Tra Biden e Trump, gli Usa verso il voto
È un’America sempre più polarizzata quella che si sta preparando alle elezioni presidenziali del prossimo novembre con scenari al momento ancora molto incerti. Giovedì se n’è parlato nell’incontro promosso dalla Fondazione San Benedetto al Centro Paolo VI di Brescia con gli interventi molto apprezzati per lo spessore e la qualità dei contenuti di Marco Bardazzi, giornalista, che sta seguendo la campagna elettorale americana per Il Foglio, e autore del libro «Rapsodia americana» (Rizzoli), e di Lorenzo Pregliasco, direttore del web magazine di analisi di dati YouTrend. È stato un incontro di grande interesse per conoscere da vicino cosa sta succedendo negli Stati Uniti e capire come questo ci riguardi molto più di quanto si potrebbe a prima vista pensare. Diversi dei numerosi presenti in sala ci hanno espresso il desiderio di approfondire gli argomenti trattati, considerando anche che nei prossimi mesi potremmo assistere a sviluppi, al momento imprevedibili, della campagna elettorale americana. Raccogliendo queste sollecitazioni siamo perciò già in grado di anticiparvi che tra fine settembre e inizio ottobre, a Brescia proporremo un nuovo incontro sempre dedicato alle presidenziali Usa con l’intervento degli stessi relatori, che si sono già resi disponibili e che per questo ringraziamo. Ci potranno così fornire un quadro aggiornato sulle ultime fasi della sfida elettorale. Vi terremo aggiornati. Di seguito trovate una sintesi di alcuni dei principali spunti emersi nell’incontro di giovedì. Nei prossimi giorni potrete trovare online sul nostro sito il video integrale del dibattito. Intanto vi segnaliamo che a questo link è già possibile rivedere l’incontro sulle elezioni europee del 16 maggio scorso con Ferruccio de Bortoli, Mario Mauro e Romano Prodi.
GERSHWIN E L’AMERICA DI OGGI
Sentir raccontare degli Stati Uniti e dello scontro elettorale che si va profilando fra Biden e Trump da Marco Bardazzi e Lorenzo Pregliasco è anzitutto una grande opportunità di conoscenza di prima mano oltre ogni sentito dire superficiale. Il primo è stato corrispondente negli Usa dal 2000 al 2009 per l’agenzia Ansa e ha mantenuto un’attenzione costante a quanto accade oltreoceano come documenta anche il suo ultimo libro. Il secondo, a soli 36 anni è già un’analista politico raffinato; le sue analisi si possono leggere regolarmente sui media internazionali, dal Financial Times a Bloomberg, dalla BBC alla Reuters. L’incontro prende le mosse dall’ascolto dei primi minuti della Rapsodia in blu, il capolavoro di George Gershwin, composto giusto cento anni fa. Una sorta di colonna sonora dell’America che ha dentro di sé le mille facce di un grande paese che, con tutte le sue contraddizioni, ha finora sempre saputo trovare un equilibrio attorno alla sua Costituzione che è la stessa dal 1787 e alla quale da allora sono stati portati solo una ventina di emendamenti. «La tenuta di quella carta costituzionale – spiega Bardazzi – fino a oggi è stata affidata a un equilibrio di poteri che ha sempre retto. Adesso invece i tre poteri esecutivo, legislativo e giudiziario attraversano un momento di forte difficoltà come mai si era visto. Le prossime elezioni si giocano su questo». Sullo sfondo c’è un paese che negli ultimi anni si è fortemente polarizzato. Il contesto socio-culturale, che ha un peso di lungo periodo, è fondamentale per capire cosa sta succedendo. Poi ci sono i sondaggi che danno la misura più immediata sui possibili scenari del voto di novembre. E questi cosa ci dicono?
SONDAGGI E STATI CHIAVE
«Se guardiamo alle prossime elezioni americane – sottolinea Pregliasco – non possiamo che ricavare un’impressione di incertezza su come andranno a finire. Oggi i sondaggi nazionali danno una situazione di sostanziale parità fra Biden e Trump. Il problema è che però, a differenza di quanto succede in Italia, questo tipo di sondaggi nazionali negli Usa ha uno scarsissimo valore per capire chi vincerà, perché il sistema elettorale è molto diverso dal nostro. Non andrà infatti alla Casa Bianca chi riceve più voti a livello nazionale. Il presidente sostanzialmente viene eletto stato per stato fino ad arrivare alla soglia di 270 grandi elettori (cioè dei delegati che poi formalmente sceglieranno il presidente). A ogni stato spetta un certo numero di grandi elettori in base alla popolazione. Attualmente nella gran parte degli stati si sa già se vincerà Biden o Trump. Il primo al momento può contare su circa 225 grandi elettori, il secondo su 235. La partita si gioca tutta sui restanti sei stati dove invece la sfida è ancora aperta: Michigan, Wisconsin, Georgia, Pennsylvania, Arizona e Nevada. E questi sono gli unici sei stati in cui si fa la campagna elettorale vera. Questo introduce una variabile importante: al di là di chi prevarrà a livello nazionale, a decidere il nuovo presidente saranno le sensibilità, i temi, le priorità, anche la demografia, di quei sei stati che non sono rappresentativi degli Stati Uniti. Sono dei microcosmi, con gli stati dell’ex Midwest industriale, della cosiddetta Sun Belt, del sud ex conservatore diventato molto più progressista negli anni. Il problema per Biden è che in questi sei stati i sondaggi al momento sono sfavorevoli rispetto alla sostanziale parità che vediamo a livello nazionale». Tutto però è ancora possibile. «Mancano cinque mesi abbondanti e ci troviamo di fronte a due candidati che hanno grossi limiti personali – aggiunge Pregliasco -. Per Biden c’è il problema dell’età, per Trump ci sono i guai giudiziari che potrebbero avere implicazioni sulle sue chances elettorali. Un elettore repubblicano su cinque, secondo i sondaggi, in caso di condanna di Trump sarebbe orientato a rivedere la sua preferenza elettorale. E in un sistema in cui si vince stato per stato, magari per poche migliaia di voti, questo potrebbe fare la differenza».
Com’è possibile che ci si trovi nuovamente di fronte a una sfida tra Biden e Trump, che democratici e repubblicani non siano riusciti a esprimere nulla di nuovo? Per Pregliasco «la base militante del partito democratico e di quello repubblicano ha avuto l’occasione di scegliere qualcun altro. Per una serie di motivi (non ultimo il fatto che Biden e Trump si giustifichino un po’ a vicenda) non sono emerse alternative e ci troviamo così con due candidati che si risfidano (è la prima volta con un ex presidente sconfitto che si ricandida) in un’America che però cambia, e cambia tanto. C’è una tensione tra una politica che sembra ripetersi stancamente e un paese che corre molto più veloce di noi, dell’Europa, anche se gli americani sembrano non accorgersene».
PARTITI IRRICONOSCIBILI
Il percorso che ha portato alla situazione di oggi, e che ha reso i due partiti (soprattutto quello repubblicano) irriconoscibili, è molto lungo. «Per trovarne la genesi – racconta Bardazzi – si deve risalire alla seconda presidenza Obama con l’implosione del partito repubblicano su cui nel 2015 si innesta la candidatura a sorpresa di Trump. Un candidato né democratico né repubblicano, Trump è un trumpista o un trumpiano, completamente diverso da tutti i 45 presidenti che ci sono stati, che però ha preso il controllo del partito. Dall’altra parte i democratici si sono radicalizzati, non tanto per colpa di Obama, quanto perché questi era considerato troppo moderato e in molti si sono spostati più a sinistra su tanti temi culturali, economici… Negli anni Dieci sono successi tanti fenomeni che hanno cambiato profondamente i repubblicani e di conseguenza i democratici, al punto che quando hanno dovuto trovare l’antidoto a Trump nel 2020 si sono rivolti all’usato sicuro Biden. Ed ecco perché in un certo senso i due si spiegano a vicenda e a questa tornata non c’è stata alcuna possibilità di scalfire Trump».
SENZA PRECEDENTI
In queste settimane si discute molto sul peso che alcune minoranze potrebbero avere nel condizionare il voto, a cominciare da quelle araba ed ebraica in dissenso con la linea di Biden su Gaza. «I sondaggi – spiega Pregliasco – stanno evidenziando alcuni problemi per Biden tra le minoranze non bianche che nell’elettorato democratico sono una colonna portante. Se vuole essere eletto ha bisogno di un sostegno molto forte tra gli afroamericani e gli ispanici. La guerra a Gaza ha spaccato molto di più l’elettorato democratico di quello repubblicano. Un commentatore americano recentemente ha detto che la parola più usata in queste elezioni sarà “unprecedented”, senza precedenti, perché qualunque cosa lo è dall’età di Biden ai processi di Trump, ma in un ecosistema estremamente polarizzato. Noi non abbiamo idea del livello di radicalizzazione politica a cui si è arrivati negli Usa. È qualcosa che riguarda i media, come ti informi, i comportamenti di acquisto, persino la propensione a vaccinarsi durante la pandemia è legata al partito votato. Questa polarizzazione porta con sé uno sfarinamento, in realtà più dei repubblicani che dei democratici. Mi colpisce che se prendiamo tutti i presidenti o vicepresidenti repubblicani, o candidati tali (salvo Trump e Sarah Palin), oggi nessuno sostenga Trump a cominciare da Bush, Cheney, Romney, Paul Ryan, Mike Pence (che nel 2016 era il vice di Trump). Eppure Trump ha stravinto le primarie e potrebbe vincere le presidenziali. Insomma un bel pasticcio».
EPIDEMIA DI SOLITUDINE
È venuta meno una narrativa minimamente condivisa, i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono tutti sotto forte stress. L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 è stato l’episodio più macroscopico di questa tendenza. «Questo è il più grande problema del paese – sottolinea Bardazzi – ed è una questione che stiamo cominciando ad avere anche in Europa. Possiamo avere idee politiche diverse, litigare su tante cose, però dei punti comuni di fondo nei paesi con democrazie solide ci sono. Sull’assalto a Capitol Hill abbiamo invece un candidato alla Casa Bianca che sostiene che erano patrioti che volevano liberare il paese dalla dittatura, e gli altri che dicono che era gente che stava facendo un’insurrezione contro la Costituzione. Questo sta spaccando il tessuto del paese. Aggiungerei un paio di altri elementi. Il primo è la devastante epidemia di solitudine che gli Stati Uniti abbiano mai vissuto nella loro storia. È un fenomeno che sta provocando più vittime di quelle che un tempo facevano le sigarette, perché per alcol, droga, fentanyl e oppiacei e suicidi muoiono tantissimi americani. Perché questa solitudine? Sono scomparse le comunità su cui si basava l’America (e questo è il secondo elemento) che Tocqueville indicava come il carattere distintivo del paese. Quelle comunità stavano insieme grazie ad alcuni fattori. Anzitutto le chiese che oggi sono in crisi e non sono più un luogo in cui si fa mediazione rispetto ai problemi. E poi l’informazione, anche questa in crisi totale. Sono spariti dal 2006 a oggi un terzo di tutte le testate (giornali, radio, tv) esistenti in America. Oggi ci sono circa 250 contee su un totale di tremila che sono classificate come “deserto di news”, dove non c’è più nessun tipo di giornale, rete locale o altro. Teniamo presente che gli Usa nel 900 avevano costruito un modello per cui in ogni piccolo o medio centro abitato c’erano almeno due giornali e due televisioni affiliate ai grandi network. È sparito tutto. Sono rimaste pochissime testate. Cosa ci dice questo? Nel secolo scorso accusavamo gli americani di essere provinciali, perché guardavano al mondo attraverso il giornale del North Dakota, però paradossalmente questo li teneva insieme. Adesso abbiamo un paese di gente sola, chiusa in casa, che sta sui social tutto il giorno, che giudica ogni tema come se fosse una questione nazionale. Non ci sono più problemi locali. Questo polarizza perché io divento nemico del mio vicino di casa; se non la pensiamo allo stesso modo sull’aborto, non siamo più abitanti della stessa città, ma due persone che la pensano diversamente su un tema nazionale. È questa polarizzazione crea due narrazioni completamente diverse».
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