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Non ci sono vite a perdere

  • Data 19 Novembre 2023

Ha colpito la vicenda della piccola Indi Gregory nata con una malattia rara e morta lunedì in Inghilterra dopo che i giudici avevano deciso, contro la volontà della famiglia, di interrompere tutti i trattamenti vitali, respingendo anche la disponibilità dell’ospedale romano del Bambin Gesù ad accogliere la bambina per le cure. Ai genitori è stato persino impedito di portarla a casa. Per una valutazione del caso, senza precomprensioni ideologiche di qualunque tipo ma sulla base della semplice esperienza, segnaliamo l’intervista a Eugenio Borgna, decano della psichiatria italiana, pubblicata da Repubblica, nella quale dichiara che «la legge inglese ha calpestato ogni forma di umanità. Sono dalla parte della speranza anche se questa fosse stata un’illusione». In gioco c’è «il senso stesso della dignità della vita». Quella dignità, quella «dimensione profonda dell’essere umano» per la quale «non è il tempo di arrendersi ma di combattere» come sottolinea Susanna Tamaro in un articolo sul Corriere della Sera. La scrittrice, che è stata nostra ospite a Brescia nel 2019 in una serata memorabile al Mese Letterario, propone una riflessione più generale sullo strapotere della tecnica che lascia l’uomo senza bussola e «che ha invaso e stravolto senza alcun controllo le nostre società avanzate». Gli effetti di tale condizione sono il declino del senso critico negli adulti e la diffusione del disagio psichico tra gli adolescenti. La cultura è stata ridotta a sapere tecnico e così viene meno la capacità «di farsi delle domande». Nell’articolo si cita Romano Guardini che già negli anni ’60 denunciava l’invasività di un potere che diventa «lavaggio del cervello». «Questa forza, profeticamente intravista sessant’anni fa – scrive Susanna Tamaro -, alla fine è esplosa e ha distrutto la nostra civiltà, riducendola a un consesso di fanatismi contrapposti, in grado di ridicolizzare la capacità di un qualsiasi pensiero articolato. La persona non esiste più, al suo posto è sorto l’individuo». Un individuo sempre più isolato e solo. Il lavoro a cui tutti siamo chiamati è perciò anzitutto far riemergere quella dimensione umana che oggi appare gravemente compromessa. 

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Caso Indi, Borgna: “È disumano uccidere la speranza di quei genitori”

Intervista a Eugenio Borgna da la Repubblica – 12 novembre 2023 

La piccola Indi con la mamma

«Bisognava ascoltare i genitori, seguire anche quell’ultima speranza di cura per Indi, quale diritto avevano i giudici inglesi di staccare le macchine contro la volontà della famiglia? Chi ha diritto di decidere se una vita è degna o no di essere vissuta?». Eugenio Borgna ha 93 anni, alla psichiatria ha dedicato tutta la sua vita, così alla cognizione del dolore e alla difesa della fragilità. Sul destino della piccola Indi, otto mesi, nata con una malattia mitocondriale rarissima, legata a un respiratore fin dalla nascita, tracheotomizzata, alimentata con un sondino naso gastrico, sottoposta a molteplici interventi, dice con gravità: «Sono dalla parte della speranza anche se questa fosse stata un’illusione».

Un terreno delicatissimo professor Borgna. Tracciare confini netti può sembrare sempre arbitrario. Non crede però che di fronte a una vita così sofferente i giudici abbiano scelto per il bene della bambina?
«No, assolutamente. Per due motivi. Se un grande ospedale come il Bambin Gesù di Roma si era offerto di accogliere Indi, mettendo a rischio la propria reputazione, perché vietare ai genitori di fare quest’ultimo tentativo? È disumano uccidere la speranza, anche se si rivelasse un’illusione».

Un’illusione fatta di dolori indicibili a giudizio dei medici inglesi.
«I medici italiani però avevano aperto uno spiraglio di speranza. Ritenendo di poter migliorare le condizioni di Indi. Portandola nel nostro paese avremmo compiuto un gesto di umanità sia verso i genitori che verso la bambina. Forse non c’era più nulla da fare ma in questo modo i genitori avrebbero avuto pace. E quante volte anche le prognosi più infauste di una équipe medica vengono smentite da una équipe diversa? Qui però c’è in gioco il senso stesso della dignità della vita».

In che senso? Indi aveva otto mesi ed era in una condizione terminale.
«Ma quale diritto avevano i giudici di decidere se la sua vita fosse o meno degna di essere vissuta? Nella mia professione ho sempre difeso esistenze che per altri erano vite a perdere».

Negli ospedali psichiatrici?
«Sì, quando erano pieni di malati abbandonati, considerati dei rifiuti. Pur se curati molti non sono guariti, magari hanno vissuto poco, ma è stata loro restituita la dignità. Anche allora parte della medicina, di fronte alla non guarigione, proponeva l’abbandono dei pazienti. Se ci fosse stata anche una possibilità di cura su mille per Indi andava perseguita».

Dunque in casi così disperati chi può decidere del destino di un bambino?
«I genitori. Dovevano essere aiutati e ascoltati. La legge inglese ha calpestato ogni forma di umanità»

https://www.repubblica.it/cronaca/2023/11/12/news/borgna_intervista_caso_indi_gregory-420134627/#:~:text=Per%20due%20motivi.,si%20rivelasse%20un’illusione%C2%BB.


Susanna Tamaro: stiamo diventando incapaci di porci domande

di Susanna Tamaro – dal Corriere della Sera – 12 novembre 2023 

Il dominio della tecnica lascia l’umanità senza bussola. Ma non dobbiamo arrenderci all’eclisse del pensiero. La scrittrice denuncia il declino del senso critico negli adulti e la diffusione del disagio psichico tra gli adolescenti: è tempo di reagire

«Sei preoccupato per l’arrivo dell’intelligenza artificiale?» diceva un uomo affacciandosi alla porta e l’altro, dalla sua scrivania, rispondeva: «No, sono preoccupato dalla scomparsa di quella naturale». Erano le battute di una vignetta di cui non ricordo l’autore ma che mi sembra emblematica per descrivere i tempi che stiamo vivendo.

La scrittrice Susanna Tamaro al Mese Letterario nel 2019 (foto Fondazione San Benedetto)

Se ripenso ai miei anni giovanili, mi torna spesso in mente lo scrittore Giorgio Voghera e le tante mattinate trascorse insieme al mitico caffè San Marco di Trieste. Giorgio Voghera — figlio di Guido, noto matematico — è stato uno dei grandi rappresentanti della cultura triestina del secolo scorso. Nato nel 1908, è stato l’autore — anche se lo ha sempre negato — del libro Il segreto, pubblicato alla fine degli anni Cinquanta, e di molte altre opere. Aveva lasciato Trieste nel 1939 per via delle leggi razziali, e vi era tornato nel 1948 dopo anni vissuti in un kibbutz per riprendere il suo apparentemente tranquillo impiego in una compagnia di assicurazione.

Il caffè San Marco degli anni Settanta e Ottanta era ancora un vecchio locale fumoso dell’Europa centrale in cui i camerieri si aggiravano con piccoli vassoietti inox tra i tavolini e dove gli avventori bevevano caffè leggendo gratuitamente i giornali o giocando a scacchi. Giorgio Voghera — che è stato il mio primo lettore e che mi ha incoraggiato a scrivere — «riceveva» lì tutti i sabati mattina amici, conoscenti e sconosciuti, offrendo sempre nuovi motivi di discussione: un libro letto, un fatto accaduto, l’analisi di un sogno notturno, la soluzione di una sciarada. Era anche un grande appassionato di osservazione del mondo naturale come me: durante il suo soggiorno in kibbutz aveva lungamente osservato il comportamento delle galline e ne parlavamo spesso insieme. In poche ore, insomma, intorno a lui si materializzava un caleidoscopio di persone portatrici di notizie e di domande che rimanevano, nella loro stravaganza, sospese nell’aria; ne ricordo una in particolare: avete visto cartoline che raffigurano delle nubi? E se non ci sono, quale senso dobbiamo dare alla loro non esistenza?

Penso con grande riconoscenza a Giorgio Voghera e a tutti quei sabati trascorsi insieme; un pensiero che però è velato dall’ombra della malinconia perché mi rendo conto che quel mondo — che era quello della cultura che ha formato l’Europa dalla quale sono nati tutti i grandi pensatori, da Canetti e Hillesum — è irrimediabilmente scomparso; era riuscito a sopravvivere alla grande falcidia del nazismo, ma non è riuscito a sopravvivere allo tsunami della tecnologia che, diventata tecnocrazia, ha invaso e stravolto senza alcun controllo le nostre società avanzate.

La cultura si è trasformata in saper fare. Si è considerati colti se si ha una laurea che certifichi la propria preparazione; più master si hanno, più preparati si diventa e dunque più potere si ottiene; e a chi non può esibire queste «medaglie» non rimane che venir sbatacchiato sulla battigia come un barattolo vuoto. Il sapere è tecnico, e fuori dalla tecnica non c’è salvezza. La prova matematica di ciò l’abbiamo avuta nel tempo del Covid, il tempo del buio della ragione, in cui tutte le persone che hanno osato proporre qualche riflessione critica sono state perseguitate, insultate e derise da una folla di competenti laureati.

Eliminata la cultura, ora ci muoviamo unicamente tra due poli, la tecnica e la politica, e questi due poli, è ormai chiaro, si illuminano a vicenda di una luce sinistra. Cominciano, è vero, a levarsi qua e là i mea culpa di chi si lamenta della perdita del pensiero critico, ma sono mea culpa tardivi. Recentemente ho riletto un articolo dello psichiatra Giovanni Bollea del 1998 in cui parlava dell’assoluta urgenza di convocare a un tavolo i ministri e le persone competenti per creare un piano capace di controllare e arginare l’enorme influsso che i mezzi tecnologici rischiavano di avere sullo sviluppo neurologico dei bambini.

I dati attuali che la neuropsichiatria ci offre dovrebbero lasciare insonni tutte le persone che hanno a cuore il destino dei nostri figli e il futuro del Paese: l’alcolismo sempre più precoce, il consumo incontrollato di droghe sintetiche accanto ai sempre più diffusi atti di autolesionismo, che giungono a lambire anche i bambini, ci parlano di una devastazione etologica ormai fuori controllo. La ferocia sanguinaria è una compagna fedele di tutta la storia umana mentre gli istinti autodistruttivi presenti nei cuccioli della nostra specie sono una novità assoluta. Ogni essere vivente — più è evoluto, più questo è vero — possiede un’istintiva voglia di vivere e un’energia innata che lo proietta verso il suo futuro. La nostra specie ha totalmente perso la bussola e lo ha fatto in un tempo storicamente irrisorio.

Chi ricorda la pubblicità di una nota compagnia telefonica di qualche tempo fa? «Ti diamo le risposte prima ancora che tu ti faccia le domande». Ed è proprio questo il gravissimo stallo della nostra società: ricevere delle risposte prima di farsi le domande.

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Tag:Eugenio Borgna, Indi Gregory, Susanna Tamaro

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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