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Attacco a Israele, perché non possiamo restare indifferenti

  • Data 15 Ottobre 2023

di Paolo Giordano 

dal Corriere della Sera – 11 ottobre 2023 

 

Kfar Aza è un nome che abbiamo sentito per la prima volta poche ore fa e che non dimenticheremo mai: l’esercito israeliano ha reso noto ieri che nel kibbutz sono stati trovati, fra le decine di morti lasciati da Hamas, anche quaranta bambini, alcuni dei quali decapitati, e alcuni dei quali ancora neonati. Forse un editoriale dovrebbe interrompersi qui. Forse dovrebbe lasciare che quest’unica frase irradi attorno a sé il suo portato, in onde concentriche. Lo sgomento, o meglio la nausea fisica che mi è capitato di provare ieri, sono reazioni più esaustive di molti ragionamenti. Ma qui abbiamo l’obbligo, o almeno l’abitudine, di intercettare queste onde e di provare ad analizzarle mentre ci stanno ancora attraversando. Consapevoli di muoverci attraverso un campo ideologico minato da ogni parte, in cui ciascuna frase viene passata ai raggi X perché dovrebbe contenere in sé la consapevolezza di decenni di violenze, quando è evidente che non può farlo. Ma consapevoli anche che certi eventi costituiscono dei salti quantici, delle singolarità tali da meritare quel coraggio.

È strano e irriverente da dirsi, ma la strage del rave sembra quasi rientrare, all’improvviso, in un ambito di normalità. Nel suo modo scandaloso di pesare gli orrori uno rispetto all’altro, la nostra mente la pone a confronto con i bambini decapitati, e sceglie. D’altronde, i ragazzi e le ragazze del rave ballavano a cinque chilometri dal confine con la Striscia, erano stati avvisati della possibilità di colpi «sporadici» di artiglieria, e comunque erano maggiorenni. I bambini erano in casa loro e probabilmente dormivano.

La tentazione comune è stata da subito di considerare quanto è accaduto sabato 9 ottobre come una voce in più da aggiungere alla timeline del conflitto israelo-palestinese, un conflitto che con maggiore o minore intensità ha fatto da rumore di fondo all’interezza delle nostre vite. Ma alcuni elementi hanno reso chiaro fin dall’inizio, e forse per la prima volta in decenni, che quel conflitto era d’un tratto molto più vicino a noi, molto più rischioso, addirittura personale. Per il momento in cui è avvenuto, cioè dopo un anno e mezzo di una guerra di invasione dell’Ucraina che ha minacciato fin dall’inizio di espandersi; per la sovrapposizione, evidente o meno, di alcuni attori, dall’Iran fino all’assurdità di Ramzan Kadyrov, il «macellaio» ceceno che davamo per morto e che ora si propone come elemento di peacekeeping. Le notizie si sono innestate su un’inquietudine preesistente, hanno aggredito il nostro senso di sicurezza già fiaccato. D’un tratto Israele e Gaza non erano più «laggiù», non erano la questione mediorientale. Se la prima e la seconda Intifada, i razzi e gli attentati «sporadici» ci convocavano per lo più politicamente, come una specie di corollario delle nostre posizioni ideologiche, la carneficina del rave ci ha chiamato in causa come cittadini di Stati democratici. Ci ha fatto ripensare a noi stessi, all’Occidente in senso largo, come non succedeva da un po’, e alla nostra illusione di poter vivere quasi spensieratamente in prossimità di forze sempre più ostili e dirompenti, che contiamo di poter dominare, gestire con gli strumenti avanzati in nostro possesso, o ignorare e basta. Ci ha ricordato che il nostro vivere democratico è in fin dei conti una fede, come ne esistono altre, evidentemente non conciliabili, ed è una fede che contiene grani di responsabilità storiche incastonati al suo interno, impossibili da rimuovere.

Ma l’eccidio di Kfar Aza è ancora diverso. Ci interroga come esseri umani, punto.

Continua a leggere l’articolo sul sito del Corriere della Sera https://www.corriere.it/esteri/23_ottobre_11/fine-dell-odio-mai-cosi-lontana-f5d5218e-67af-11ee-a6e6-1792e3aea2ee.shtml

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«Sono colpevole perché il mio cuore ha scelto una parte»

di Vincent Nagle

da ilsussidiario.net – 13 ottobre 2023

Caro direttore,
sono molto turbato da quello che sta succedendo nella Terra Santa
intorno alla Striscia di Gaza e nella Striscia di Gaza. Ma sono ancor più turbato per il modo in cui mi turbano questi avvenimenti orrendi. Mi permetta di spiegare.

Nella mia vita ho sofferto tante volte per quanto accadeva in Israele e Palestina. Sono figlio di una mamma ebrea-sionista che mi ha educato sia nella simpatia per la storia israeliana, sia al terrore davanti agli ostili palestinesi. Poi la vita mi ha dato anche un’altra prospettiva.

Oltre ai miei studi di arabo e islam e gli anni di lavoro in Medio Oriente, ho anche passato sei anni, dal 2006 al 2012, come prete nel Patriarcato di Gerusalemme, lavorando sia nelle parrocchie sia nell’ufficio del patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal. Nel primo anno abitavo a Betlemme e fui testimone di un’incursione di soldati israeliani che causò la morte di una giovane donna incinta. Nell’inverno 2008-2009 quando dividevo il mio tempo fra la parrocchia di San Giustino Martire in Nablus e il patriarcato di Gerusalemme, una lunga serie di scontri, a seguito di accordi traditi da entrambe le parti, culminò in un lancio di razzi verso Israele da parte di Hamas. La risposta di Israele fu un bombardamento violentissimo sulla Striscia che causò la morte, secondo l’Onu, di più di 1.400 abitanti.

Il 7 ottobre, infine, la deflagrazione delle ultime, orribili violenze che sappiamo tutti. Da parte mia non credevo alle informazioni riguardanti il numero di morti, feriti ed ostaggi di parte israeliana. Dev’esserci un errore, pensavo. Nemmeno durante la guerra per la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 c’erano state perdite simili. Erano appena accaduti eventi totalmente inauditi, che proprio per l’indiscussa supremazia dei servizi di intelligence israeliani mi risultavano del tutto inspiegabili. Non riuscivo a organizzare i miei pensieri.

Poi, nel turbamento della mente e del cuore che le notizie avevano suscitato in me, mi sono pian piano reso conto di una cosa terribile: nonostante i tanti anni passati in compagnia di grandi anime palestinesi, con tanti rapporti di affetto e stima e tanta condivisione di fede e speranza con molti di loro, non potevo non notare che l’orrore della violenza scatenata sulla popolazione israeliana mi colpiva più intimamente, e più dolorosamente, di quanto era avvenuto in me in occasione delle violenze subite dai palestinesi. È stato un colpo mostruoso.

Cioè il mio cuore, davanti alla sofferenza umana, non si era aperto a tutti nella stessa maniera; forse per l’educazione materna sionista, forse per il terrore davanti ad attacchi terroristici palestinesi sulle cui notizie sono cresciuto, forse per il fatto che Israele si presenta come più “occidentale”, o anche, forse, per il fatto che la bravura mediatica di Israele è nettamente superiore a quella dei palestinesi. Fatto sta che, nel mio intimo, la reazione non è stata la stessa.

Ed allora ho pensato che è esattamente qui che nascono le guerre nel mondo, da cuori che rifiutano di soffrire per tutte le creature di Dio, fatte a Sua immagine e somiglianza. Le guerre nascono da un cuore come il mio, che si schiera da una parte e non si lascia tormentare per tutte le vittime, chiunque esse siano. Scaturiscono da un cuore che, come il mio, non parte nel suo giudizio unicamente dalla misericordia di Dio, l’unica nostra speranza, l’unico nostro appoggio per non perdere la nostra umanità.

Quando anteponiamo qualcosa, qualunque cosa, qualunque considerazione alla misericordia di Dio, siamo colpevoli come tutti, non meno di chiunque. Sono colpevole non meno di chiunque delle violenze che stiamo vedendo straziare la terra di Gesù.

Che Dio abbia misericordia di me, di tutti noi, del mondo, dei palestinesi, degli israeliani. Che il sangue di Cristo ci salvi dalla dannazione eterna che stiamo meritando.

 

 

 

Tag:guerra, Israele, Palestina, terrorismo

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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