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Vattimo e Fallaci, due testimonianze che interrogano

  • Data 24 Settembre 2023

«Non era uomo ZTL, ha sofferto, era interrogato da Cristo: il mio ricordo di Vattimo»

di Monica Mondo

da ilsussidiario.net – 21 settembre 2023

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-non-era-uomo-ztl-ha-sofferto-era-interrogato-da-cristo-il-mio-ricordo-di-vattimo/2592964/

Gianni Vattimo lo conoscevo bene. Apparteneva a quella ricca e felice stagione intellettuale torinese, quando gli intellettuali non si chiudevano ancora nelle Ztl credendo di rappresentare la parte migliore, più intelligente e più morale della società. Quando gli intellettuali erano anzitutto tra loro amici, pur con idee diverse e a volte litigando, ma davanti a un bicchiere di rosso e un piatto di agnolotti. C’erano Vattimo, e Magris, e Davico Bonino, e Beccaria, dietro ai più anziani Barberi Squarotti, e Jacomuzzi Stefano e Angelo, e mio padre, e Bolgiani, Corsini, Lana.

Una stagione felice di uomini aperti, inquieti, ma liberi e rispettosi delle idee e appassionati al loro lavoro. Tocca dirlo, la maggior parte erano stati ragazzi insieme nell’Azione Cattolica, forse delusi poi dalle parate democristiane, ma cresciuti in un umanesimo cristiano nato dai giochi in oratorio, da una giovinezza umile di borgata, da sacrificio e fatica per lo studio e i successi, da letture comuni della grande cultura francese e inglese del primo novecento.

Gianni Vattimo era sì già il pensiero debole, all’inizio una rivendicazione di libertà di pensiero, contro dogmatismi di sinistra e di destra e teocratici. Ma era soprattutto un professore affascinante, brillante, e poi un preside di facoltà, lettere e filosofia, che apriva sempre la porta agli studenti, e aveva simpatia per i poveri ragazzi di Comunione e Liberazione che andavano a proporgli incontri, o il loro mensile, che allora si chiamava Litterae Communionis, e che invano cercavano di vendere sui banchetti all’ingresso dell’università, perché le copie finivano spesso a terra nel fango o pestate o addirittura bruciate, quando si scriveva su muri di Palazzo Nuovo “Cloro al clero”, e Cl era come dire mafia o fascisti carogne.

Ci ha sempre mostrato simpatia per l’intraprendenza, per la testardaggine, per il desiderio vero di un confronto che gli si mostrava, e ne era lusingato, lieto. Più tardi, ha sempre risposto con gentilezza alle richieste di un’intervista, di una parola, nonostante le sue posizioni diventassero sempre più radicali e arrabbiate, e nonostante pian piano avesse perduto la sua tanto agognata libertà di pensiero, accodandosi a teorie politiche lontanissime dalla sua mitezza.

Era un uomo che aveva sofferto tanto, un uomo irrisolto, e solo. Un uomo che per troppo tempo si è sentito sbagliato, e non è stato accompagnato e capito, anche se di amici che gli volevano bene e accoglievano anche le sue mattane ne aveva parecchi. Un uomo interrogato sempre dalla persona di Cristo. Mi è spiaciuto tanto vederlo usato, senza alcuna volontà di comprenderlo, senza conoscere le sue opere d’ingegno, senza rispettare con discrezione la sua intimità combattuta, vederlo trasformato in bandiera di battaglie cui si era accostato per essere ancora vivo.

Professore, le riunioni di facoltà avevano in lei una garanzia. Quell’incontro su Buzzati e il senso dell’attesa in Aula Magna l’abbiamo potuto fare grazie a lei, e ricordo ancora come mi commentò il sì con la sua firma: “siamo uomini e siamo vivi se teniamo aperti la porta al Mistero, come il tenente Drogo, sempre sulla soglia”. Grazie, e sono certa che il buon Dio le darà ora risposte e pace.

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Oriana Fallaci: «La morte non mi fa paura, ma è uno spreco»

Diciassette anni fa moriva Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice che ha raccontato la storia del 900 e che per prima ha riconosciuto la minaccia del terrorismo globale. Libero, per gentile concessione dell’editore Rizzoli, la ricorda con un estratto del libro «Solo io posso scrivere la mia storia», edito da Bur Rizzoli, in cui la Fallaci parla di morte.

di Oriana Fallaci

da Libero – 15 settembre 2023

La vecchiaia è una bellissima età. L’età d’oro della Vita. Non tanto perché l’alternativa è morire senza conoscere il lusso di quel privilegio, quanto perché è la stagione della libertà. Da giovane credevo d’essere libera. Ma non lo ero. Mi preoccupavo del mio futuro, mi lasciavo influenzare da un mucchio di cose o persone, e in pratica non facevo che ubbidire. Ai genitori, ai professori, ai direttori dei giornali dove lavoravo già a diciott’anni…

Da adulta credevo d’essere libera. Ma non lo ero. Mi preoccupavo ancora del futuro, mi lasciavo condizionare dai giudizi malevoli, temevo le conseguenze delle mie scelte… Oggi non le temo più. I giudizi malevoli non mi condizionano più, il futuro non mi preoccupa più. Perché dovrebbe? È arrivato, ormai. E sgombra di vani desideri, di superflue ambizioni, di errate chimere, mi sento libera come non lo sono mai stata. Libera d’una libertà completa, assoluta. Inoltre la vecchiaia è bellissima perché da vecchi si capisce ciò che da giovani e perfino da adulti non s’era capito. Perché con le esperienze, le informazioni, i ragionamenti che abbiamo accumulato, tutto s’è fatto chiaro. O molto più chiaro. Alcuni chiamano questo saggezza. E se sono saggia io non lo so. A volte lo escludo. Ma so che grazie a quelle esperienze, quelle informazioni, quei ragionamenti, il mio cervello è migliorato come un buon vino rosso. […]

IL RIMPIANTO

È come se la forza delle mie gambe, delle mie braccia, dei miei polmoni si fosse trasferita nella mia testa. E questo mi consola a tal punto che non mi dico mai: «Vorrei tornare-indietro, ricominciare-daccapo». Tutt’al più, sapendo che non durerò molto, esclamo: «Proprio ora! Dio, che spreco. La morte è uno spreco». Quando mi guardo indietro non è mai per rimpiangere i giorni che avevo la pelle liscia, è per rimpiangere le cose che non ho fatto, che non ho avuto. Quando guardo in avanti non è mai per avere paura della devastazione fisica che viene con la vecchiaia. Semmai è per la paura di non averla quella devastazione fisica, perché se non invecchi vuol dire che muori da giovane. Io ricordo questa battuta di mio nonno: nel 1940 la guerra era appena scoppiata e il nonno, padre di mio padre, era già vecchio; stava salendo su un tram in via Toselli a Firenze, e naturalmente come tutti i vecchi ci metteva molto, avevano questi predellini molto alti, sicché lui poverino si tirava su… e un gruppo di ragazzacci che doveva salire dissero: «Presto, su, presto, avanti, si salga, accidenti a’ vecchi!», e lui si girò… io ero dietro con i ragazzacci, attaccata con le due mani alla maniglia… «Hanno ragione, accidenti ai vecchi, piaccia a Dio che tu non lo diventi mai!»

Io non ho mai capito la morte. Non ho mai capito chi dice la morte è normale, la morte è logica, tutto finisce quindi anch’io finirò. Io ho sempre pensato che la morte è ingiusta, la morte è illogica, e non dovremmo morire dal momento che si nasce. Non ho mai capito nemmeno chi dice: in realtà non muori, diventi una cosa diversa, diventi un ciuffo d’erba, un sorso d’aria, una pozza di acqua: e da erba, da aria, da acqua, nutri un pesce un uccello un altr’uomo, poi vivi attraverso di loro. Non l’ho mai capito perché essere viva, per me, significa muovermi dentro questo corpo, dentro questo pensiero: e allora cosa mi importa di diventare marziana su Marte, venusiana su Venere, andromediana su Andromeda? Questi tentacoli che chiamano braccia, gambe, dita, son brutti?

E cosa m’importa se sono brutti? Sono i soli che conosco, i soli che ho, e non ne voglio altri. Voglio queste braccia, queste gambe, queste dita, voglio questa Terra! Questa Terra è una prigione? Va bene. Ci sto a mio agio in questa prigione, è calda e sicura come un ventre materno, è il mio ventre materno (…). Ma il ventre materno non ti tiene mica per sempre. Se ti tiene per sempre ci muori, e muore anche lui. Il ventre materno ti tiene fino a quando sei fatto, e quando sei fatto ti sputa, ti vomita a forza in un mondo che non immaginavi neanche. Magari non lo volevi vedere quel mondo: stavi bene rannicchiato nel ventre, a quel caldo. Non duravi fatica a mangiare, non duravi fatica a dormire, tua madre faceva tutto per te. La sua pelle, i suoi tessuti ti proteggevano più di una corazza, più dell’atmosfera che circonda la Terra e respinge i meteoriti, altre insidie. E tuttavia fosti costretto a lasciarlo, quel ventre, fosti costretto ad assumere la forma di un corpo che non immaginavi neanche, a mangiare in modo diverso, a dormire con tanta fatica, a proteggerti con tanta pena. E non fu un abuso importi quel cambiamento, neanche una crudeltà: fu l’unico modo per continuare la vita. E l’unico modo che la Terra ha per vivere è sputarti via, vomitarti nel cielo, al di là dell’atmosfera, in quei mondi che non sai immaginare e che a loro volta ti sputeranno via in altri mondi… Non ce l’ho (paura della morte, N.d.R). La conosco troppo bene. La conosco fin da bambina, quando correvo sotto le bombe della Seconda guerra mondiale e scavalcavo i corpi della gente che non aveva corso abbastanza. La conosco perché l’ho frequentata troppo, ahimé. In troppi luoghi e in troppe maniere. Al Messico, per esempio, quando m’accadde quel che si sa. In Vietnam, in Cambogia, in Bangladesh, in Giordania, in Libano, quando facevo il corrispondente di guerra e mi trovavo sempre in qualche combattimento o in altre situazioni terrorizzanti. Nel mio cuore, quando ammazzarono Alekos Panagulis e quando il cancro si portò via mia madre poi mio padre poi mia sorella Neera nonché lo zio Bruno.

NIENTE PAURA

Infine ora, grazie alla malattia e a coloro cui avermi criminalizzato anzi demonizzato non basta. Voglio dire: a forza di frequentarla, sentirmela attorno e addosso, con lei ho maturato una strana dimestichezza. E l’idea di morire non mi fa paura. Sarebbe più giusto chiedermi: ma a te dispiace morire? E allora risponderei: sì, tanto. Perché la vita è bella anche quando è brutta. È bello il sole, il verde, l’azzurro, il sapore di un cibo, di una bevanda, di un bacio… Per nessuna ragione io avrei voluto essere abortita. Nessuna! Supponiamo che, quando ero un embrione di pochi millimetri, mi avessero detto: «Senti, Oriana, se tu nasci, nasci un bambino, affamato, che muore a sei anni in un forno di Mauthausen. Vuoi nascere lo stesso?», io gli avrei risposto: «Sì. Almeno quei sei anni li vivo, mi tolgo la curiosità di vedere il sole, il verde, l’azzurro, di annusare la vita». Tutto, anche il dolore più infame, è meglio del nulla.

Tag:Gianni Vattimo, Oriana Fallaci

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L’intelligenza artificiale è già entrata a far parte della nostra vita molto più di quanto a prima vista possiamo percepire o immaginare. È un dato di fatto destinato a impattare in modo sempre più pervasivo sulla nostra quotidianità. In questo senso i dibattiti pro o contro l’intelligenza artificiale appaiono del tutto teorici e oziosi, come inutile è ogni posizione di retroguardia. Come Fondazione San Benedetto intendiamo invece proporre iniziative o suggerire ipotesi di lavoro che possano essere d’aiuto ad affrontare in modo consapevole questo cambiamento che è già in atto. Lo facciamo anche con questa newsletter segnalandovi un articolo uscito nei giorni scorsi sull’Osservatore Romano di Antonio Spadaro che riprende un testo del celebre scienziato e religioso Pierre Teilhard de Chardin scritto nel 1950 sull’avvento delle grandi macchine da calcolo che allora muovevano i primi passi. Per Teilhard l’arrivo delle nuove macchine «che macinano idee e numeri» era un’opportunità per liberare nell’uomo, «e questa volta a un livello mai raggiunto prima, una massa nuova di energia psichica, immediatamente trasformabile in forme ancora più alte di comprensione e di immaginazione». A 75 anni di distanza Spadaro rimarcando la novità di questo pensiero sottolinea come la sfida implicita «sia quella di integrare le macchine nella crescita della coscienza, trasformare la velocità di calcolo in profondità di pensiero, usare l’energia liberata per “forme più alte” di comprensione. La domanda di fondo, insomma, non è “quanto possono fare le macchine?”, ma “quanto possiamo crescere noi, con loro?”». L’intelligenza artificiale non è insomma una questione tecnica, ma antropologica e per questo ci riguarda.

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Riprende da oggi l’appuntamento con la nostra newsletter domenicale «Fissiamo il pensiero» e, all’inizio di un nuovo tratto di cammino, vogliamo ripartire dal Meeting di Rimini che si è chiuso da pochi giorni. La passione ideale che è il vero motore di un evento come il Meeting unico per il suo carattere e la sua rilevanza in Italia, e probabilmente anche in Europa, pur con modalità e dimensioni diverse, è la stessa che ci muove come Fondazione San Benedetto. Del Meeting si sono occupati anche i media, dando spazio però, come avviene da anni, in modo prevalente agli incontri di tipo politico. Tutti appuntamenti interessanti e di livello, ma il Meeting è molto di più. Perciò abbiamo sempre invitato tutti a trascorrere almeno un giorno in fiera a Rimini, unico modo per evitare giudizi affrettati e parziali. Quest’anno attorno alla frase di T.S. Eliot «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi» (titolo dell’edizione 2025) in sei giorni si è sviluppato un programma di incontri, mostre e spettacoli davvero ricco. Solo a titolo di esempio ricordiamo gli incontri col Patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo a 1700 anni dal Concilio di Nicea, con due madri, una israeliana e l’altra palestinese, che hanno perso un figlio, testimoni di una riconciliazione possibile, con lo scrittore spagnolo Javier Cercas. E poi le mostre da quella sui martiri di Algeria a quella su Vasilij Grossman, da quella su Carlo Acutis a quella sulle voci dall’Ucraina. Nell’ultimo giorno del Meeting è stato annunciato il titolo dell’edizione del prossimo anno che riprende il verso finale della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo, tratto dal quotidiano online ilsussidiario.net, di Giuseppe Frangi, fondatore e vicepresidente di Casa Testori e amico della San Benedetto. Con lui stiamo già collaborando e altre iniziative sono in cantiere. Ricordiamo la serata dello scorso luglio a Brescia con la lettura nella chiesa di San Giovanni del dialogo sul Romanino fra Pasolini e Testori (a questo link lo potete rileggere).
Tornando al titolo del Meeting, questo sta a indicare ogni anno il passo di una storia che continua e che non si ferma a guardare indietro, bloccata su se stessa. È l’espressione di un ideale che si fa vita. Ben altro che un contenitore di eventi o, peggio, di intrattenimento. Si spiega così che dopo 46 anni il Meeting ci sia ancora e sia un luogo sempre interessante e sorprendente. Un percorso analogo lo stiamo facendo come San Benedetto. Abbiamo già in preparazione alcuni incontri sui temi dell’Europa e dell’intelligenza artificiale, e tanto altro, non mancheremo di tenervi aggiornati. Al di là delle singole iniziative la fondazione è prima di tutto un luogo di incontro e di amicizia aperto a tutti. Intanto siamo già in grado di confermarvi che da giovedì 25 settembre alle 18.30 nella nostra sede di Borgo Wührer 119 a Brescia, ci ritroveremo per la Scuola di comunità. Partendo dalla lettura di alcuni testi di don Luigi Giussani è un’occasione per mettere a confronto domande ed esperienze che riguardano la nostra vita e il suo significato. Gli incontri, della durata di un’ora, si terranno con cadenza quindicinale sempre alle 18.30. La proposta è libera, gratuita e aperta a tutti. Chiediamo solo la continuità della partecipazione come segno di serietà nel percorso che ci apprestiamo a cominciare. Il giorno 25 verranno date indicazioni su come si svolgeranno gli incontri con il calendario fino a dicembre e sul testo di riferimento.

Qualcosa di più forte e profondo della distruzione
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La newsletter di oggi è l’ultima prima della pausa estiva. Anche in queste settimane per molti dedicate al riposo e alle vacanze, mentre il mondo è in fiamme e gli orrori della guerra si moltiplicano, crediamo che non si possa far finta di nulla, aprire una parentesi o staccare la spina come si usa dire. Non si può andare in vacanza senza portarsi dietro queste ferite. Portarsele con sé rende più bello e più vero il tempo del riposo. Per questo oggi vogliamo proporvi la lettura di due testimonianze da due dei principali teatri di guerra: l’Ucraina e Gaza. Già scorse settimane avevamo ricordato il caso di Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino che dentro lo scenario di morte prodotto dalle ideologie del ’900, non aveva mai smesso di cercare «l’umano nell’uomo» come inizio di una possibilità di speranza. Le testimonianze di oggi ci dicono che anche nelle situazioni più difficili, la violenza, la distruzione e la morte possono non essere l’ultima parola. 

La prima, pubblicata sul sito «La Nuova Europa», è di Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana. Racconta la storia di Alina, giovane donna ucraina, malata di cancro in fase terminale, che nei suoi ultimi giorni di vita ha trovato accoglienza in un hospice a Charkiv, mantenuto aperto anche sotto le bombe. Tutto sembra perduto, senza speranza, in guerre ogni giorno sempre più distruttive e spregiatrici di giustizia e umanità… eppure c’è chi lotta e resiste per accompagnare sin nella morte chi è senza speranza e riaffermare una dignità e una pace che nessun malvagio può cancellare. È l’infinita sorpresa di un miracolo reale che non sapremmo neppure immaginare.

La seconda testimonianza ci è offerta dalla dichiarazione fatta dal patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al suo rientro dalla visita a Gaza insieme al patriarca ortodosso Teofilo III. «Siamo entrati – ha detto aprendo la conferenza stampa – in un luogo devastato, ma anche pieno di meravigliosa umanità. Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi».

L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 7 settembre. Buone vacanze!

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