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  • Thomas ucciso a 16 anni e l’orizzonte del niente

Thomas ucciso a 16 anni e l’orizzonte del niente

  • Data 29 Giugno 2024

La cronaca degli ultimi giorni è stata segnata dall’agghiacciante uccisione di un sedicenne a Pescara. Al di là della ricostruzione dell’accaduto e dell’impatto emotivo superficiale che una notizia del genere inevitabilmente suscita per poi tornare altrettanto rapidamente ad anestetizzarsi con le solite distrazioni, vogliamo provare a soffermarci su cosa un fatto come questo dica alla nostra vita. Ci si chiede come sia possibile questa assurda esplosione di violenza seguita dall’indifferenza con cui dopo aver ucciso si va in spiaggia a farsi un bagno. In un’intervista al Corriere la madre di un’amica di uno dei ragazzi fermati per l’omicidio ha detto: «Credo che a quel ragazzo nessuno abbia trasmesso nulla». Forse qui sta il problema. Su questo vi proponiamo la lettura dell’articolo di Marina Corradi pubblicato su Avvenire. L’avvocato di uno dei ragazzi accusati del delitto ha dichiarato: «Non ci sono ricette, non ci sono segreti. Il mestiere di genitore è semplicemente un mestiere impossibile, nel quale occorre avere fortuna. Non si dica che mancava il controllo dei genitori, perché non è vero. I miei clienti vigilavano sul loro figlio. Chi può giudicare? La fortuna, ripeto, è tutto». Per Corradi siamo di fronte a «parole che fanno trasalire». Se tutto dipende dalla fortuna, dal caso, più nessuno allora veglia sul destino dei figli, non c’è alcun Dio che abbia a cuore i nostri figli? «Quale dirompente modernità – si chiede – ha creato questa forma mentis annichilente, per cui siamo niente, una pallina sulla roulette?». Possiamo rassegnarci a questo?



Nessuno veglia sul destino dei figli

L’avvocato di uno degli accusati del delitto ha detto: la fortuna è tutto. Ma allora, nessuno veglia sul destino dei figli, non c’è alcun Dio che abbia a cuore i nostri figli?

di Marina Corradi

da Avvenire – 25 giugno 2024

Pescara, due ragazzi di buona famiglia. La vittima, un piccolo, disgraziato trafficante. 16 anni aveva Christopher, e 200 euro, pare, doveva a quei due. Che, poi, quella sera sono andati al mare.

La madre di un arrestato prega: prega che a brandire il coltello non sia stato suo figlio. Ma sono le parole di un avvocato dei ragazzi, che ti restano in mente. Chissà, forse anche quell’avvocato è un padre. Dice al Corriere: «Non ci sono ricette, non ci sono segreti. Il mestiere di genitore è semplicemente un mestiere impossibile, nel quale occorre avere fortuna. Non si dica che mancava il controllo dei genitori, perché non è vero. I miei clienti vigilavano sul loro figlio. Chi può giudicare? La fortuna, ripeto, è tutto».

Parole che fanno trasalire. La fortuna, anzi, la Fortuna, è tutto. Nessun Dio più ci dice, come nei Salmi: «Quando ti formavo nel grembo di tua madre, già ti conoscevo». Nessun Dio che sappia anche quanti capelli abbiamo sul capo. Via, storie, favole, teneri ricordi di un catechismo buttato via a sedici anni. Nessuno veglia sul destino dei figli nelle notti del sabato, che sulle strade al mattino rendono sempre dei morti.

Semplicemente, non c’è alcun Dio che abbia a cuore i nostri figli: che abbia un disegno, magari anche difficile o doloroso, su di loro. Fortuna, ci vuole. Come si fa? Scegliere gli ambienti “migliori”, sorvegliare le pagelle, frugare goffamente negli smartphone? Basta? È sufficiente? Fortuna, in realtà, vuole dire il niente.

Come in una roulette che gira veloce, con la pallina che salta e corre finché si posa graziosa, imprevedibile, su un numero. Pair, impair, rouge, noir, i giocatori fissano la ruota. La Fortuna è misteriosa e ingovernabile. E altrettanto varrebbe, quanto al crescere i figli? Che orizzonte pauroso. Se fosse diffuso, spiegherebbe in parte la nostra denatalità. Non solo soldi in meno o part time negati, ma: paura. Guarda cosa succede, leggi i giornali: cosa possono diventare a sedici anni, quei figli spesso unici, spesso vezzeggiati.

Nell’orizzonte di un Caso neopagano, veramente può far paura, avere un figlio. Ma, in due generazioni, quanta memoria si è persa. Anche al di là dell’Italia cristiana. C’era una cultura laica che si tramandava: le fede nella giustizia, nell’eguaglianza, nella libertà. Quanti giovani partigiani sono morti per questo. Avevano ricevuto una eredità. Hanno combattuto per qualcosa. Figli perduti ma non per un nulla, non nel Caso.

Quale dirompente modernità ha creato questa forma mentis annichilente, per cui siamo niente, una pallina sulla roulette? Forse, il troppo? Troppo benessere, troppa roba, troppi soldi? C’è bisogno ancora di combattere, c’è bisogno di pregare in un mondo in cui tutto pare, almeno se nasci dalla parte giusta, garantito? La coscienza cristiana di essere figli, la necessità di una mendicanza, si è annacquata in quasi 80 anni di pace? Duro da dirsi, ma le madri che avevano i ragazzi al fronte pregavano, e insegnavano a pregare. Voglia il cielo che non arrivi, vicina, una guerra, a ricordarci il nostro essere figli.

Le parole di quell’avvocato dicono però anche qualcosa di vero: il web ha travolto con i suoi influencer, con i suoi “like”, con la violenza dell’anonimato impunito, l’adolescenza dei figli. È una variabile inedita, che può fare impazzire i rapporti. Sfide mortali, giochi crudeli. O mode. Trend: “Si fa così”. È oggettivo che il web sia entrato nella vita dei ragazzi, con più forza del trattore cui Pasolini paragonava l’effetto della tv sulla coscienza degli italiani. Ci sono genitori che se ne sentono sopraffatti. Allora si arriva a dire che la Fortuna è tutto. Educazione, amore, tutto spazzato via, se “lui” entra nel giro sbagliato.

E come ci si propizia la Fortuna? Con gli oroscopi, con i talismani? Chi si prega la notte, quando “lui” alle cinque ancora non è tornato? La fede in un Dio che ci conosce, uno per uno, è stata alla radice dell’Occidente cristiano. Chissà quale Italia verrà, nell’era della Fortuna. Ma già si vedono molte culle e banchi vuoti. Non si hanno figli, nell’orizzonte del niente.

Tag:famiglia, figli, genitori, Marina Corradi

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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