Dalla Madonna di Benigni a Taylor Swift che bellezza cerchiamo?
Quella di oggi è l’ultima newsletter domenicale prima della pausa estiva, il nostro appuntamento settimanale riprenderà regolarmente a inizio settembre. Nell’augurarvi buone vacanze vi segnaliamo due testi ripresi dalla stampa di questi giorni su temi apparentemente molto diversi, ma in realtà molto collegati. Il primo è l’intervento a braccio fatto da Roberto Benigni in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’University of Notre Dame, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero.Un discorso appassionato dedicato alla figura della Madonna nell’arte attraverso l’incontro con tre capolavori (la Madonna del parto di Piero della Francesca a Monterchi, la Madonna dell’Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto e la Madonna Sistina di Raffaello) per arrivare poi ai versi di Dante sulla Vergine Madre. È una testimonianza di come la nostra vita si nutra di bellezza e di come l’esperienza di questa ci consenta, più di mille discorsi, di cogliere la verità della nostra umanità che non può mai essere appagata da nulla che abbia la misura corta dei nostri calcoli, dei nostri progetti o delle nostre effimere soddisfazioni.
La seconda segnalazione è un articolo di Antonio Socci pubblicato da Libero sul fenomeno Taylor Swift.Il caso della cantante americana – scrive – «è esemplare e fa capire bene come funziona la macchina del desiderio mimetico, ovvero come si creano i miti (dello spettacolo e non solo) e come si affermano le mode (anche ideologiche). È una questione che non ha a che fare solo con il costume, con le canzoni o con la politica. Ma con la confezione sociale del prodotto, perché quella attrae la natura stessa dell’uomo. I nostri miti (ideologici, idolatrici) nascono dal contagio mimetico ma sempre deludono il nostro desiderio di felicità che è infinito».
Infine alcuni suggerimenti di lettura per l’estate, proposte di approfondimento per affrontare con maggiore consapevolezza la nostra storia e il momento che stiamo attraversando. Il primo è il libro di Antonio Polito «Il costruttore» (Mondadori) nel quale ripercorre l’itinerario umano e politico di Alcide De Gasperi a settant’anni anni dalla sua morte.Oggi è una figura dimenticata, ma alla quale l’Italia deve la sua rinascita molto più che a chiunque altro. È stato l’unico vero statista italiano, ne abbiamo già scritto in una nostra precedente newsletter poche settimane fa.Il secondo libro è «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli) di Luigi Giussani.Negli anni incandescenti del Sessantotto, gli impetuosi venti di cambiamento che agitano la società si insinuano anche tra le fila del «movimento» di Gioventù Studentesca, sorto più di dieci anni prima al Liceo Berchet di Milano: un migliaio di liceali e alcune centinaia di universitari se ne allontanano per aderire al Movimento studentesco. È lo «scossone più grosso» mai subìto dall’esperienza di Gioventù Studentesca, come dirà in seguito il suo fondatore, don Luigi Giussani. Dopo aver lasciato la guida di GS, in quegli stessi anni Giussani frequenta con assiduità il Centro Culturale Charles Péguy. Fondato nel 1964 a Milano da un gruppo di laureandi, laureati e assistenti universitari, di fatto rappresenterà la prosecuzione dell’esperienza iniziata nelle aule del Berchet e, al contempo, l’inizio di quella realtà che di lì a poco assumerà il nome di «Comunione e Liberazione». Questo volume raccoglie per la prima volta le trascrizioni delle lezioni tenute da Giussani al Centro Péguy dal 1968 al 1970, incontri e riflessioni intorno a un’intuizione che sarà gravida di conseguenze: solo nella comunione cristiana possiamo sperimentare la liberazione, cioè l’avvento di un mondo più umano.L’ultimo libro è «Amar» (ed. Marsilio) di Rossana Rossanda, storica fondatrice del Manifesto e protagonista della stagione del ‘68. È uno dei suoi ultimi scritti, una favola «immaginifica e politica» sulla vita e sulla morte. Nell’introduzione definisce questo libro «un frutto del disagio», del confronto continuo e drammatico che Rossanda ha ingaggiato col mistero della morte nel corso delle diverse fasi della sua vita, sfidando il senso comune secondo il quale «pare che per vivere bisogni dimenticare di morire». Un confronto che ha portato lei, non credente, a interrogare su questo tema i monaci camaldolesi del monastero benedettino di Monte Giove vicino a Fano in provincia di Pesaro, proprio mentre si era trovata a vivere due esperienze private molto dolorose.
La Madonna nell’arte, una vera rivoluzione
Quando mia mamma era incinta, che mi stava aspettando, aveva paura, non aveva da mangiare. Non poteva mangiare niente, era poverissima, ma una povertà, veramente una povertà aristocratica. Non ho mai visto io una principessa come la mia mamma. Così tutta la mia vita nella povertà. Mangiava solamente cocomero, anguria, non aveva nient’altro da mangiare e aveva paura che il parto andasse male. Allora le sue amiche le hanno detto «Vai a pregare a Monterchi», alla chiesa – mi sono scordato il nome! – la Momentana! Nella chiesa di Santa Maria della Momentana c’è una Madonna che fa dei miracoli, ma proprio forte forte forte, ed è la Madonna del parto di Piero della Francesca, niente meno, si fa per dire, a Monterchi. Io poi ho tentato quell’affresco di rubarlo tutta la vita. Sono andato a vederlo, sono svenuto per la bellezza: con il ventre, qui c’è la veste strappata, la mano… e sono andato a vederla spesso io. Il parto è andato bene; fisicamente il parto è andato bene.
Un quadro memorabile! Ma una cosa, che io sono rimasto! Per dire la rivoluzione che ha fatto la Madonna, diciamo, per le donne nel mondo. Si parla del femminismo, ma la Madonna quello che ha fatto per il femminismo! Il pensiero filosofico non è andato in profondità sulla rivoluzione straordinaria che ha fatto la Madonna, mentre le arti figurative sì. Ecco i quadri sì, sono andati al di là del pensiero filosofico. Voi immaginate questa Madonna, il suo sì, quando ha detto il sì, il fiat, l’eccomi limpido come quello di Abramo. L’Annunciazione ha cambiato il mondo totalmente. Poi con le arti figurative solo donne si rappresentavano, ma quello che ha fatto, alcuni papi, non ricordo il nome di chi ha deciso che dopo che la Madonna aveva detto «Sì, eccomi!» all’Annunciazione, tutte le donne dovevano dire sì al matrimonio, che prima non lo dovevano dire. È un papa di cui non ricordo il nome. Voi mi direte: ma come, ti danno il dottorato, e non ricordi il nome del papa? È da stamattina che ci penso, ma non mi viene in mente. È uno dell’epoca di Gregorio VII, o Leone II, decise che le donne dovevano dire sì. E in quel quadro di Lotto si vede la Madonna – se lo avete in mente, perché è famosissimo – che fa così, quasi che abbia paura… incredibile! Quel sì non è scontato, non è banale. È un sì sofferto, sentito, ci ha pensato.
E se voi avete pochi secondi di tempo, ve la ripeto, perché non posso farvi vedere questi quadri di cui ho parlato – ma tutti li conoscete – ma vi posso far sentire, con la fortuna di farvelo sentire nella lingua in cui il poeta l’ha scritta, le sette terzine del nostro Dante Alighieri alla Vergine Madre: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/termine fisso d’etterno consiglio,/ tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ’l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore,/ per lo cui caldo ne l’etterna pace/ così è germinato questo fiore./ Qui se’ a noi meridiana face/ di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,/ se’ di speranza fontana vivace./ Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre/sua disianza vuol volar sanz’ali./ La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate/ liberamente al dimandar precorre./ In te misericordia, in te pietate,/ in te magnifi cenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate».