Dalla Madonna di Benigni a Taylor Swift che bellezza cerchiamo?
Dalla Madonna di Benigni a Taylor Swift che bellezza cerchiamo?
Data 27 Luglio 2024
Quella di oggi è l’ultima newsletter domenicale prima della pausa estiva, il nostro appuntamento settimanale riprenderà regolarmente a inizio settembre. Nell’augurarvi buone vacanze vi segnaliamo due testi ripresi dalla stampa di questi giorni su temi apparentemente molto diversi, ma in realtà molto collegati. Il primo è l’intervento a braccio fatto da Roberto Benigni in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’University of Notre Dame, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero.
Roberto Benigni (courtesy of creative commons)
Un discorso appassionato dedicato alla figura della Madonna nell’arte attraverso l’incontro con tre capolavori (la Madonna del parto di Piero della Francesca a Monterchi, la Madonna dell’Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto e la Madonna Sistina di Raffaello) per arrivare poi ai versi di Dante sulla Vergine Madre. È una testimonianza di come la nostra vita si nutra di bellezza e di come l’esperienza di questa ci consenta, più di mille discorsi, di cogliere la verità della nostra umanità che non può mai essere appagata da nulla che abbia la misura corta dei nostri calcoli, dei nostri progetti o delle nostre effimere soddisfazioni.
La seconda segnalazione è un articolo di Antonio Socci pubblicato da Libero sul fenomeno Taylor Swift.
La cantante americana Taylor Swift
Il caso della cantante americana – scrive – «è esemplare e fa capire bene come funziona la macchina del desiderio mimetico, ovvero come si creano i miti (dello spettacolo e non solo) e come si affermano le mode (anche ideologiche). È una questione che non ha a che fare solo con il costume, con le canzoni o con la politica. Ma con la confezione sociale del prodotto, perché quella attrae la natura stessa dell’uomo. I nostri miti (ideologici, idolatrici) nascono dal contagio mimetico ma sempre deludono il nostro desiderio di felicità che è infinito».
Infine alcuni suggerimenti di lettura per l’estate, proposte di approfondimento per affrontare con maggiore consapevolezza la nostra storia e il momento che stiamo attraversando. Il primo è il libro di Antonio Polito «Il costruttore» (Mondadori) nel quale ripercorre l’itinerario umano e politico di Alcide De Gasperi a settant’anni anni dalla sua morte.
Oggi è una figura dimenticata, ma alla quale l’Italia deve la sua rinascita molto più che a chiunque altro. È stato l’unico vero statista italiano, ne abbiamo già scritto in una nostra precedente newsletter poche settimane fa.
Il secondo libro è «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli) di Luigi Giussani.
Negli anni incandescenti del Sessantotto, gli impetuosi venti di cambiamento che agitano la società si insinuano anche tra le fila del «movimento» di Gioventù Studentesca, sorto più di dieci anni prima al Liceo Berchet di Milano: un migliaio di liceali e alcune centinaia di universitari se ne allontanano per aderire al Movimento studentesco. È lo «scossone più grosso» mai subìto dall’esperienza di Gioventù Studentesca, come dirà in seguito il suo fondatore, don Luigi Giussani. Dopo aver lasciato la guida di GS, in quegli stessi anni Giussani frequenta con assiduità il Centro Culturale Charles Péguy. Fondato nel 1964 a Milano da un gruppo di laureandi, laureati e assistenti universitari, di fatto rappresenterà la prosecuzione dell’esperienza iniziata nelle aule del Berchet e, al contempo, l’inizio di quella realtà che di lì a poco assumerà il nome di «Comunione e Liberazione». Questo volume raccoglie per la prima volta le trascrizioni delle lezioni tenute da Giussani al Centro Péguy dal 1968 al 1970, incontri e riflessioni intorno a un’intuizione che sarà gravida di conseguenze: solo nella comunione cristiana possiamo sperimentare la liberazione, cioè l’avvento di un mondo più umano.
L’ultimo libro è «Amar» (ed. Marsilio) di Rossana Rossanda, storica fondatrice del Manifesto e protagonista della stagione del ‘68. È uno dei suoi ultimi scritti, una favola «immaginifica e politica» sulla vita e sulla morte. Nell’introduzione definisce questo libro «un frutto del disagio», del confronto continuo e drammatico che Rossanda ha ingaggiato col mistero della morte nel corso delle diverse fasi della sua vita, sfidando il senso comune secondo il quale «pare che per vivere bisogni dimenticare di morire». Un confronto che ha portato lei, non credente, a interrogare su questo tema i monaci camaldolesi del monastero benedettino di Monte Giove vicino a Fano in provincia di Pesaro, proprio mentre si era trovata a vivere due esperienze private molto dolorose.
La Madonna nell’arte, una vera rivoluzione
di Roberto Benigni
discorso per il conferimento della laurea honoris causa – University of Notre Dame – Roma, 29 gennaio 2024
Non ci posso credere, sono laureato in Belle arti! Ho detto, ma che posso dire all’Università di Notre Dame, per cui veramente ho un’ammirazione, per questa università immensa, e vorrei venire a trovarvi nell’Indiana una volta. Veramente, mi piacerebbe tanto, mi piacerebbe tanto. So che è bellissima. E ho detto: che posso dire ora, sono laureato in Belle arti e all’Università di Notre Dame, Nostra Signora, non ci rimane che parlare della Nostra Signora nelle belle arti, della Madonna. E io vorrei parlarvi veramente della Madonna in tre momenti, perché la Madonna, Notre Dame, è vita, dulcedo et spes nostra.
Ed è una cosa bellissima essere qui, a parlare della Madonna, ma chi se lo sarebbe mai aspettato! È una cosa bellissima! Vi racconto tre cose della Madonna, veramente brevi brevi. Io sono nato in provincia di Arezzo, in Toscana, vicino a Monterchi, ma la mia famiglia veniva da Sansepolcro, il luogo di Piero della Francesca. E allora c’era a Monterchi una sua opera.
La Madonna del parto di Piero della Francesca
Quando mia mamma era incinta, che mi stava aspettando, aveva paura, non aveva da mangiare. Non poteva mangiare niente, era poverissima, ma una povertà, veramente una povertà aristocratica. Non ho mai visto io una principessa come la mia mamma. Così tutta la mia vita nella povertà. Mangiava solamente cocomero, anguria, non aveva nient’altro da mangiare e aveva paura che il parto andasse male. Allora le sue amiche le hanno detto «Vai a pregare a Monterchi», alla chiesa – mi sono scordato il nome! – la Momentana! Nella chiesa di Santa Maria della Momentana c’è una Madonna che fa dei miracoli, ma proprio forte forte forte, ed è la Madonna del parto di Piero della Francesca, niente meno, si fa per dire, a Monterchi. Io poi ho tentato quell’affresco di rubarlo tutta la vita. Sono andato a vederlo, sono svenuto per la bellezza: con il ventre, qui c’è la veste strappata, la mano… e sono andato a vederla spesso io. Il parto è andato bene; fisicamente il parto è andato bene.
Io non so poi, se con quello che è nato, il miracolo è riuscito al cento per cento, però la Madonna le ha fatto fare un parto bellissimo. Quando sono andato a vederla, la cosa incredibile è che su quel volto non c’è niente di regale, è proprio una, diciamo, dolcissima bellezza giovanile… come la mia mamma. È diventata unica e universale quella Madonna lì. È diventata la mia personale Madonna universale.
Non potevo fare a meno di andare a guardarla. Quante volte sono andato a vederla! Le hanno cambiato luogo, ma quella Madonna è rimasta nel mio cuore. È proprio una Madonna talmente umana, talmente umana, che era quasi “atea”, nel senso di Dio – che era talmente umana che non c’è posto per il divino, come se fosse proprio la mia mamma. Uguale identica, la sua faccia, perché Piero della Francesca era di quel luogo e disegnava le donne di quel luogo, e la mia mamma era di quel luogo.
E quindi, io la Madonna del parto l’ho avuta sempre nel mio cuore, è proprio la mia mamma, la mia personale Madonna universale! La seconda Madonna che ho visto, l’ho vista a Roma – una di quelle che sono rimaste nella mia vita – alle Scuderie del Quirinale: è la Madonna dell’Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto: mamma mia, quanto mi è piaciuta anche quella! Perché ho visto per la prima volta la Madonna turbata, la Madonna che ha paura.
Particolare dell’Annunciazione di Recanati
Un quadro memorabile! Ma una cosa, che io sono rimasto! Per dire la rivoluzione che ha fatto la Madonna, diciamo, per le donne nel mondo. Si parla del femminismo, ma la Madonna quello che ha fatto per il femminismo! Il pensiero filosofico non è andato in profondità sulla rivoluzione straordinaria che ha fatto la Madonna, mentre le arti figurative sì. Ecco i quadri sì, sono andati al di là del pensiero filosofico. Voi immaginate questa Madonna, il suo sì, quando ha detto il sì, il fiat, l’eccomi limpido come quello di Abramo. L’Annunciazione ha cambiato il mondo totalmente. Poi con le arti figurative solo donne si rappresentavano, ma quello che ha fatto, alcuni papi, non ricordo il nome di chi ha deciso che dopo che la Madonna aveva detto «Sì, eccomi!» all’Annunciazione, tutte le donne dovevano dire sì al matrimonio, che prima non lo dovevano dire. È un papa di cui non ricordo il nome. Voi mi direte: ma come, ti danno il dottorato, e non ricordi il nome del papa? È da stamattina che ci penso, ma non mi viene in mente. È uno dell’epoca di Gregorio VII, o Leone II, decise che le donne dovevano dire sì. E in quel quadro di Lotto si vede la Madonna – se lo avete in mente, perché è famosissimo – che fa così, quasi che abbia paura… incredibile! Quel sì non è scontato, non è banale. È un sì sofferto, sentito, ci ha pensato.
È come se dicesse «Oh, Signore, proprio a me questa cosa?» – all’Annunciazione – con Dio dietro, con le mani così, congiunte, che sembra che si tuffi su di lei; non vede l’ora di avere quella donna, che gli dica sì. Oppure con le mani quasi rivolto in preghiera che dica il Signore: «Ti prego, dimmi sì!». È un quadro incredibile. Quello con il gatto. Ricordate? C’è anche un elemento ironico, è anche ironico quel quadro. E la Madonna che volta le spalle al Signore e quel sì, dico quel sì che ha rivoluzionato la storia del mondo, di tutti noi, di tutta la nostra vita, ci fa vedere che non è che sia andato a casa di Gioacchino e Anna e abbia detto loro «Guardate, mi hanno fatto questa proposta» – no, ha deciso lei, con sofferenza, e ha deciso per il sì! Una cosa incredibile, il sì della Madonna che ha cambiato il mondo. È un quadro straordinario. E il terzo incontro con la Madonna nelle Belle arti riguarda una volta che ero al festival di Berlino, nella giuria per il cinema, avevo un giorno libero e allora l’ho preso per andare a vedere la Madonna Sistina di Raffaello a Dresda. Quello è stato un momento che non si può descrivere, avevo letto il libro di Vassilij Grossman, ma non si può…
Quando si vede quella Madonna di Raffaello io veramente, dico a tutti voi, è un quadro che quando si arriva lì davanti si ha subito presente una cosa: che siamo immortali, che la vita non finirà mai. Siamo davanti a un’opera – subito si ha quell’impressione – che se anche finisse il mondo, e l’umanità non ci fosse più, andrebbero gli animali, i topi, i cavalli, a vedere questo quadro. È un quadro immenso, incredibile! Io ho avuto un’emozione quando mi avvicinavo. Tra l’altro avevo l’impressione che la Madonna si avvicinasse. Ed è l’unico quadro al mondo che fa questa impressione, che il soggetto del quadro si muove verso di te, col bambino in mano. E ho visto una cosa irripetibile, quello è – credo – l’apice, il punto più alto della storia dell’arte nella storia dell’umanità. È un quadro insuperabile. La faccia della Madonna e del bambino sono serene, invincibili, immortali nella loro serenità.
La Madonna Sistina di Raffaello oggi esposta a Dresda
Una forza prodigiosa e quieta si sprigiona. Proprio la gioia di essere creature vive in questo mondo, non so se ve lo ricordate, ma guardate, è un quadro immenso quel quadro lì! Ed è immortale veramente; loro sono sereni perché sanno che nemmeno la morte vincerà. D’altra parte, il cristianesimo, la religione cristiana è l’unica religione al mondo, diciamo, che si basa sulla risurrezione dei corpi. L’unica. E io sono contento di questo – ci ho sempre creduto – perché ho visto che siccome la nascita è stata una sorpresa, non vedo perché la morte non potrebbe essere una sorpresa ancora più grande. Mi è sempre piaciuta questa cosa. E in questa Madonna Sistina del Raffaello, ho visto questo: proprio il non aver paura nemmeno della morte.
È incredibile la grandezza di questo quadro. E allora mi è venuto in mente che il pensiero davvero non è mai arrivato alla profondità della figura della Madonna a cui sono arrivate le arti figurative; non ci è arrivata la filosofia e ci è arrivata l’arte figurativa e anche la poesia di un altro italiano che è Dante Alighieri, che ha descritto, con la stessa grandezza della Madonna Sistina di Raffaello – sono le due opere insuperabili al mondo sulla Madonna – con quella poesia che è anche una preghiera al tempo stesso, insuperabile, ho avuto la stessa emozione quando l’ho letta di quando ho visto la Madonna Sistina di Raffaello.
E se voi avete pochi secondi di tempo, ve la ripeto, perché non posso farvi vedere questi quadri di cui ho parlato – ma tutti li conoscete – ma vi posso far sentire, con la fortuna di farvelo sentire nella lingua in cui il poeta l’ha scritta, le sette terzine del nostro Dante Alighieri alla Vergine Madre: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/termine fisso d’etterno consiglio,/ tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ’l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore,/ per lo cui caldo ne l’etterna pace/ così è germinato questo fiore./ Qui se’ a noi meridiana face/ di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,/ se’ di speranza fontana vivace./ Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre/sua disianza vuol volar sanz’ali./ La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate/ liberamente al dimandar precorre./ In te misericordia, in te pietate,/ in te magnifi cenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate».
Come e perché si inventa un idolo per la venerazione delle masse
di Antonio Socci – da Libero 20 luglio 2024
Un anno fa sui media italiani si è cominciato a parlare della cantante Taylor Swift che negli Stati Uniti aveva acquisito una straordinaria popolarità. Da noi era dunque famosa per essere famosa (oltreoceano). In Italia – come è stato notato – nessuno conosceva le sue canzoni (poche le eccezioni). Eppure quando – poco dopo è stato annunciato il suo tour europeo è iniziata la “febbre” che poi ha portato migliaia di persone allo stadio milanese di San Siro per ascoltarla. Il caso di Taylor Swift è esemplare e fa capire bene come funziona la macchina del desiderio mimetico, ovvero come si creano i miti (dello spettacolo e non solo) e come si affermano le mode (anche ideologiche). È una questione che non ha a che fare solo con il costume, con le canzoni o con la politica. Ma con la confezione sociale del prodotto, perché quella attrae la natura stessa dell’uomo.
Per capirlo occorre riferirsi all’opera di René Girard (1923- 2015), un pensatore francese che, iniziando dalla critica letteraria, ha elaborato la teoria del desiderio mimetico la quale ha abbracciato poi anche antropologia, sociologia, teologia, psicologia e altre discipline. Girard – Accademico di Francia – ha insegnato perlopiù negli Stati Uniti ed ha avuto un’influenza tale, in quel Paese, da tornare oggi d’attualità come il pensatore di riferimento del designato vice presidente di Donald Trump, James Vance. Una premessa generale per capire il suo pensiero. Tutti gli animali hanno dei bisogni che trovano appagamento qui sulla terra. Solo gli uomini fanno eccezione perché, oltre ad avere bisogni, sono abitati da un desiderio infinito che non ha un oggetto naturale (e che resta sempre insoddisfatto) e – siccome fin da neonati essi scoprono e conoscono la realtà attraverso l’imitazione imitando altri – cercano di individuarlo imitando altri. «Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti» scrive Girard «gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida. Essi non hanno alcun desiderio proprio. Ciò che è proprio del desiderio è di non avere nulla di proprio. Per desiderare veramente, noi dobbiamo ricorrere agli esseri umani che ci circondano, dobbiamo prendere in prestito i loro desideri».
Il “mediatore” può essere anche l’arte: nella storia dantesca di Paolo e Francesca ad accendere il desiderio è il romanzo cavalleresco di Lancillotto e Ginevra (“galeotto fu il libro”). Lo stesso meccanismo è scatenato dai romanzi cavallereschi letti da Don Chisciotte e da quelli romantici letti da Madame Bovary. Però può anche esserci la volontà deliberata di suscitare desideri mimetici. La pubblicità funziona così, come macchina dei desideri. Non pubblicizza un certo prodotto per le sue qualità ma uno stile di vita o un’atmosfera. Cosicché non si desidera quella bibita, ma la vita di altri che la desiderano: “il desiderio” scrive Marco Dotti spiegando il pensiero di Girard «non esiste in sé. Per esistere ha bisogno dell’esistenza dell’altro. O meglio, di un altro che desidera. […] Un oggetto, uno status, un simbolo, una persona sono dunque appetibili solo se un altro, che io assumo come modello, li desidera prima di me, (…) ecco perché il vero oggetto del desiderio non è mai l’oggetto in sé».
I nostri miti (ideologici, idolatrici) nascono dal contagio mimetico, ma sempre deludono il nostro desiderio di felicità che è infinito. Girard aprì la sua prima opera con una frase di Max Scheler: «L’uomo ha o Dio o un idolo».
In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.
Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita».
Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne». È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani.
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.