Ciò che conta è sempre e solo la posizione umana: due esempi
Questa settimana vogliamo segnalarvi due letture apparentemente molto diverse fra loro, ma che hanno in realtà un denominatore comune: a fare la differenza nelle diverse circostanze della vita più o meno favorevoli, più o meno drammatiche, è sempre la posizione umana con cui ci poniamo di fronte a esse. Quelli che indichiamo sono due esempi di questo.
Il primo è quello di Pierluigi Cappello, poeta friulano, morto nel 2017 a soli cinquant’anni dopo una vita estremamente travagliata nella quale ha sperimentato sulla propria pelle prima la devastazione del terremoto, poi la disabilità permanente in seguito a un incidente, e infine la malattia. «Poeta di vocazione assoluta e voce inconfondibile della sua generazione», scrive Alessandro Zaccuri in un articolo dedicato a Cappello, pubblicato da Tracce, la rivista mensile di Comunione e Liberazione. Come Fondazione San Benedetto siamo particolarmente legati a questo poeta. Nel 2019 durante una serata del Mese letterario che ha visto gli interventi di Susanna Tamaro e di Fabiola Bertino, compagna di Cappello e curatrice delle sue opere, abbiamo intitolato a lui la Scuola di lettura e scrittura. Una scuola, diretta da Stas’ Gawronski e oggi gestita dall’Associazione Mese letterario, che è giunta alla quinta edizione, mentre è già in preparazione la sesta. Da quando abbiamo scoperto le sue poesie, di Pierluigi Cappello ci ha sempre sorpreso soprattutto la coscienza vivida e mai rassegnata con cui ha vissuto e attraversato le difficoltà, le sventure e gli ostacoli insormontabili di cui è stata costellata la sua esperienza umana, ma che non sono mai stati l’ultima parola nella sua vita. Nel «buio della parola» cercava «una strada festosa data alla luce». I suoi versi ne sono riflesso straordinario. Un esempio che parla a ciascuno di noi e che attraversa anche le circostanze più drammatiche come quelle che oggi ci troviamo a vivere segnate dalla guerra e dalla violenza.
Il secondo esempio ci arriva da un grande industriale italiano, Antonio Gozzi, presidente del gruppo siderurgico Duferco e di Federacciai. Alcuni giorni fa a San Zeno, alle porte di Brescia, ha inaugurato un nuovo laminatoio green con un investimento da oltre 250 milioni di euro che porterà a creare 150 posti di lavoro. In quell’occasione ha pronunciato un discorso che riproponiamo e che, anche di fronte alla crisi che stiamo attraversando, suggerisce una dinamica diversa: quella di chi si mette in moto per rendere migliore e più sostenibile (e in questo caso non è davvero uno slogan di moda) la vita della propria comunità. Una dinamica che sprigiona un’energia positiva non aspettandosi risposte dall’alto, dallo Stato o dal governo, che non potranno mai arrivare. Si chiama sussidiarietà e non è un principio astratto, riguarda ciascuno di noi.
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Pierluigi Cappello
Con i suoi versi ha dato voce alle domande di una generazione. Nel «buio della parola» cercava «una strada festosa data alla luce»
di Alessandro Zaccuri
da Tracce – ottobre 2023
Come per ogni altro essere umano, anche per i poeti la biografia può risultare d’intralcio. Il tempo e il luogo in cui si nasce, la lingua nella quale ci si esprime, gli avvenimenti piccoli e grandi – e felici o disgraziati – si strutturano in un sistema di pregiudizi dal quale sembra impossibile affrancarsi. La personalità svanisce davanti allo stratificarsi delle definizioni provenienti dall’esterno e della persona non resta niente, solo una manciata di aggettivi che non rimandano più alla realtà, ma all’immagine stereotipata di qualcuno che, in definitiva, non è mai esistito. Anche Pierluigi Cappello ha corso questo rischio. Poeta di vocazione assoluta e voce inconfondibile della sua generazione, ha avuto l’intelligenza e prima ancora l’intuito di non cadere nella trappola che la mentalità corrente aveva apparecchiato per lui.
Cappello era un poeta e si muoveva in carrozzina, è vero, eppure non è mai stato “il poeta in carrozzina”, nonostante i ripetuti tentativi di assegnargli questo ruolo. Lo scrive lui stesso, in una di quelle sue composizioni di pochi versi che si imprimono nella memoria come il bagliore del lampo sulla retina: «Se essermi è un carcere / è in questo carcere che sono libero / se qui sono libero/ non fuggirmi adesso che ti avvicini / ma liberami, piuttosto, / perché io non ti vedo». Capita spesso che i poeti si rivolgano a un “tu” i cui connotati rimangono indistinti. Chi potrebbe essere, nella fattispecie, il liberatore sfuggente convocato da Cappello? Forse Dio? È l’ipotesi più immediata e probabilmente anche la più affidabile, nonostante l’assenza di un pronunciamento esplicito in proposito. Però non si scappa: non si può essere poeti se non si ha cognizione dell’invisibile. E Cappello era un poeta, ma questo lo
abbiamo ripetuto abbastanza.
Qualcosa della sua esistenza, a questo punto, andrà pur detto. Cappello nasce a Gemona del Friuli l’8 agosto 1967, nove anni prima del disastroso terremoto che rappresenta la prima grande sventura da cui è segnata la sua storia. L’altra – individuale, questa volta, e non collettiva – lo colpisce all’età di sedici anni. Pierluigi all’epoca è considerato una promessa dell’atletica leggera, un velocista che fa ottimi risultati in pista. Una sera accetta un passaggio in moto da un amico, hanno un incidente, al risveglio in ospedale il ragazzo sente il medico pronunciare una sentenza terribile: «Fine pena mai». L’uso delle gambe è perduto per sempre, d’ora in poi Cappello non si alzerà più dalla carrozzina. A rendere ancora più crudele la situazione c’è un’altra delle sue grandi passioni, quella per il volo, destinata ad avere tanta importanza nella sua avventura di poeta. Cappello si diploma in un istituto tecnico di Udine, sezione aeronautica, e si iscrive a Lettere nell’Università della stessa città. Non prenderà la laurea, perché in fondo non ne ha bisogno, ma questi sono gli anni decisivi per la sua formazione. Le prime prove poetiche, la militanza nelle riviste, il costituirsi di una rete di amicizie che è stata raccontata, tra gli altri, da Alberto Garlini in un libro del 2019, Il canto dell’ippopotamo, che è insieme un omaggio a Cappello e il bilancio di un’intera generazione, quella degli anni Novanta, ancora pienamente novecentesca nelle sue ascendenze eppure già proiettata verso una novità dai contorni indistinti. In questo senso, la genealogia di Cappello appare subito chiara, forse fin troppo. Tra i suoi punti di riferimento c’è senza dubbio Pier Paolo Pasolini, ma il Pasolini poeta, e poeta in friulano. Nel 1999, quando pubblica Amôrs, Cappello ha già al suo attivo un paio di raccolte in italiano, però è qui, nei versi dettati nella lingua materna, che la sua vocazione si manifesta in maniera pressoché definitiva, anche grazie al confronto con Pasolini. La sezione Il me Donzel – percorsa da una tensione al poemetto da sempre caratteristica nell’opera di Cappello – è quasi una variazione sulla citazione pasoliniana posta in epigrafe, a conferma di una vicinanza che non sfocia mai nell’imitazione.
Cappello è un poeta originale. Anzi, è originale perché è veramente un poeta, ed è questa originalità a consentirgli un uso familiare ed esatto della citazione. Cappello si richiama a Dante e si rivolge direttamente a Giorgio Caproni, compone in dialogo con Daniele Del Giudice un ritratto di Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e pilota, e individua in un enigmatico verso di Vittorio Sereni, «Nulla nessuno in nessun luogo mai», l’asse attorno al quale costruire il suo libro più famoso, Mandate a dire all’imperatore, vincitore nel 2010 del premio Viareggio-Rèpaci. Nella poesia che dà il titolo al volume si avverte l’eco dell’apologo di Kafka, ripreso a parti invertite. Non è più l’imperatore a inviare un messaggio a uno dei sudditi, incurante del fatto che il dispaccio non riuscirà mai a superare il labirinto del palazzo.
Cappello immagina invece che l’imperatore stesso sia il destinatario di un messaggio nel quale perfino il dilagare della desolazione lascia spazio a una forma di bellezza («tutti i pozzi si sono seccati / e brilla il sasso lasciato dall’acqua»), mentre tutto avviene «nel buio della parola» e lo sguardo diventa una «stella liscia» che insiste a palpitare anche nel nulla. L’affermazione come poeta (giunta già nel 2007, quando ad Assetto di volo, edito da Crocetti, erano andati numerosi riconoscimenti) non cambia di molto la vita di Cappello, che continua ad abitare a Tricesimo, in uno dei prefabbricati donati dall’Austria dopo il sisma del 1976. La sua salute è precaria come le sue condizioni economiche, ed è in considerazione di questo che nel 2014 – dopo una campagna sostenuta in particolare dal quotidiano Avvenire – a Cappello vengono riconosciuti i benefici della Legge Bacchelli. Quel che più conta è che la sua voce sia riconosciuta e amata. Parole povere, la bellissima ballata in lode di un popolo che si raduna in comunità, assume così le caratteristiche di una dichiarazione di poetica: «Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo / l’altro mette il portafoglio nero / nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro. / Una sarchia la terra magra di un orto in salita / la vestaglia a fiori tenui / la sottoveste che si vede quando si piega». La litania prosegue a lungo, ma non si conclude con un amen, parola che pure Cappello ama, «perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra / e di pietà dentro il silenzio». Il rifiuto di questa clausola a suo modo rassicurante è forse il punto più alto della consapevolezza che il poeta consegue della propria poesia. Amen è una parola impossibile «perché non ho nessuna pietà di voi /
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri / e l’allegria dei vinti e una tristezza grande».
Pierluigi Cappello muore a Cassacco il 1° ottobre 2017, poche settimane dopo aver compiuto cinquant’anni. Nel 2018 tutti i suoi versi, compresi gli inediti, sono stati raccolti in Un prato in pendio (Rizzoli), un volume al quale hanno contribuito poeti e scrittori amici come Alessandro Fo, Gian Mario Villalta ed Eraldo Affinati. È il libro fondamentale per conoscere Cappello e riconoscere la sua schiva centralità nelle vicende letterarie degli ultimi decenni. Altrettanto indispensabili, e sempre in catalogo da Rizzoli, sono le prose di Il dio del mare (2015) e il resoconto autobiografico di Questa libertà (2013), nel quale ha tanta parte la memoria dell’infanzia trascorsa a Chiusaforte, la località dell’Udinese che grazie a Cappello è assurta al rango di topos letterario. Manca l’ amen, forse. O forse è nascosto nell’estremo congedo del poeta, la composizione datata Cassacco, settembre 2017, che si legge in Un prato in pendio. Comincia con una domanda, come è giusto che sia («Da quale parte di te viene incontro festosa / questa strada data alla luce?») e finisce con «una felicità / da applauso, da palcoscenico, accesa in breve e spenta / dentro il chiarore diminuito». Alla vita, e alla poesia, non si può chiedere di più.
Antonio Gozzi
Pubblichiamo il testo del discorso del presidente del gruppo siderurgico Duferco pronunciato lo scorso 16 ottobre in occasione dell’inaugurazione del nuovo treno di laminazione per travi dello stabilimento siderurgico Duferco di San Zeno Naviglio (Brescia)
Voglio ringraziare Voi tutti che ci fate l’onore, così in gran numero, di partecipare alla festa per l’inaugurazione del nostro nuovo laminatoio. In particolare voglio ringraziare: il Governo italiano rappresentato dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, il Governatore della Lombardia Attilio Fontana, il Ministro Presidente della Regione Wallonia del Belgio Elio Di Rupo, il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, i sindaci di San Zeno Marco Ferretti e di Poncarale Antonio Zampedri, altre Autorità civili e militari, uomini e donne delle banche e delle istituzioni finanziarie presenti, il personale tutto dei nostri stabilimenti di Duferco Travi e Profilati operai, tecnici, ingegneri che, insieme alla ditta fornitrice SMS, si sono prodigati in questi tre anni per la realizzazione dell’impianto che oggi inauguriamo, e infine ultimi ma non ultimi i nostri colleghi siderurgici insieme ai nostri clienti e ai nostri fornitori che ci fanno l’onore di essere qui presenti in gran numero testimoniando dell’amicizia e della solidarietà che vivono nella comunità italiana dell’acciaio.
Mi piace iniziare questo mio breve discorso accomunando due belle storie che in qualche modo hanno a che fare con il fatto che noi siamo qui oggi. La bella storia dei nostri padri siderurgici lombardi e veneti che nel secondo dopoguerra senza soldi e quasi tutti di umili origini, quando Greta Thunberg era ancora nel mondo dei sogni, inventarono una straordinaria macchina di economia circolare capace di produrre acciaio come si dice oggi “decarbonizzato” e cioè fatto non con il carbone ma con i forni elettrici alimentati dalle centraline idroelettriche delle valli prealpine.
E la bella storia di Elio Di Rupo che ancora ringrazio per la sua presenza. Noi abbiamo conosciuto Di Rupo più di 25 anni fa quando Duferco investì molto, aiutata dalla finanziaria regionale, nella siderurgia della Wallonia. Da allora il rapporto si è mantenuto costante con un’amicizia che è andata al di là dei semplici rapporti istituzionali. Di Rupo, figlio di immigrati italiani giunti in Belgio dall’Abruzzo nel 1947, orfano di padre a solo 1 anno, è stato capace di affermarsi nella politica belga fino a diventare nel 2011 primo Ministro di quel paese, il primo primo ministro di origine non belga.
Cosa hanno in comune queste due belle storie? Entrambe dimostrano la capacità degli italiani di affrontare le difficoltà, di trasformarle in opportunità, di essere ottimisti, creativi ed adattivi, di fare del bisogno una straordinaria molla di crescita. Nel nostro piccolo, qui a San Zeno, abbiamo cercato di essere così. La realizzazione di questo impianto è il coronamento di un sogno che la nostra famiglia ha da quasi 30 anni e cioè da quando Duferco divenne proprietaria di questa fabbrica insieme a quelle di Pallanzeno in Piemonte, di Giammoro in Sicilia e di San Giovanni Valdarno in Toscana, rilevandole tutte da un fallimento. Il sogno era quello di completare qui a San Zeno il ciclo produttivo e di avere finalmente un impianto integrato ed efficiente che oltre a produrre acciaio grezzo lo trasformasse in prodotti finiti.
Quando nell’ormai lontano 1995 Bruno Bolfo mi chiese di occuparmi di questa azienda noi non eravamo industriali ma commercianti di ferro e all’emozione per il ritorno alle origini bresciane della mia famiglia si mischiava una forte apprensione sulla nostra reale capacità di fare un nuovo mestiere e di governare macchine così pesanti e complesse. Anche se Bruno, in quella occasione, mi aveva trasmesso tranquillità e sicurezza della visione e della guida come ha fatto in tutti questi anni di Duferco, in quella tarda primavera del 1995 ero qui da solo. Poi arrivarono Domenico Campanella, Franco Monteferrario, Massimo Croci, Maurizio Bergonzi, Ezio Palmisani, Agostino Conte ed Arturo Michelini che purtroppo non c’è più. Questi uomini ci aiutarono nello sforzo di far sopravvivere un’azienda difficile che, fino ad allora, era passata da una crisi all’altra.
Iniziammo a cimentarci con l’immane compito di gestire grandi complessi industriali, a comprendere l’importanza del territorio e dell’ambiente che circonda l’industria, l’inerzia degli impianti, la fatica degli operai, l’importanza e il valore del dialogo sociale, la complessità della tecnologia, l’indispensabilità della gerarchia e di una gestione ordinata, tenace, paziente del potere. Ci aiutarono anche i bresciani, non solo i nostri collaboratori in fabbrica, ma anche clienti e fornitori e soprattutto i colleghi della siderurgia che invece di vederci con diffidenza e sospetto, noi “foresti” venuti da fuori, ci accolsero con l’amicizia, la generosità lo spirito di collaborazione tipico dei bresciani.
Voglio ricordare al riguardo due grandi vecchi che oggi purtroppo non ci sono più ma che hanno segnato indelebilmente il mio arrivo qui. Il primo è Aldo Artioli della ASO, il papà della Paola che venne a trovarmi pochi giorni dopo il mio arrivo a San Zeno per spiegarmi e insegnarmi le regole di solidarietà vigenti nella comunità siderurgica bresciana e in particolare quella più importante: che se un’azienda brucia il trasformatore le altre, senza compenso, devono temporaneamente mettere a disposizione il loro di riserva.
Il secondo è l’indimenticabile Gian Brunori, papà di Ruggero, che la prima volta che venne a trovarci in fabbrica con un colpo d’occhio immediato mi disse “perché non ci fai un treno di laminazione sotto l’acciaieria?” e alla mia risposta “perché non ho i soldi” mi disse “lo farai comunque e ti pentirai di non averlo fatto prima”. Essendo riusciti a sopravvivere, anche grazie a questi consigli, abbiamo coronato il sogno realizzando l’investimento che oggi alla vostra presenza si inaugura.
Si tratta del più moderno impianto del suo genere in Europa, il “best cost producer”, completamente alimentato da energia verde e predisposto per essere governato da sistemi di intelligenza artificiale. Un treno di laminazione, come si dice in gergo, per la produzione di una gamma completa di travi in acciaio per costruzioni che avrà una capacità di 700.000 tonnellate annue. Il nuovo treno di laminazione realizzato tramite un ingentissimo investimento, in gran parte autofinanziato, ha consentito la creazione di 150 nuovi posti di lavoro diretti. La collocazione geografica del nuovo impianto, perfettamente baricentrica rispetto ai mercati europei, e la tecnologia innovativa consentiranno al sistema industriale italiano, ed in particolare al comparto dell’elettrosiderurgia, di disporre di una macchina estremamente competitiva nel mercato di riferimento.
In questi giorni così difficili e tragici dinanzi alle atrocità commesse in Israele e all’aggressione di quel Paese a cui va la nostra attenzione e il nostro cuore, e alle sofferenze della popolazione civile di Gaza, parlare di industria e celebrare un nuovo impianto a taluni potrebbe sembrare inopportuno e paradossale. Io ritengo invece che ci sia una grande coerenza con l’esigenza di rafforzare la nostra economia e l’Occidente rivendicando a pieno titolo la forza delle nostre democrazie e dei nostri valori.
Realizzare un investimento di questo tipo significa anche essere ottimisti ed avere fiducia nel futuro. Noi di Duferco siamo stati forse un po’ temerari ma anche fortunati perché i risultati molto positivi del 2021 e 2022 ci hanno permesso di finanziare gran parte dell’investimento. L’ottimismo e la fiducia nel futuro fanno parte del bagaglio dei siderurgici italiani. Noi siamo orgogliosi di far parte di questa famiglia. Si tratta di un comparto di eccellenza dell’industria manifatturiera nazionale.
Gli elettrosiderurgici italiani sono campioni europei di decarbonizzazione, perché non esiste un altro paese dell’Unione che produce più dell’80% del suo acciaio con il forno elettrico e quindi praticamente con bassissime emissioni di CO2. E quindi affrontano con la fiducia e la determinazione necessarie la difficilissima fase della transizione energetica aspirando a diventare presto i campioni mondiali nella produzione di acciaio green. Le famiglie proprietarie delle imprese del nostro settore, superando anche momenti difficili come quello del Covid, sono state e sono impegnate in grandi campagne di investimenti in impianti, in protezione ambientale, in sicurezza sui luoghi di lavoro, in innovazione di processi e prodotti, in energie rinnovabili, in strumenti di decarbonizzazione. Le famiglie proprietarie hanno reinvestito sistematicamente gli utili realizzati senza far mancare mai alle loro aziende l’indispensabile supporto degli azionisti e senza chiedere allo Stato contributi di sorta.
Molte di queste famiglie, compresa la nostra, hanno pensato al futuro non solo con gli investimenti ma anche con le persone e hanno avviato il ricambio generazionale che si sta realizzando in modo da dare continuità alle nostre imprese. Al riguardo consentitemi di ringraziare dal profondo del cuore Augusto e Vittoria per il grandissimo lavoro svolto in questi ultimi anni anche per la realizzazione di questo investimento. Francamente, senza presunzione, pensiamo che questa cultura e questi comportamenti debbano essere un esempio e un riferimento per tutte le vicende della siderurgia italiana, anche quelle più difficili. Grazie ancora a tutti per la vostra presenza e la vostra attenzione.