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Quando Testori scriveva sulla prima pagina del Corriere

  • Data 25 Marzo 2023

Riproponiamo l’articolo di Giovanni Testori intitolato «Realtà senza Dio», pubblicato sul Corriere della Sera del 20 marzo 1978 dopo il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta 

 

Quando, lungo la giornata di giovedì, presi nelle dure ombre di un’emozione sotto cui non volevamo che le nostre responsabilità venissero minimamente a cedere, abbiamo letto i giornali e seguito la televisione; e quando, l’indomani, abbiamo aperto le pagine dei quotidiani, la cosa che più ci ha angosciati è che, nelle disamine dell’accaduto e nel mare di contrabbando retorico che quelle analisi ha accompagnato, non ci è stato concesso d’imbatterci in una sola domanda che recasse in sé il disperato bisogno d’una possibile spiegazione totale e, dunque, religiosa del punto in cui è arrivata la vita; e questo ove pure quella spiegazione avesse dovuto risultare veramente e completamente esclusa dalla nostra esistenza; anzi, magari proprio per quella totale e tragica esclusione. Neppure nelle parole pronunciate o scritte da chi, per il segno stesso di cui fregia la propria militanza politica, ci sarebbe parso naturale, il nome di Dio è venuto fuori; e neppure è uscito quello della sua assenza; del vuoto, intendo, che la sua assenza ha determinato nella società dell’uomo.

Comprendiamo benissimo l’urgenza di leggere con la più intransigente lucidità la catena efferata dei fatti; comprendiamo altresì come la necessità primissima fosse di fermare ogni eventuale dilatarsi della paura, in modo che la situazione non sfuggisse dalle mani di chi, soprattutto, doveva governarla; e, tuttavia… Tuttavia, appunto, dove può mai giungere una società che intenda spiegar tutto politicamente, tutto politicamente decifrare (senza per altro riuscirvi) anche e proprio nel momento in cui il cumulo degli errori, delle responsabilità, delle vergogne e dei tradimenti (e, primo fra tutti, il tradimento dell’anima) suona i suoi cupi e fatali rintocchi? Quando questi rintocchi annunciano contemporaneamente la povera morte di alcuni innocenti là, sulle strade che fin a poco prima sembravano calme e serene, e la morte morale della stessa concezione dell’esistenza, una concezione per cui dall’assalto allo Stato e dall’assassinio di cinque suoi figli non si riesce a cavare neppure un dubbio sulla sua reale capacità di consistere, anche solo storicamente e anche solo socialmente?

Che l’atto sia stato, appunto, compiuto contro lo Stato è orrendamente certo, ma cos’ha fatto per anni e anni questo Stato affinché tale atto non venisse preparato e realizzato? E perché anche nel momento in cui l’approssimarsi del «redde rationem» si va facendo inarrestabile, si usa ancora la parola che confonde, la parola che annebbia, la parola che copre, la parola che mente?

Perché almeno ieri, almeno oggi, almeno adesso, non si pone fine al sistema delle retoriche, opposte eppur eguali, e non si aiuta l’uomo a porsi con terribile chiarezza di fronte alla realtà?

Perché chi ha la possibilità e, dunque, il dovere di farlo, non l’aiuta a capire come sia proprio la realtà sociale a naufragare una volta che essa venga privata del suo sangue sacro e religioso?

Perché s’è avuto e si ha ancora il timore di dire che il Dio rifiutato è un vuoto che nessuna demagogia del benessere e dell’eguaglianza, o d’ambedue assieme, può colmare; e che quel vuoto, a riempirlo, sarà solo il cupo inferno della materia impazzita e della sua impazzita cecità e solitudine? E perché continuare a pensare, a scrivere, a dire e a difendere che la disamina della condizione generale dell’uomo e della sua esistenza impedisce quella delle sue situazioni storiche particolari, quando tutto (e, in prima fila, il nostro presente stato di rischio, se non già di disastro) è lì a provare che, assommando soluzioni o pseudosoluzioni particolari, alla fine sono proprio i particolari medesimi, è proprio la medesima storia dell’uomo, sono il benessere e la sua eguaglianza a venir accecati e distrutti?

Non vorremmo che anche questo terribile episodio, il cui senso e la cui conclusione sono ancora ben lontani e potrebbero risultare ulteriormente tragici e cupi, finisse per scivolare in un’accettata proposta di soluzione particolare, e tutto questo affinché il turbamento non sembri troppo crudele ed esacerbante. Ma nessuna luce, oggi, è abbastanza chiara; nessuna è abbastanza ferma, dura e crudele. Senonché la luce di cui, oggi, l’uomo ha bisogno non è primariamente di natura politica e sociale; è una luce che anche queste comprende e che, anzi, ne precisa e illumina i valori reali e supremi, ma reali e supremi proprio perché riconosciuti relativi rispetto al suo proprio e primo Supremo.

L’uomo e la sua società stanno morendo per eccesso di realtà; ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome: privata, cioè, di Dio. Dunque, d’una realtà irreale. La servitù tanto giustamente esecrata e temuta sembra di nuovo premere alle nostre spalle, proprio mentre la terribile assenza prende a rombare dentro i nostri poveri crani. Affondare gli occhi nel nostro male tenendo presente il Dio che abbiamo lasciato o, quantomeno, il dolore d’averlo lasciato, non significa veder meno: significa vedere ancora di più; e significa, inoltre, non poter più usare la parola (quella parola che è appunto ciò che si fa carne) come menzogna; menzogna che è servita e serve per usare la carne; per colpirla, crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo costruito per il nostro bene e per la nostra vita.

Tag:Giovanni Testori

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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