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Vivere nella stagione della risacca

  • Data 11 Dicembre 2022

di Concita De Gregorio

da la Repubblica del 4 dicembre 2022

https://www.repubblica.it/commenti/2022/12/03/news/governo_meloni_la_stagione_della_risacca-377343846/

Non è solo la melanconia del presentimento, l’inverno demografico, la sensazione che il vecchio ordine delle cose sia davvero finito e non ce ne sia uno nuovo. Non è solo la rassegnazione all’evidenza che la classe politica prodotta da decenni di scommesse sulla figura del leader (presto, un volto, un nome, uno furbo e svelto da votare) e di premi-fedeltà ai suoi scudieri abbia generato la più debole, sbandata e inconcludente compagnia di giro mai vista, fra governo e opposizioni. C’è qualcosa di più profondo in questa stagione della risacca, che ha l’odore marcio delle alghe a riva quando il mare si ritira. Una specie di desolazione definitiva, come se a questo giro fosse davvero finito il gas che accende le passioni. Troppi investimenti a vuoto, troppe speranze disilluse troppo a lungo. Non interessa più quasi niente. Il proprio portafogli, certo. Il proprio destino personale: ma dentro quale disegno, a prezzo di quali battaglie, in nome di quale orizzonte collettivo no, questo no. Mentre nel resto del mondo si infiammano rivoluzioni potenzialmente in grado di cambiare i campi di forza, la Storia, qui in Italia, in Europa, si vivacchia, si tira a campare con quello che c’è. Si vince e si perde in recinti sempre più piccoli, si esulta per un risultato effimero: dove una volta serviva uno stadio, a riunirsi, oggi basta una piazzetta, quattro gatti, correnti in conclave nello spazio di una cabina del telefono. Fuori, nella coda dell’occhio del campo visivo, la Cina torna per strada esasperata dalla meno politica delle ragioni: la permanente reclusione per Covid. La potenza più temuta, la più aggressiva senza dare guerra apparente: qualcosa di enorme sta accadendo, in Cina. L’Iran, la rivoluzione dei ragazzi contro l’orrendo regime religioso che le sinistre d’Occidente salutarono come liberazione, dall’influenza americana, all’epoca. Ma c’interessano poco, quei morti. Sempre meno i morti ucraini, in questo conflitto troppo lungo — ha già stancato, quanto ci costa, in nome di cosa.

Tornano i guitti in tv, le storie di corna tengono banco come nelle stagioni morte, le famiglie reali, le spunte su Twitter, il caffè con il bancomat e poi c’è il calcio, il resto che volete che sia: guardate gli ascolti tv, seguite l’algoritmo. Persino un calcio senza di noi è più interessante di una legge di bilancio che parla di noi, che poi tanto le leggi vanno e vengono, si cambiano, ci son sempre i condoni e non c’è da farci troppo caso a quel che si dice oggi, domani sarà un’altra storia. Il governo si è insediato da sei settimane, niente, e sembrano passati anni da una campagna elettorale furibonda: il fascismo che torna, allarme, il campo largo a fare argine al pericolo, gli sgambetti e i tradimenti dell’ultimo minuto, a sinistra, l’opposizione in frantumi, il nuovo Centro, ma centro di cosa se la sinistra non c’è. La diaspora dei Cinque Stelle, la scomparsa del fondatore, Grillo dov’è?, Conte Masaniello capopopolo dei derelitti con un semplice cambio di camicia, meglio il maglione dolcevita per questa stagione, funziona — e difatti. Berlusconi ostaggio delle nuove signorine, Renzi e Calenda che scalano Forza Italia, Salvini che boccheggia come un pesce senz’acqua, Draghi che saluta cordiale e passa le consegne, farà bene chiunque, qualsiasi governo farà quel che deve, arrivederci. E poi, e dunque? Niente.

Un mese e mezzo scarso, ed è vero che ci si abitua a tutto molto rapidamente ma così veloce, quest’inedia questa noia, non si erano viste mai. I nuovi, come previsto, sono vecchi. Giorgia Meloni da sola, senza una classe dirigente all’altezza del compito, si barcamena con quello che c’è: molta retorica, la famiglia, l’ordine il riscatto, ma il problema grande sono i soldi che mancano e se ci sono non si sa come usarli, servirebbe competenza, e gli alleati che la soffrono come un sopruso: sotto il dieci per cento, entrambi, eppure fastidiosissimi e ciarlieri, gente che non sa fare silenzio — la disperazione delle perdita di consensi irrimediabile. Enrico Letta avrebbe dovuto alzar bandiera bianca, all’indomani del risultato, ma si è fatto soldato — nell’incertezza sul da farsi, il senso del dovere — e sta lì, a non governare un processo di rinnovamento che rinnovamento non sarà, perché nessuno in quel che resta del centrosinistra rinuncerà alla sua postazione, al suo posto di mazziere che dà le carte e i posti alla sua corrente. Perciò ecco, come può appassionare un dibattito in cui Letizia Moratti si presenta a chiedere i voti della sinistra in Lombardia, come se Piero
Fassino si candidasse alla guida del centro destra in Piemonte — uno lo dice così per paradosso, ma chissà. Nemmeno Conte a Scampia scalda più, nemmeno i tumulti di piazza dei deprivati dal reddito spaventano, che tanto alla fine qualcosa dal cilindro di governo uscirà: uno sgravio, una paghetta. Il caso Soumahoro, che ha regalato alle destre un’insperata formidabile campagna per seppellire in un colpo solo rivendicazioni sindacali, questione migranti, integrazione, esodi biblici e schiavismi, ha visto la sinistra politica e intellettuale vacillare come a un ko. Al di là delle ragioni e dei torti, dei meriti e delle colpe il passaggio dalla celebrazione eroica dell’uomo-simbolo che entra in Parlamento con gli stivali infangati al suo occultamento con vergogna è stato, oggettivamente, uno spettacolo triste e finale.

Resta da divertirsi nei talk show col folklore, la prima la seconda moglie, le borse griffate, la suocera, come sempre i cognati. Di cognati è lastricata la storia. Ma peggio di sempre, stavolta. Tutto più stanco, più triviale, più distratto e in fondo inutile. La verità è che la politica ha perso, tutta insieme, la grande occasione, forse l’ultima, di tornare a mobilitare. Poteva essere l’inizio di una grande riscossa dell’opposizione — ad averne una — davanti a una destra così destra, così facile da contestare. Poteva essere l’occasione per la destra di mostrare un disegno che non fosse il semplice ora tocca a noi, e vai con lo spoil system. Fuori gli altri, dentro i nostri. E invece no. Va come va. Il pubblico è già stanco, vuole distrazioni nuove. Una celebrità da mettere alla gogna, un’influencer a Sanremo. A febbraio, fra Chiara Ferragni e Bonaccini-Schlein non è difficile indovinare dove andrà l’attenzione della maggioranza che fa audience, l’Italia profonda che televota. E che poi smotta quando piove ma si sa, è sempre andata così: vedrai che arrivano i fondi speciali, dove è marcio si ricostruisce. È l’abitudine.

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piergiorgio

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In attesa del Conclave che dovrà eleggere il nuovo papa, nella newsletter di questa settimana ci soffermiamo ancora sulla figura di papa Francesco proponendovi la testimonianza di due giovani siciliani, Giuseppe e Claudia, oggi marito e moglie, che l’hanno conosciuto in un frangente molto complicato della loro vita. La riprendiamo dall’articolo, pubblicato sul sito del movimento di Comunione e Liberazione, che vi invitiamo a leggere. È la storia di un’amicizia imprevedibile, una testimonianza che parla da sola per la sua semplicità e per la straordinaria intensità di vita che comunica.  

«Non addomesticate le vostre inquietudini», ricordando Francesco
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«La parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino». Questa settimana apriamo la nostra newsletter domenicale con queste parole di papa Francesco tratte dalla sua lettera ai poeti, pubblicata l’anno scorso, di cui vi proponiamo la lettura. Fra i tanti testi possibili abbiamo scelto questa lettera per esprimere la nostra gratitudine per ciò che questo Papa è stato. Le sue sono parole che vanno dirette al cuore. La poesia e la letteratura diventano un aiuto formidabile «a capire me stesso, il mondo, ma anche ad approfondire il cuore umano». Fanno emergere un’esperienza «debordante», che spinge ad andare «oltre i bordi chiusi», a non addomesticare le inquietudini. «Raccogliete gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo – scrive ai poeti -, perché non si raffreddino e non si spengano». Allo stesso modo c’è l’invito a non «addomesticare il volto di Cristo, mettendolo dentro una cornice e appendendolo al muro». Significa «distruggere la sua immagine».

foto rawpixel.com

Quanto scrive Francesco lo sentiamo particolarmente vicino perché esprime molto efficacemente lo spirito che ci ha sempre mosso nella proposta di un’iniziativa come il Mese Letterario. Come abbiamo sottolineato non si tratta di un’attività culturale o di divulgazione, né tantomeno è una forma di intrattenimento. Nel suo piccolo per tante persone è stata invece un’occasione per riscoprire la ricchezza umana che la letteratura può offrire oltre al valore della lettura come atto di libertà. In alcuni grandi scrittori e poeti abbiamo trovato quel fuoco che è alimentato dalle domande fondamentali sull’esistenza e da un desiderio di verità, di giustizia, di bellezza che non accetta di adeguarsi a qualche sistemazione accomodante. Tra parantesi ricordiamo che giovedì 8 maggio prenderà il via la quindicesima edizione del Mese Letterario. Per chi non si fosse ancora iscritto è possibile farlo a questo link dove trovate anche il programma degli incontri. 
Tornando a papa Francesco, in questi giorni sono stati pubblicati parecchi articoli, alcuni davvero interessanti, sulla sua figura e sul suo pontificato. Qui vogliamo semplicemente segnalarvi un breve ricordo scritto dal cardinale Angelo Scola sul Corriere. «In questi giorni — più che interessarmi di analisi e bilanci del papato di Francesco, in ogni caso troppo prematuri — la domanda che si è aperta in me – osserva Scola – è stata: quale richiamo il Padre Eterno ha suggerito alla mia vita e per la mia conversione attraverso papa Francesco?». Ecco questa domanda descrive, prima di ogni analisi o considerazione, la posizione più vera per vivere questi giorni.      

Alla fine di un mondo
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«L’uomo che vuole fare senza Dio, fallisce. Alla fine dei conti, arriva a fare esperienza di vuoto. Di vuoto di senso. Non riesce a costruire prospettive a lungo termine. In questa società post secolare l’uomo è rimasto con la fame dentro. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Mi viene ora in mente l’Inquisitore dei Fratelli Karamazov, “dategli il pane e staranno bene!”. Diamo il pane, diamo la giustizia umana… tutte cose che abbiamo già visto. Poi l’uomo si accorge che resta affamato, alla ricerca di qualcosa che gli riempia la vita e il cuore. Lì la Chiesa deve intervenire con la sua proposta». A parlare così è il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista davvero interessante pubblicata dal Foglio, che vi vogliamo proporre come lettura in occasione di questa Pasqua 2025. Un testo da leggere con grande attenzione che contiene passaggi illuminanti che vanno al cuore dei problemi di oggi. Nell’intervista Pizzaballa si sofferma sull’attuale situazione in Terra Santa, dove «niente tornerà più come prima», per passare poi alla crisi della Chiesa e al tema della fede. «Non dobbiamo temere i cambiamenti – sottolinea il patriarca -, non dobbiamo vivere di paura. Sta finendo un modello di Chiesa. Credo che Benedetto XVI l’abbia detto bene: sappiamo che sta finendo qualcosa ma non sappiamo come sarà dopo. Si definirà col tempo. Anche questa crisi, dunque, produrrà qualcosa. Le nostre valutazioni sono sempre molto umane, c’è la tentazione del potere, dei numeri, della visibilità. Ci sta anche, eh. Dobbiamo essere visibili. Ma non dobbiamo temere più di tanto questo, perché c’è anche Dio, c’è anche lo Spirito Santo. C’è la Chiesa che, attraverso la testimonianza di tante realtà, crea ancora qualcosa di buono. Non avrei troppa paura. Bisogna preoccuparsi, e lo ripeto, di essere autentici, genuini. La Chiesa non deve fare marketing: la Chiesa deve dire che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo». Quello di Pizzaballa è anche un forte invito a riscoprire la differenza che il cristianesimo introduce nella vita dell’uomo e della società: «Il rischio – spiega – c’è sempre, sia nella Chiesa sia fuori dalla Chiesa, quello di non complicarsi la vita, di stare nell’ordinario, fatto di orizzonti normali, che stanno dentro una comprensione solo umana. Mentre invece l’incontro con Dio rompe sempre gli schemi e su questo il cristianesimo deve fare la differenza. Se non la fa, puoi avere anche tante chiese e belle basiliche, ma diventi irrilevante perché non hai niente di importante da dire». 

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