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Crisi demografica, una società che pensa solo al presente

  • Data 3 Dicembre 2023

A fine anno l’Italia rischia di collezionare un altro record negativo in tema di natalità. Sarebbe l’undicesimo anno consecutivo in cui si registra un calo delle nascite. In un articolo sul Foglio il professor Gian Carlo Blangiardo, sino allo scorso marzo presidente dell’Istat, analizza l’impatto sulla società della crisi demografica. Già nel 2017, nostro ospite in un incontro a Brescia, aveva paventato le conseguenze della continua diminuzione delle nascite. Una situazione che si sta purtroppo puntualmente confermando. «Guardando ai decenni che verranno – scrive -, va sempre più accreditandosi l’immagine di un paese dove, con la perduta vitalità nel ricambio generazionale, rischia di venir meno anche l’interesse/incentivo a investire nel futuro». Blangiardo poi aggiunge: «Dobbiamo renderci conto che l’orientamento a vivere nel presente, o anche solo nel breve periodo, rappresenta una resa improponibile, tanto per il singolo quanto per l’intera collettività». Ma una società che si arrende, che non sa più costruire un’alleanza fra le generazioni guardando con fiducia al futuro, di cui la natalità è un indicatore fondamentale, rischia semplicemente di spegnersi su se stessa. È il sintomo di un malessere più profondo. Nell’illusione di essere autonomi, oggi stanno venendo meno i contatti umani, si va verso l’estinzione della vita in comune. Sembra vincere la paura come mette in evidenza Marina Corradi in un articolo su Avvenire commentando l’ultimo rapporto del Censis, che rilancia anch’esso le preoccupazioni per la crisi demografica. «Inevitabile declino dunque? Le scienze statistiche si basano su quanto è accaduto, e quindi sul ragionevole andamento di ciò che è prossimo. Tuttavia – si legge nell’articolo – mancano di una categoria fondamentale: non contemplano l’imprevisto. Il Covid, cinque anni fa, sarebbe sembrato fantascienza. I tank russi in Europa anche. Non necessariamente nella storia l’imprevisto è un disastro. Imprevisto era anche che un polacco sul soglio di Pietro scuotesse il Muro di Berlino. Sono gli uomini che fanno la storia, ma bisogna farli nascere e educarli. Un orto oscuro e paziente, nessun risultato per trent’anni. Poi, magari, nascono figli nuovi».


Un Paese che si arrende?

di Gian Carlo Blangiardo

da Il Foglio – 30 novembre 2023

https://www.ilfoglio.it/societa/2023/11/30/news/dalla-crisi-demografica-nasce-una-societa-che-pensa-solo-al-presente-5960927/

Se i dati sulla frequenza di nascite nel terzo quadrimestre del 2023 dovessero confermare la tendenza dei primi otto mesi (-3 per cento), avremmo migliorato in negativo, per l’undicesimo anno consecutivo, il record della più bassa natalità di sempre, nella storia del nostro paese. Una conquista che forse non converrebbe mettere tra quelle di cui vantarci.

foto B. Chan

Anche perché l’ormai consueto viaggio nella denatalità ci sta già facendo toccare con mano – e ci ha prenotato senza scampo per i prossimi decenni – una società con leve giovanili ridotte ai minimi termini, con sempre meno potenziali mamme – per le poche bambine ereditate dal passato – e con un vasto popolo di nonni e bisnonni. Una presenza, quest’ultima, la cui collocazione nelle fasce d’età più anziane, usualmente (e doverosamente) accolta a livello individuale con affetto e cura entro la rete familiare, diventa nella valutazione collettiva qualcosa di molto problematico se messa in relazione con gli equilibri di welfare in una società che deve necessariamente fare i conti con le fragilità e i bisogni connessi all’invecchiamento demografico e ai cambiamenti che porta con sé. Non a caso, guardando ai decenni che verranno, va sempre più accreditandosi l’immagine di un paese dove, con la perduta vitalità nel ricambio generazionale, rischia di venir meno anche l’interesse/incentivo a investire nel futuro. Oggi le statistiche ci dicono che abbiamo mediamente vissuto 46 anni e che ce ne restano, sempre ragionando a livello di (aspettativa) media, circa 8 in meno (ossia altri 38).

Nel secondo Dopoguerra, allorché si costruiva il “miracolo economico”, gli anni mediamente vissuti erano 32 e quelli ancora da vivere – alle pur meno favorevoli condizioni di sopravvivenza di allora – ben 9 in più (41 pro capite). Se dunque possiamo dire, con motivata soddisfazione, che la durata della vita (vissuta e attesa) si è mediamente allungata di 11 anni – dai 73 del 1951 agli 84 del nostro tempo – dobbiamo anche prendere atto che il divario tra la strada percorsa e quella da percorrere si è invertito di segno. Ma si può realisticamente pensare che un popolo già oltre la metà del cammino della vita (quand’anche mediamente) abbia mantenuto intatti gli stimoli a investire e a innovare? È lecito ritenere che si sia ancora orientati/disposti a guardare al futuro e a sacrificare, ove necessario, i consumi e il benessere del presente? L’italiano “investitore” del secondo Dopoguerra, pronto a mettere in campo energie e risorse al fine di costruire “il domani” (per altro ricostruendo un paese) per sé e i propri cari, è forse destinato a venir soppiantato dalla comoda figura dell’italiano “manutentore”?

Dobbiamo renderci conto che l’orientamento a vivere nel presente, o anche solo nel breve periodo, rappresenta una resa improponibile, tanto per il singolo quanto per l’intera collettività. Per affrontare la sfida demografica è più che mai tempo di chiamare all’appello tutte le parti in causa: la politica, le istituzioni che operano sul territorio, il privato sociale, il mondo delle imprese. Occorre tuttavia che vi sia un valido regista (auspicabilmente lo stato), capace di coordinare ma anche (soprattutto) di spingere le altre componenti a fare ognuna la propria parte; ad agire su quelle leve, che pur esistono, in grado di correggere e rimettere in moto, nel pieno rispetto delle libere scelte, alcuni processi decisionali, spesso sospesi lungo i percorsi di vita, e risvegliare alcune potenzialità sopite. L’obiettivo del mezzo milione di nati annui da raggiungere in tempi brevi, lanciato agli Stati generali della natalità, non è un’impresa impossibile. Si tratta di intervenire aiutando, con appropriati interventi, i percorsi di autonomia dei giovani; favorendo l’abbreviazione dei tempi della genitorialità, quando voluta; insistendo nel considerare come scelta strategica da perseguire – e da supportare sul piano delle “3C” (costo, cura, conciliazione) – il passaggio al secondogenito.

Ci sono poi gli interventi sul fronte migratorio, mirati al controllo dei flussi – per volgerli da passivamente subìti a razionalmente governati – riconoscendo il loro contributo con uno spirito di collaborazione reciproca indirizzata alla piena integrazione. Senza per altro dimenticare anche l’avvio di una convincente azione di contrasto al fenomeno della nostra emigrazione, spesso di giovani con formazione competenze che sono tanto elevate, quanto sono basse le opportunità di averne riconoscimento in patria.

Infine c’è il tema del come porsi nei riguardi della componente anziana: i “diversamente giovani”. Dietro ai nonni del Ventunesimo secolo non ci sono infatti solo istanze e bisogni legati al welfare, c’è anche un patrimonio di esperienze e di competenze che sarebbe colpevole relegare in soffitta. Si dovrà però creare un contesto normativo e culturale che sia in grado di valorizzarle. L’obiettivo è quello di consentire un gratificante impegno, liberamente scelto e modulato secondo interessi e potenzialità, che sia anche concepito secondo una visione di quella stessa interazione e alleanza tra le generazioni che l’arte ci regala nel gruppo scultoreo “Enea, Anchise e Ascanio” mirabilmente animato nel marmo di Gian Lorenzo Bernini.


L’Italia, le paure e il 2050. L’imprevisto di periferia

di Marina Corradi

da Avvenire – 2 dicembre 2023

Si direbbe che abbiamo paura. La parola torna insistentemente nel rapporto Censis sull’Italia del 2023. Abbiamo paura di un sacco di cose: dei cambiamenti climatici, di una guerra, dei flussi migratori, di un default dello Stato. Sembriamo una famiglia invecchiata che rimpiange una stabilità e un benessere perduti. La sola paura non apertamente espressa dagli intervistati è quella del declino demografico, di tutte, però, la più oggettiva. Anno 2050, saremo in 4,5 milioni di meno. Già oggi i 18-34enni, quelli che entrano nel lavoro e hanno figli, sono poco più di 10 milioni, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani.

Tre milioni di figli non pensati e attesi, o cancellati, perché si temeva di non poterli mantenere. Perché non c’erano più i nonni vicino a casa, ma nemmeno ancora i nidi. Figli che non sono nati nel mito di una autorealizzazione individualistica, nel fallimento dei matrimoni, figli che spaventavano giovani coppie dal lavoro precario. Tre milioni di meno. Dunque una riduzione netta della popolazione attiva, e l’aumento verticale, in parallelo, degli ultrasessantacinquenni. Il declino segnalato dai cattolici per primi, trent’anni fa, va concretizzandosi.

«Ciechi davanti ai presagi, passivi come sonnambuli», ci descrive il Censis. C’è del vero: a livello popolare la coscienza delle crisi c’è, ma come accompagnata da un senso di impotenza, soprattutto nei giovani; di rassegnazione, nei più anziani. Non appena sui media si allontanano le vertigini del Covid, della guerra in Ucraina e ora in Israele e a Gaza, sui tg un’onda di cronaca nera. Per non pensare? Poi come sempre conti pubblici al limite, multe dalla Ue, scontri, liti, e fra poco Sanremo, di nuovo. Mai uno sguardo a lunga distanza, uno sguardo più in là. Sarà perché di certe previsioni cupe non giova dire, nei programmi elettorali. Difficilmente una prospettiva più ampia su ciò che attende il Paese porterebbe dei consensi, e siamo nella politica dei “mi piace” sui social, dell’incasso immediato. Che faranno dunque gli italiani del 2050? Chi lo sa, mancano 26 anni, nel frattempo noi speriamo che ce la caviamo. Ma quegli italiani sono i nostri figli, e saremo noi, magari ottuagenari. Bisognosi di cure, e a volte con nessuno accanto. Di tutte le paure degli italiani, quel 70 per cento che teme per Sanità e assistenza ne ha buone ragioni. E si comprende anche il gran favore per l’eutanasia, che altro non è che tangibile paura. Triste destino per i baby boomers, gli italiani più vaccinati, nutriti e istruiti di sempre. Il posto super garantito, la pensione a sessant’anni. Una generazione che non ha visto la guerra e ha perso la spinta dei suoi vecchi, che ricostruirono il Paese.

Inevitabile declino dunque? …..

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Tag:Censis, crisi demografica, immigrazione, Istat, natalità

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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