarto anno di liceo) — mi ha fatto scoprire l’eros della e per la vita. Da Cristo ho imparato la distinzione tra essere vivente ed essere vivo. Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte. Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore.

Così sto a poco a poco imparando a sostituire la domanda «perché mi accade questo?» con «che ci faccio con questo che mi accade?», perché al momento della morte vorrei poter dire: «nulla è andato sprecato». Non so com’è che tutto ciò avvenga, succede grazie alla relazione quotidiana con lui, che più che una presenza è una mancanza: la mia preghiera preferita è «mi manchi». Ma proprio la mancanza mi rende vivo, come testimonia nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea morta nel lager che, ribaltando la prospettiva del «dato questo orrore non si può credere in Dio», scriveva nel 1942: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio… E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te». E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.

Risolvendo in anticipo il paradosso di Dostoevskij, Cristo ha detto di essere lui stesso la verità, e non perché lo riducessimo a religione, libro o regole, ma perché in lui verità e vita sono la stessa cosa. In che modo? Nel vivere tutto come relazione, che per Lui è la relazione d’amore con il Padre e con gli uomini: egli è sempre generato dal Padre come figlio e uomo, cioè è sempre ri-generato, persino quando muore. Anche io, attraverso i vissuti quotidiani della relazione (gesti, i sacramenti; dialogo, parole e silenzi della preghiera; e amici, la vera chiesa), vengo sempre ri-generato come figlio e uomo, cioè come uno che riceve, in ogni istante, quello di cui ha bisogno per vivere per amore e per amare, anche quando sono schiacciato dai miei limiti, paure, ferite, fallimenti… Così resto libero perché non mi identifico in qualcosa che rappresento, che ho o so fare (o che non ho e non so fare), o che mi capita, perché so a chi appartengo e chi sono: non devo affermare me stesso, perché sono già «affermato» dall’amore. Devo solo imparare ad amarmi e amare nella misura in cui sono amato.

Per Freud, Marx o Nietzsche forse sono un illuso, ma io Cristo me lo tengo stretto, come Dostoevskij. Non mi serve a farmi piacere la vita, ma a fare della vita un piacere, come quella donna che, in una nazione asiatica dove i cattolici sono un migliaio, si è presentata dal sacerdote chiedendogli il battesimo. Lui, stupito perché la donna non sapeva nulla della fede, le ha chiesto come mai, e lei ha risposto mostrandogli un crocifisso: «Perché con lui mi trovo bene». Nel tempo ho scoperto che mentre si cerca di fare il ritratto al Dio invisibile, come la bambina del disegno, si dà il meglio di sé, perché Dio non è il fine dei nostri desideri ma l’origine, e quindi, in verità, è Lui che fa il ritratto a noi, solo che usa i colori che noi preferiamo. Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino… Come posso quindi ritrarre Cristo? Con la poesia che Raymond Carver, scrittore americano morto di tumore a 50 anni, ha voluto fosse incisa sulla sua lapide, poesia che lui stesso aveva scritto: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».

Tag:Albrecht Dürer, Carver, D'Avenia, Etty Hillesum

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piergiorgio

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I mattoni nuovi del Meeting, una storia che continua
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Riprende da oggi l’appuntamento con la nostra newsletter domenicale «Fissiamo il pensiero» e, all’inizio di un nuovo tratto di cammino, vogliamo ripartire dal Meeting di Rimini che si è chiuso da pochi giorni. La passione ideale che è il vero motore di un evento come il Meeting unico per il suo carattere e la sua rilevanza in Italia, e probabilmente anche in Europa, pur con modalità e dimensioni diverse, è la stessa che ci muove come Fondazione San Benedetto. Del Meeting si sono occupati anche i media, dando spazio però, come avviene da anni, in modo prevalente agli incontri di tipo politico. Tutti appuntamenti interessanti e di livello, ma il Meeting è molto di più. Perciò abbiamo sempre invitato tutti a trascorrere almeno un giorno in fiera a Rimini, unico modo per evitare giudizi affrettati e parziali. Quest’anno attorno alla frase di T.S. Eliot «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi» (titolo dell’edizione 2025) in sei giorni si è sviluppato un programma di incontri, mostre e spettacoli davvero ricco. Solo a titolo di esempio ricordiamo gli incontri col Patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo a 1700 anni dal Concilio di Nicea, con due madri, una israeliana e l’altra palestinese, che hanno perso un figlio, testimoni di una riconciliazione possibile, con lo scrittore spagnolo Javier Cercas. E poi le mostre da quella sui martiri di Algeria a quella su Vasilij Grossman, da quella su Carlo Acutis a quella sulle voci dall’Ucraina. Nell’ultimo giorno del Meeting è stato annunciato il titolo dell’edizione del prossimo anno che riprende il verso finale della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo, tratto dal quotidiano online ilsussidiario.net, di Giuseppe Frangi, fondatore e vicepresidente di Casa Testori e amico della San Benedetto. Con lui stiamo già collaborando e altre iniziative sono in cantiere. Ricordiamo la serata dello scorso luglio a Brescia con la lettura nella chiesa di San Giovanni del dialogo sul Romanino fra Pasolini e Testori (a questo link lo potete rileggere).
Tornando al titolo del Meeting, questo sta a indicare ogni anno il passo di una storia che continua e che non si ferma a guardare indietro, bloccata su se stessa. È l’espressione di un ideale che si fa vita. Ben altro che un contenitore di eventi o, peggio, di intrattenimento. Si spiega così che dopo 46 anni il Meeting ci sia ancora e sia un luogo sempre interessante e sorprendente. Un percorso analogo lo stiamo facendo come San Benedetto. Abbiamo già in preparazione alcuni incontri sui temi dell’Europa e dell’intelligenza artificiale, e tanto altro, non mancheremo di tenervi aggiornati. Al di là delle singole iniziative la fondazione è prima di tutto un luogo di incontro e di amicizia aperto a tutti. Intanto siamo già in grado di confermarvi che da giovedì 25 settembre alle 18.30 nella nostra sede di Borgo Wührer 119 a Brescia, ci ritroveremo per la Scuola di comunità. Partendo dalla lettura di alcuni testi di don Luigi Giussani è un’occasione per mettere a confronto domande ed esperienze che riguardano la nostra vita e il suo significato. Gli incontri, della durata di un’ora, si terranno con cadenza quindicinale sempre alle 18.30. La proposta è libera, gratuita e aperta a tutti. Chiediamo solo la continuità della partecipazione come segno di serietà nel percorso che ci apprestiamo a cominciare. Il giorno 25 verranno date indicazioni su come si svolgeranno gli incontri con il calendario fino a dicembre e sul testo di riferimento.

Qualcosa di più forte e profondo della distruzione
26 Luglio, 2025

La newsletter di oggi è l’ultima prima della pausa estiva. Anche in queste settimane per molti dedicate al riposo e alle vacanze, mentre il mondo è in fiamme e gli orrori della guerra si moltiplicano, crediamo che non si possa far finta di nulla, aprire una parentesi o staccare la spina come si usa dire. Non si può andare in vacanza senza portarsi dietro queste ferite. Portarsele con sé rende più bello e più vero il tempo del riposo. Per questo oggi vogliamo proporvi la lettura di due testimonianze da due dei principali teatri di guerra: l’Ucraina e Gaza. Già scorse settimane avevamo ricordato il caso di Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino che dentro lo scenario di morte prodotto dalle ideologie del ’900, non aveva mai smesso di cercare «l’umano nell’uomo» come inizio di una possibilità di speranza. Le testimonianze di oggi ci dicono che anche nelle situazioni più difficili, la violenza, la distruzione e la morte possono non essere l’ultima parola. 

La prima, pubblicata sul sito «La Nuova Europa», è di Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana. Racconta la storia di Alina, giovane donna ucraina, malata di cancro in fase terminale, che nei suoi ultimi giorni di vita ha trovato accoglienza in un hospice a Charkiv, mantenuto aperto anche sotto le bombe. Tutto sembra perduto, senza speranza, in guerre ogni giorno sempre più distruttive e spregiatrici di giustizia e umanità… eppure c’è chi lotta e resiste per accompagnare sin nella morte chi è senza speranza e riaffermare una dignità e una pace che nessun malvagio può cancellare. È l’infinita sorpresa di un miracolo reale che non sapremmo neppure immaginare.

La seconda testimonianza ci è offerta dalla dichiarazione fatta dal patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al suo rientro dalla visita a Gaza insieme al patriarca ortodosso Teofilo III. «Siamo entrati – ha detto aprendo la conferenza stampa – in un luogo devastato, ma anche pieno di meravigliosa umanità. Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi».

L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 7 settembre. Buone vacanze!

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