Vattimo e Fallaci, due testimonianze che interrogano
«Non era uomo ZTL, ha sofferto, era interrogato da Cristo: il mio ricordo di Vattimo»
di Monica Mondo
da ilsussidiario.net – 21 settembre 2023
Gianni Vattimo lo conoscevo bene. Apparteneva a quella ricca e felice stagione intellettuale torinese, quando gli intellettuali non si chiudevano ancora nelle Ztl credendo di rappresentare la parte migliore, più intelligente e più morale della società. Quando gli intellettuali erano anzitutto tra loro amici, pur con idee diverse e a volte litigando, ma davanti a un bicchiere di rosso e un piatto di agnolotti. C’erano Vattimo, e Magris, e Davico Bonino, e Beccaria, dietro ai più anziani Barberi Squarotti, e Jacomuzzi Stefano e Angelo, e mio padre, e Bolgiani, Corsini, Lana.
Una stagione felice di uomini aperti, inquieti, ma liberi e rispettosi delle idee e appassionati al loro lavoro. Tocca dirlo, la maggior parte erano stati ragazzi insieme nell’Azione Cattolica, forse delusi poi dalle parate democristiane, ma cresciuti in un umanesimo cristiano nato dai giochi in oratorio, da una giovinezza umile di borgata, da sacrificio e fatica per lo studio e i successi, da letture comuni della grande cultura francese e inglese del primo novecento.
Gianni Vattimo era sì già il pensiero debole, all’inizio una rivendicazione di libertà di pensiero, contro dogmatismi di sinistra e di destra e teocratici. Ma era soprattutto un professore affascinante, brillante, e poi un preside di facoltà, lettere e filosofia, che apriva sempre la porta agli studenti, e aveva simpatia per i poveri ragazzi di Comunione e Liberazione che andavano a proporgli incontri, o il loro mensile, che allora si chiamava Litterae Communionis, e che invano cercavano di vendere sui banchetti all’ingresso dell’università, perché le copie finivano spesso a terra nel fango o pestate o addirittura bruciate, quando si scriveva su muri di Palazzo Nuovo “Cloro al clero”, e Cl era come dire mafia o fascisti carogne.
Ci ha sempre mostrato simpatia per l’intraprendenza, per la testardaggine, per il desiderio vero di un confronto che gli si mostrava, e ne era lusingato, lieto. Più tardi, ha sempre risposto con gentilezza alle richieste di un’intervista, di una parola, nonostante le sue posizioni diventassero sempre più radicali e arrabbiate, e nonostante pian piano avesse perduto la sua tanto agognata libertà di pensiero, accodandosi a teorie politiche lontanissime dalla sua mitezza.
Era un uomo che aveva sofferto tanto, un uomo irrisolto, e solo. Un uomo che per troppo tempo si è sentito sbagliato, e non è stato accompagnato e capito, anche se di amici che gli volevano bene e accoglievano anche le sue mattane ne aveva parecchi. Un uomo interrogato sempre dalla persona di Cristo. Mi è spiaciuto tanto vederlo usato, senza alcuna volontà di comprenderlo, senza conoscere le sue opere d’ingegno, senza rispettare con discrezione la sua intimità combattuta, vederlo trasformato in bandiera di battaglie cui si era accostato per essere ancora vivo.
Professore, le riunioni di facoltà avevano in lei una garanzia. Quell’incontro su Buzzati e il senso dell’attesa in Aula Magna l’abbiamo potuto fare grazie a lei, e ricordo ancora come mi commentò il sì con la sua firma: “siamo uomini e siamo vivi se teniamo aperti la porta al Mistero, come il tenente Drogo, sempre sulla soglia”. Grazie, e sono certa che il buon Dio le darà ora risposte e pace.
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Oriana Fallaci: «La morte non mi fa paura, ma è uno spreco»
Diciassette anni fa moriva Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice che ha raccontato la storia del 900 e che per prima ha riconosciuto la minaccia del terrorismo globale. Libero, per gentile concessione dell’editore Rizzoli, la ricorda con un estratto del libro «Solo io posso scrivere la mia storia», edito da Bur Rizzoli, in cui la Fallaci parla di morte.
di Oriana Fallaci
da Libero – 15 settembre 2023
La vecchiaia è una bellissima età. L’età d’oro della Vita. Non tanto perché l’alternativa è morire senza conoscere il lusso di quel privilegio, quanto perché è la stagione della libertà. Da giovane credevo d’essere libera. Ma non lo ero. Mi preoccupavo del mio futuro, mi lasciavo influenzare da un mucchio di cose o persone, e in pratica non facevo che ubbidire. Ai genitori, ai professori, ai direttori dei giornali dove lavoravo già a diciott’anni…
Da adulta credevo d’essere libera. Ma non lo ero. Mi preoccupavo ancora del futuro, mi lasciavo condizionare dai giudizi malevoli, temevo le conseguenze delle mie scelte… Oggi non le temo più. I giudizi malevoli non mi condizionano più, il futuro non mi preoccupa più. Perché dovrebbe? È arrivato, ormai. E sgombra di vani desideri, di superflue ambizioni, di errate chimere, mi sento libera come non lo sono mai stata. Libera d’una libertà completa, assoluta. Inoltre la vecchiaia è bellissima perché da vecchi si capisce ciò che da giovani e perfino da adulti non s’era capito. Perché con le esperienze, le informazioni, i ragionamenti che abbiamo accumulato, tutto s’è fatto chiaro. O molto più chiaro. Alcuni chiamano questo saggezza. E se sono saggia io non lo so. A volte lo escludo. Ma so che grazie a quelle esperienze, quelle informazioni, quei ragionamenti, il mio cervello è migliorato come un buon vino rosso. […]
IL RIMPIANTO
È come se la forza delle mie gambe, delle mie braccia, dei miei polmoni si fosse trasferita nella mia testa. E questo mi consola a tal punto che non mi dico mai: «Vorrei tornare-indietro, ricominciare-daccapo». Tutt’al più, sapendo che non durerò molto, esclamo: «Proprio ora! Dio, che spreco. La morte è uno spreco». Quando mi guardo indietro non è mai per rimpiangere i giorni che avevo la pelle liscia, è per rimpiangere le cose che non ho fatto, che non ho avuto. Quando guardo in avanti non è mai per avere paura della devastazione fisica che viene con la vecchiaia. Semmai è per la paura di non averla quella devastazione fisica, perché se non invecchi vuol dire che muori da giovane. Io ricordo questa battuta di mio nonno: nel 1940 la guerra era appena scoppiata e il nonno, padre di mio padre, era già vecchio; stava salendo su un tram in via Toselli a Firenze, e naturalmente come tutti i vecchi ci metteva molto, avevano questi predellini molto alti, sicché lui poverino si tirava su… e un gruppo di ragazzacci che doveva salire dissero: «Presto, su, presto, avanti, si salga, accidenti a’ vecchi!», e lui si girò… io ero dietro con i ragazzacci, attaccata con le due mani alla maniglia… «Hanno ragione, accidenti ai vecchi, piaccia a Dio che tu non lo diventi mai!»
Io non ho mai capito la morte. Non ho mai capito chi dice la morte è normale, la morte è logica, tutto finisce quindi anch’io finirò. Io ho sempre pensato che la morte è ingiusta, la morte è illogica, e non dovremmo morire dal momento che si nasce. Non ho mai capito nemmeno chi dice: in realtà non muori, diventi una cosa diversa, diventi un ciuffo d’erba, un sorso d’aria, una pozza di acqua: e da erba, da aria, da acqua, nutri un pesce un uccello un altr’uomo, poi vivi attraverso di loro. Non l’ho mai capito perché essere viva, per me, significa muovermi dentro questo corpo, dentro questo pensiero: e allora cosa mi importa di diventare marziana su Marte, venusiana su Venere, andromediana su Andromeda? Questi tentacoli che chiamano braccia, gambe, dita, son brutti?
E cosa m’importa se sono brutti? Sono i soli che conosco, i soli che ho, e non ne voglio altri. Voglio queste braccia, queste gambe, queste dita, voglio questa Terra! Questa Terra è una prigione? Va bene. Ci sto a mio agio in questa prigione, è calda e sicura come un ventre materno, è il mio ventre materno (…). Ma il ventre materno non ti tiene mica per sempre. Se ti tiene per sempre ci muori, e muore anche lui. Il ventre materno ti tiene fino a quando sei fatto, e quando sei fatto ti sputa, ti vomita a forza in un mondo che non immaginavi neanche. Magari non lo volevi vedere quel mondo: stavi bene rannicchiato nel ventre, a quel caldo. Non duravi fatica a mangiare, non duravi fatica a dormire, tua madre faceva tutto per te. La sua pelle, i suoi tessuti ti proteggevano più di una corazza, più dell’atmosfera che circonda la Terra e respinge i meteoriti, altre insidie. E tuttavia fosti costretto a lasciarlo, quel ventre, fosti costretto ad assumere la forma di un corpo che non immaginavi neanche, a mangiare in modo diverso, a dormire con tanta fatica, a proteggerti con tanta pena. E non fu un abuso importi quel cambiamento, neanche una crudeltà: fu l’unico modo per continuare la vita. E l’unico modo che la Terra ha per vivere è sputarti via, vomitarti nel cielo, al di là dell’atmosfera, in quei mondi che non sai immaginare e che a loro volta ti sputeranno via in altri mondi… Non ce l’ho (paura della morte, N.d.R). La conosco troppo bene. La conosco fin da bambina, quando correvo sotto le bombe della Seconda guerra mondiale e scavalcavo i corpi della gente che non aveva corso abbastanza. La conosco perché l’ho frequentata troppo, ahimé. In troppi luoghi e in troppe maniere. Al Messico, per esempio, quando m’accadde quel che si sa. In Vietnam, in Cambogia, in Bangladesh, in Giordania, in Libano, quando facevo il corrispondente di guerra e mi trovavo sempre in qualche combattimento o in altre situazioni terrorizzanti. Nel mio cuore, quando ammazzarono Alekos Panagulis e quando il cancro si portò via mia madre poi mio padre poi mia sorella Neera nonché lo zio Bruno.
NIENTE PAURA
Infine ora, grazie alla malattia e a coloro cui avermi criminalizzato anzi demonizzato non basta. Voglio dire: a forza di frequentarla, sentirmela attorno e addosso, con lei ho maturato una strana dimestichezza. E l’idea di morire non mi fa paura. Sarebbe più giusto chiedermi: ma a te dispiace morire? E allora risponderei: sì, tanto. Perché la vita è bella anche quando è brutta. È bello il sole, il verde, l’azzurro, il sapore di un cibo, di una bevanda, di un bacio… Per nessuna ragione io avrei voluto essere abortita. Nessuna! Supponiamo che, quando ero un embrione di pochi millimetri, mi avessero detto: «Senti, Oriana, se tu nasci, nasci un bambino, affamato, che muore a sei anni in un forno di Mauthausen. Vuoi nascere lo stesso?», io gli avrei risposto: «Sì. Almeno quei sei anni li vivo, mi tolgo la curiosità di vedere il sole, il verde, l’azzurro, di annusare la vita». Tutto, anche il dolore più infame, è meglio del nulla.