La fede è per la ricerca della felicità o per trovare un comfort?
di Marco Ventura
da La Lettura – 14 maggio 2023
Trentasei anni, francese, Jean de Saint-Cheron ha sorpreso il suo Paese con il libro pubblicato due anni fa. Uscito per la casa editrice Salvator, Les bonschrétiens è stato salutato dalla stampa francese come l’opera di un nuovo astro della saggistica transalpina. Lo scrittore Pierre Michon, cui de Saint-Cheron dedica nel libro parole ammirate, ha ricambiato l’ammirazione in un’entusiastica recensione cui il supplemento culturale di Le monde ha riservato la prima pagina. Il libro esce ora per Libreria Editrice Vaticana con il titolo Chi crede non è un borghese. L’opera ripropone la fede cristiana nella vocazione di ciascun fedele alla santità. De Saint-Cheron condanna di conseguenza il cristianesimo imborghesito, tiepido, complice del mondo senza Dio in cui l’Occidente sarebbe sprofondato a partire dal XVIII secolo e di cui sono testimonianza oggi lo «wokismo» di sinistra, il complottismo di destra, l’islamismo fondamentalista e una certa sub-cultura cattolica ripiegata su sé stessa. L’autore invita la piccola minoranza cristiana occidentale a non rassegnarsi: invece della triste vita da borghesi «sistemati» propone la via della santità. La Lettura lo raggiunge al telefono.
È fondamentale nel libro la critica dei cristiani imborghesiti, «sistemati».
«Sono partito da un paradosso. Se torniamo all’essenza del cristianesimo è una evidenza assoluta che ciò che si propone ai cristiani è il combattimento per la santità, per la fede. Oggi invece prevale l’opposto. Ci si sistema, ci si accomoda nel comfort. Come il ricco del Vangelo. Proprio mentre il cristianesimo deperisce».
Una critica aspra.
«Ci sono delle eccezioni, naturalmente. È però evidente come il combattimento della fede non sia al cuore delle preoccupazioni degli ultimi cristiani d’Occidente. Basta loro sentirsi detentori della verità. Si rinchiudono in un comfort intellettuale che minaccia gravemente la vitalità del cristianesimo. Si tratta di una contro-testimonianza spaventosa rispetto a ciò che il cristianesimo ha da dire».
E cioè?
«La parola negli atti».
Si spieghi.
«Il cristianesimo sembra morire nella pigrizia, nel comfort, perché gli ultimi cristiani non praticano più, non credono più. Oppure cade nell’identitarismo. I cristiani sono contenti di sé stessi e testimoniano soltanto attraverso la parola».
Invece?
«L’evangelizzazione è nell’amore. Lo dice il Cristo nel Vangelo. È dall’amore che avrete gli uni per gli altri che vi si riconoscerà come miei discepoli. Bisogna rimettere questo al centro delle preoccupazioni del cristianesimo occidentale».
Sembrerebbe scontato.
«Molti hanno dimenticato che l’obiettivo della vita cristiana è la felicità, direi persino il godimento. Il combattimento della fede, cioè dell’amore, corrisponde alla più grande felicità dell’uomo. Siamo fatti per questo».
Il volume termina con un glossario dei concetti base come la fede, la santità, i sacramenti, la preghiera, l’ascesi.
«L’ho fatto per i non cristiani di buona volontà da cui speravo di essere letto. Come poi è avvenuto. Ma soprattutto per quanti continuano a dirsi cristiani e non sono più capaci di rispondere della loro fede in modo serio, razionale, concreto».
Ad esempio?
«Prendiamo l’ascesi: non è la rinuncia per la rinuncia. È la rinuncia che ci dischiude un bene più grande, un godimento più grande».
Il suo libro è una confessione di fede.
«Non mi prendo per un salvatore, per uno che ristabilisce la verità della fede in Francia. (Ride) Ho fatto il libro più sincero possibile. Gli autori che cito, Blaise Pascal, Charles Péguy, Flannery O’Connor, Léon Bloy, sono scrittori di una sincerità incredibile. Scrivono con la pancia. Non mi prendo per un Pascal o un Péguy, ma ho fatto un libro a cuore aperto».
In alcuni passaggi lei parla di sé. Il cibo, la musica, i poster di Nastassja Kinski e Gloria Grahame nella stanza.
«Non è una posa. Mi piacciono la buona carne, il buon vino, mi piace fare festa. E’ tutto compatibile con il cristianesimo».
Sicuro?
«Cito Hilaire Belloc, amico di Chesterton: “Ovunque splende il sole del cattolicesimo troviamo amore, risate e buon vino”. La differenza che conta è tra il godimento egoista, la logica mondana e l’apertura all’altro, cioè il servizio, la fraternità autentica».
Invoca il realismo dei cristiani.
«La sub-cultura cattolica che critico è tutto il contrario del realismo. È una zuppa spirituale fatta di buoni sentimenti che non esiste nella realtà. Unita a una certa durezza farisaica».
Proprio ciò che i non credenti rimproverano ai cristiani.
«Fanno bene. Ma il mondo senza Dio ha lo stesso problema. Se indosso gli occhiali del realismo devo rivolgere ai non credenti la stessa critica. I difetti degli ultimi cristiani d’Occidente sono gli stessi dei loro avversari».
Lei scrive di «un mondo che, in mancanza di qualcosa da annunciare, si sfinisce nel denunciare».
«Siamo caduti in un tempo in cui sappiamo solo criticare. Capita di rado che un uomo o una donna annuncino una buona notizia al mondo. Invece il cristianesimo non smetterà mai di annunciare la resurrezione. La buona novella sarà nuova ogni mattina».
Cosa c’entra questo con il realismo?
«Perché Cristo è risorto cercherò di agire diversamente. Perché Cristo è risorto visiterò un malato, sanerò un conflitto o farò catechismo in periferia. Solo questo può darci un senso. Perché altrimenti alzarci la mattina?».
Torniamo alla santità. Lei scrive: «I grandi santi sono sempre insoddisfatti, ma mai rassegnati».
«Prendiamo Santa Teresa di Lisieux. Dipinta come una sdolcinata, in realtà una guerriera: non rinuncia all’aspirazione dell’infanzia alla gloria e alla felicità. Questa è l’anti-rassegnazione. Non accetta che il mondo le proponga qualcosa di inferiore al suo desiderio. Dice: se il Signore ha messo questo desiderio nel mio cuore è perché può appagarlo».
Questo è il suo messaggio?
«Questo va annunciato oggi. Il desiderio immenso che abbiamo nel cuore può essere appagato, ma solo nella santità. Siamo stati fatti per qualcosa di più grande di noi. E il compimento di questa vocazione soprannaturale è l’amore, l’altro nome della santità».
Che senso ha tutto ciò per la sua generazione?
«Non mi sento solo. Ho la fortuna di avere amiche e amici molto cari. Ho scritto questo libro per loro. Certe pagine per gli amici non credenti. Certe altre per i cattolici ferventi».
Come è stato accolto il libro?
«In modo incoraggiante. Tanti cattolici, anche giovani, anche sconosciuti, mi hanno espresso il loro entusiasmo. Siamo in tanti a pensare che la santità è l’unica avventura degna di essere vissuta quaggiù».
E i non credenti?
«Ho avuto una eco molto positiva anche tra certi di loro. Hanno visto qualcosa di gioioso nella mia fede».
Mancano nel libro i cristiani non cattolici e i credenti non cristiani.
«Il libro è sul cattolicesimo, la fede nella quale sono cresciuto. Volevo indagare cosa significa essere un buon cattolico, qual è il senso profondo della mia fede. Volevo risituare il combattimento della santità al cuore della pratica cattolica».
Il suo stile: denso ma accessibile.
«Mi è venuto naturale. Il libro viene da lontano. Ci sono dietro migliaia di ore di lettura».
Tra i tanti autori francesi citati manca Emmanuel Carrère.
«Lo citavo nella prima versione del libro. Quando l’editore mi ha chiesto di ridurre il testo di un terzo l’ho sacrificato».
Non mancano gli spunti polemici.
«È un libro sincero. Che rispecchia perfettamente la mia personalità. C’è un’energia, direi una virulenza, che ha innervosito alcuni, anche a me vicini».
Se la prende molto con la sub-cultura cattolica.
«E non ho ancora finito. Potrei dedicarle un pamphlet in futuro».
Tra gli esempi di sub-cultura cattolica lei cita nell’edizione francese del libro l’arte di Marko Rupnik, gesuita sloveno ora al centro di un grave scandalo sessuale.
«È un esempio di quei prodotti culturali che interessano solo i cattolici, sintomo di una rottura con la cultura di tutti».
Concentrandosi sulla crisi del cattolicesimo seguita alla rivoluzione borghese non rischia di idealizzare i secoli precedenti?
«Non mi faccio illusioni sul passato. Quando parlo di cristianesimo borghese, in un certo senso rimonto a Adamo ed Eva. Da sempre la santità è un combattimento di minoranza».
Definisce il «Trattato di ateologia» di Michel Onfray del 2005 un errore di gioventù del filosofo, un testo non riuscito. E se il suo libro tra vent’anni fosse giudicato allo stesso modo?
«Il mio è sicuramente un libro non riuscito. Come del resto tutte le opere della mano dell’uomo. Si può solo tentare. Solo Dio riesce a fare ciò che vuole, ciò che è buono».
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Giuseppe Camadini, quando terra e fede diventano tutt’uno
di Giacomo Scanzi
da ilsussidiario.net – 16 maggio 2023
Studium ha pubblicato il primo profilo storico di Giuseppe Camadini, notaio, ex presidente di Cattolica Assicurazioni, figura storica del cattolicesimo bresciano
“Quando tutto è finito, è il momento di ricominciare”. Rocco Buttiglione ha commentato con queste parole la lunga stagione di impegno che ha caratterizzato la biografia di Giuseppe Camadini, notaio bresciano scomparso nel 2012, uomo impegnato nelle vicende novecentesche del movimento cattolico e della Chiesa, di cui – dopo il convegno del giugno 2022 – si traccia un primo profilo storico nel volume Giuseppe Camadini (Studium, 2023). Ed è proprio presentando il volume, qualche giorno fa a Brescia, con Eliana Versace e Tiziano Torresi, che Buttiglione ha individuato il nocciolo costitutivo dell’impegno di Giuseppe Camadini: una solida e laica fede, un amore all’uomo e alla sua terra, una chiara lettura del proprio tempo con la profonda e fiera umiltà dell’uomo che sa di occupare un segmento finito della storia ma nutre la certezza di poterne affidare la continuazione ad anime nuove.
Così, occuparsi della storia di Giuseppe Camadini significa innanzitutto gettare uno sguardo sul Novecento, su quel secolo tragico che ha forgiato vite. Quel Novecento bresciano cattolico che, erede della stagione della Questione romana e dell’impegno dei credenti nella società in polemica con lo Stato, dopo l’esperienza di due guerre mondiali ha cercato di ricucire nei fatti quello strappo, con creatività, con impegno. Insieme, tale ricognizione, seppure embrionale, getta luce sulle diverse anime del panorama cattolico bresciano, sulle dinamiche relazionali, sulle dinamiche di rapporto tra laicato e Chiesa, sugli approdi concreti, verrebbe da dire “istituzionali”. Non certo per rintracciare vincitori e vinti, ma per comprendere fino in fondo senso e valore di un impegno.
Il volume contiene diversi autorevoli contributi di altrettanti storici: da Ernesto Galli della Loggia a Maria Bocci, da Paolo Corsini a mons. Angelo Maffeis, da Oliviero Franzoni a don Aldo Delaidelli, con un significativo intervento del card. Giovanni Battista Re. La traiettoria esistenziale di Giuseppe Camadini è tracciata tra i due poli storici che hanno caratterizzato il percorso del nostro Paese dalla ricostruzione post-bellica alla dissoluzione dell’esperienza politica del cattolicesimo civile che tanta parte ha avuto nel rilancio sociale ed economico italiano, e da cattolico Camadini ha speso ogni energia possibile per mantenere viva l’anima cattolica di una comunità civile sempre più orientata, sotto le spinte del consumismo, ad una secolarizzazione radicale.
Quel che emerge dalle ancora troppo poche carte regestate e utilizzate per questo primo approccio storico alla figura di Giuseppe Camadini, è insomma un mondo, una rete di relazioni che costituiscono l’ordito di un’esistenza personale e pubblica totalmente “dedicata”, delicata e insieme assolutamente disincantata. Terra e religione erano i capisaldi di tale respiro allungato. Ovvero: luogo e anima. Potremmo dire: luogo e sua anima. Essere di… significava – come avevano ben presente i nostri vecchi, a qualsiasi ceto appartenessero – aver chiara e naturale consapevolezza che non si può vivere se non ancorati ad un posto e che di quel posto è necessario e doveroso avere cura. L’impegno civile – per dirla sbrigativamente – nel solido realismo assai poco ideologico di quelle lontane generazioni, radicava proprio qui: nel prendersi a cuore, secondo le proprie possibilità, il bene e il bello del posto che albergava nell’anima.
L’altro polo dell’appartenenza attiene alla tradizione – per utilizzare una categoria storica – che, nel linguaggio di un vissuto appassionato, prende il nome di religione, fede, pietas, fino a toccare, talvolta, le vette della vera e propria spiritualità. Comunità civile e comunità religiosa insomma costituivano un tutt’uno, erano una vera e propria civitas che, accanto ad una liturgia del quotidiano, aveva sviluppato nel tempo un sistema di relazioni sociali che garantiva un sufficiente equilibrio sociale, messo in crisi dalle nuove regole del mercato e del profitto.
Resta, con tutto il peso delle responsabilità che essa comporta, la questione iniziale posta da Buttiglione, che muove dalla consapevolezza che un mondo è finito: è pensabile che ogni possibile idea ricostruttiva di una società in declino possa essere priva dell’apporto dei cattolici?
Tra le tante riflessioni camadiniane degli ultimi anni, quella relativa al rapporto tra cristianesimo e democrazia aveva assunto una certa importanza. ma ancora più significativa era la preoccupazione che quel termine, cattolico, potesse cadere in disuso, caratterizzato da un’intrinseca antipatia. Termine superato? – si chiedeva –, termine divisivo? Termine ormai accompagnato da troppi attributi al punto da perdere ogni pregnanza storica? Forse, per rispondere alle sollecitazioni dell’inizio, varrebbe la pena di ripartire proprio da qui, da quella parola – cattolico – che perfino la Chiesa talvolta fatica a pronunciare.
Certamente è necessario riprendere il corso delle cose facendo tesoro della certezza che in Camadini radicava nella fede e che fecondava ogni sua azione, ogni istituzione. Ed è proprio a partire da questo “altro” così intimo, apparentemente al di sopra della Storia, che fine e inizio possono trovare, generazione dopo generazione, il loro solido significato, allacciandosi come anelli di una lunga catena. Per ricominciare. Appunto.