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Dal Medio Oriente al Donbass dove l’umanità è cancellata

  • Data 5 Ottobre 2024

Lunedì 7 ottobre ricorre il primo anniversario dell’attacco di Hamas a Israele, un atto che ha innescato la nuova guerra che da un anno sta insanguinando il Medio Oriente, dopo quelle, prima in Iraq e poi in Siria, che hanno segnato i primi decenni del secolo. Di questo nuovo conflitto non si intravede la fine e preoccupa adesso il suo allargamento anche al Libano. Di fronte a questa situazione drammatica il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa e poi anche Papa Francesco hanno invitato a dedicare la giornata di lunedì alla preghiera e al digiuno per implorare la pace nel mondo. Un invito che facciamo nostro. A Brescia, in duomo alle 12.45 è previsto un momento di preghiera con il vescovo. Per aiutarci a comprendere quanto sta accadendo in Terra Santa questa settimana segnaliamo l’articolo del professor Vittorio Emanuele Parsi, esperto di relazioni internazionali, pubblicato sul quotidiano Il Foglio, nel quale analizza in particolare i rischi della strategia portata avanti dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Una strategia che, scrive Parsi, «appare tanto ambiziosa quanto pericolosa per la sicurezza di Israele, del Medio Oriente e dell’Europa. È l’eterna illusione che sulla sola e semplice punta delle baionette (come si diceva una volta) possa essere costruito un ordine stabile e duraturo: un progetto che abbiamo visto fallire molte volte nel corso della storia europea». La guerra, se mai lo è stata in passato, oggi non può più essere in alcun modo una risposta accettabile a qualunque controversia o situazione di tensione. Anche quando è stata giustificata da ragioni superiori come l’esportazione della democrazia, per esempio in Iraq o in Libia, ha prodotto solo una catena infinita di disastri. Soprattutto porta alla cancellazione di ogni traccia di umanità. La vita umana non conta più nulla. Ci si può permettere persino di fucilare i prigionieri in spregio a tutte le convenzioni internazionali come è avvenuto nei giorni scorsi a sedici soldati ucraini uccisi nel Donbass, la cui esecuzione a freddo è stata ripresa dall’alto da un drone. Immagini sconvolgenti. Su questo episodio invitiamo a leggere da Avvenire l’articolo di Marina Corradi. Segnaliamo infine un’occasione concreta per aiutare la popolazione del Libano. Martedì 15 ottobre alle 18 a Brescia a Palazzo Martinengo delle Palle (Sala del Camino) in via San Martino 18 si terrà un incontro aperto a tutti sul tema «Libano – Uniti con La Speranza». Saranno proposte riflessioni e testimonianze per la pace in Medio Oriente con un aiuto concreto per la popolazione libanese. L’iniziativa è promossa dall’associazione La Speranza, con il sostegno anche della Fondazione San Benedetto. Interverranno Mario Mauro, già ministro della Difesa, Graziano Tarantini, presidente Fondazione San Benedetto, Amal Baghdadi e Dorian Cara, rispettivamente presidente e vicepresidente de La Speranza odv.   

Elezioni Usa, online il video dell’incontro del 27 settembre

È online a questo link il video dell’incontro promosso dalla Fondazione San Benedetto sulle elezioni americane lo scorso 27 settembre. L’incontro ha visto gli interventi di Marco Bardazzi e di Lorenzo Pregliasco.    


L’illusione di Netanyahu di creare con la forza un ordine stabile

di Vittorio Emanuele Parsi

da Il Foglio – 3 ottobre 2024  

Ristrutturare con la forza l’assetto della regione, transitare da un multilateralismo in salsa mediorientale con prevalenza israeliana a una egemonia fondata sul predominio dello stato ebraico, sostituire l’invulnerabilità israeliana tragicamente affondata il 7 ottobre in una vera e propria onnipotenza, riesumare l’esportazione della democrazia dalla tomba delle pessime idee sepolte nei deserti iracheni e negli altopiani afgani per applicarla all’Iran. So che questo giornale ha idee diverse, ma a mio modo di vedere sono questi gli snodi della strategia di Benjamin Netanyahu, che appare tanto ambiziosa quanto pericolosa per la sicurezza di Israele, del medio oriente e dell’Europa.

A mano a mano che il conflitto scatenato dal terribile pogrom del 7 ottobre continua, in un’ordalia di sangue che ha causato almeno 42 mila morti a Gaza, oltre duemila in Libano e un numero imprecisato nei vari raid dei coloni estremisti (nell’indifferenza dell’esercito e della polizia israeliane) in Cisgiordania – e che si sommano ai circa 1.500 cittadini israeliani uccisi e rapiti in quel tragico giorno – sembra precisarsi la scommessa di Bibi Netanyahu. Cogliere l’occasione offerta da quella strage e dal vuoto di potere negli Stati Uniti per compiere un deciso passo in avanti nel disegnare un medio oriente in cui nessuno possa mettersi di traverso rispetto al progetto della creazione di un “grande Israele”, from the river to the sea, e costruire la sicurezza assoluta dello stato ebraico fondandola sulla forza delle armi.

È l’eterna illusione che sulla sola e semplice punta delle baionette (come si diceva una volta) possa essere costruito un ordine stabile e duraturo: un progetto che abbiamo visto fallire molte volte nel corso della storia europea. Probabilmente, nella testa di Bibi e dei suoi consiglieri, questa dovrebbe essere “la guerra che metterà fine a tutte le guerre”, oltre che ai guai giudiziari del peggior premier della storia di Israele; ma nessuna stabilità può essere raggiunta attraverso la mera annichilazione dei propri oppositori, la delegittimazione delle loro aspettative e dei loro diritti e la loro disumanizzazione. Non parlo, evidentemente, di Hamas, del Jihad islamico o Hezbollah e dei loro leader e accoliti, ma innanzitutto del popolo palestinese, il cui diritto all’indipendenza, internazionalmente riconosciuto da quasi ottant’anni, dal 1967 è stato sistematicamente negato dall’occupazione militare e dalla colonizzazione israeliana.

Ciò che rende pericolosa la strategia israeliana, al di là delle grossolane violazioni dei princìpi del diritto internazionale e umanitario che a mio avviso ci sono (che pure non sono ammennicoli sacrificabili sull’altare del cosiddetto realismo politico), è l’illusione che il passaggio da un assetto di “multilateralismo ponderato” a uno di supremazia assoluta possa essere realizzabile e difendibile. So bene che la situazione in cui Israele storicamente si trova in medio oriente è estremamente complessa, che per molti decenni (ma non più ora) molti attori della regione ne hanno contestato il diritto all’esistenza, mentre formazioni politiche dal carattere terroristico hanno continuato a cercare di affermare con ricorrenti assalti questa visione. Ma non posso non constatare che il fallimento, direi proprio il sabotaggio sistematico, degli accordi di Oslo e della strada verso la creazione effettiva di un’entità statale palestinese sovrana è stato ricorrente nella pratica dei governi israeliani e massimizzata da Netanyahu. La stessa trama degli accordi di Abramo, che vorrebbero portare a un sistema regionale tra il Golfo e il Levante nel quale i sauditi e le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo costituiscano i pilastri di un ordine pacifico e di sviluppo che comprenda Israele, lascia concretamente nel limbo il tema della Palestina. E anche contro questo aspetto, Hamas ha scatenato il suo attacco bestiale il 7 ottobre.

La rappresaglia che Israele ha scatenato contro Gaza sembra voler fornire la cornice di sicurezza all’interno della quale fissare quegli accordi, eliminando per sempre la prospettiva della sovranità palestinese all’interno dei confini del 1967, gli unici internazionalmente validi e riconosciuti. E in questo contesto si colloca il deliberato tentativo di allargare il conflitto al Libano, per attirarvi l’Iran – grande protettore di Hezbollah – e chiudere una volta per tutti i conti con un regime – quello degli ayatollah – che predica esplicitamente la distruzione di Israele e che per decenni ha provato a costituire una minaccia esistenziale anche per i regimi delle monarchie sunnite del Golfo: in effetti con scarsi risultati.

Evidentemente, non si può applicare a un paese grande e popoloso come l’Iran la ricetta di spostamento forzoso della popolazione che porzioni consistenti della maggioranza e del governo di Netanyahu perseguono, di qui l’idea di provocare, attraverso un duro colpo militare, il crollo della Repubblica islamica, ovvero un regime change, di cui l’appello dell’altra sera di Netanyahu “ai persiani” forniva una prima narrazione. Ora, se i cittadini iraniani chiedessero ai libanesi cristiano-maroniti (non agli sciiti), quanto si possa fare affidamento sulle promesse israeliane potrebbero farsi due conti. Nel 1982, una volta finito il lavoro sporco di liquidare la presenza militare dell’Olp in Libano e di mandare il terribile ammonimento dei massacri di Sabra e Chatila, i maroniti vennero abbandonati a loro stessi e il presidente eletto Bachir Gemayel morì in un attentato, della cui responsabilità tanto le formazioni musulmane quanto gli israeliani restano i principali sospetti.

Ma la cosa più incredibile è come facciano gli israeliani a pensare di poter riesumare e portare al successo una strategia – quella dell’esportazione militare della democrazia – che è risultata fallimentare per l’America di George W. Bush del 2001 e del 2003 (anche qui so che questo giornale ha idee diverse), oltretutto in uno scenario internazionale incredibilmente più favorevole di quello attuale: erano gli anni dell’unipolarismo americano, nel quale nessuno poteva opporsi a Washington e dove, soprattutto, nessuno era in grado di sfruttarne i possibili errori né di proporre modelli di ordine alternativi a quello liberale. E oltre tutto, l’America come paladino della libertà era, persino in medio oriente, decisamente più credibile di quanto non possa esserlo Israele. Anche quell’America, che si era scoperta vulnerabile a un vile attacco terroristico, si illuse di sostituire la perduta invulnerabilità con una nuova onnipotenza. Sappiamo tutti come è andata finire.

Al di là delle per nulla trascurabili questioni di principio, dunque, che per le democrazie costituiscono temi vitali per il proprio futuro, credo che sia la velleitarietà della strategia israeliana a renderla estremante pericolosa. La sola via per disinnescare la situazione passa da quella tregua immediata a Gaza, in cambio della liberazione degli ostaggi superstiti, che fornirebbe anche a tutti gli attori di questo tremendo conflitto la possibilità di muoversi verso una de-escalation. Si tratta della proposta francoamericana, che Netanyahu aveva fatto mostra di accettare mentre volava verso New York e in realtà programmava l’omicidio di Nasrallah. Ed è in questa direzione che andrebbero esercitate le pressioni alla moderazione sulle autorità israeliane, invece di lanciare generici appelli alla pace e alla deescalation.


Se la guerra vista dal drone mostra uomini schiacciati come formiche

di Marina Corradi

da Avvenire – 3 ottobre 2024

Un drone vola alto sopra ai fumi di una battaglia, nel Donbass. Sotto, c’è una boscaglia confusa nella nebbia dei colpi di cannone. Dalla nebbia spuntano, su una sterrata, dei puntini bianchi piccoli come formiche. Alcuni puntini ne afferrano a forza altri, li mettono in fila. Tutti in fila: sedici puntini. Poi, fuoco. I puntini ora sono riversi a terra, immobili. Tranne un paio, che ancora si contorcono. Un colpo di grazia li finisce, si vede il fumo dalla canna. (a questo link si può vedere il video)

Quei 16 puntini erano uomini, soldati ucraini che vicino al villaggio di Mykolaivka, nel Donetsk, si erano arresi ai russi. Fucilati sul campo. Una delle più gravi violazioni del diritto internazionale operate in Ucraina dai russi, secondo Kiev. Ma il diritto internazionale non è granché tenuto in considerazione, in questa guerra feroce. Ci sarà un tribunale, ci sarà un giudice per questi crimini? Chissà. I tribunali, li fanno i vincitori. Resta il fatto che quei 16 puntini erano uomini. Molto giovani probabilmente, perché Kiev sta mandando al fronte, nella carenza di soldati, le leve più giovani. Male addestrati, mandati allo sbaraglio. Alcuni presi a forza nelle città, e spediti al fronte.

Da lì, non pochi cercano di scappare. Ragazzi di diciotto o vent’anni: mai saputo cos’è una guerra, nessuna memoria di quando l’Ucraina era Urss. Non sanno perché dovrebbero combattere, non sanno tenere in mano un mitra. Tra quei sedici, quanti erano appena ragazzi? Li hanno messi in fila, loro sono rimasti immobili, sgomenti. Appena il tempo di pensare alla madre, di balbettare un’ultima quasi dimenticata preghiera: quanto disperatamente non si vuole morire, a vent’anni. Già arresi, le braccia alzate e inermi: annientati in un secondo. Il drone ronzava alto, e da lassù quei puntini minuscoli paiono tutti uguali. Offende quasi, la ripresa dal cielo che racconta gli uomini eguali, insignificanti come insetti.

Insetti. Appena chiudo il video, dalla memoria risale un ricordo lontano. Giocavo da bambina in giardino in montagna e, inginocchiata per terra, osservavo con stupore e rispetto una fila di formiche operose. Un ragazzino arriva accanto a me e prende a schiacciarle con le scarpe. “Ma perché?” gli ho chiesto, arrabbiata. “Che te ne importa, non vedi come sono piccole?” Alcune formiche si contorcevano negli spasmi. Sono passati quasi sessant’anni e le vedo ancora, sulla ghiaia bianca del cortile. Anche due di quei puntini nel Donetsk si contorcevano così.

Mai avrei pensato, una vita dopo, di ritrovarmi davanti qualcosa di analogo, ma con uomini al posto delle formiche. L’occhio alto e imperturbabile dei droni ci racconta a volte la vita, e la morte, in un modo che spaventa. Come nello sguardo di un angelo d’acciaio, algido e indifferente. Muoiono? Che importa, da lassù paiono insetti. Se il web ci mostra la guerra in questo modo, dobbiamo imparare e insegnarci a tradurre quelle immagini in termini umani. A saper riconoscere in ogni puntino un uomo, e la sua angoscia. Mentre, a casa, sua madre, ignara, prega e aspetta.

Non tornerà, non torneranno. Forse nemmeno i loro corpi verranno restituiti. Quei corpi formatisi lentamente, per nove mesi, nel ventre di una donna: attesi, sognati, dati alla luce, abbracciati. E poi, il video lo prova chiaramente, quanto poco basta, per annichilirli: un colpo di pistola. Tutto, visto dal drone, è così insignificante e lontano: formiche. Dobbiamo insegnare ai figli a vedere davvero queste immagini. E ricordarci che ciascun punto in un video sfocato, traballante, annebbiato di fumi di cannoni, è un figlio. Uguale ai nostri. Quindi amato, unico, irripetibile.

Tag:guerra, Hamas, Iran, Israele, Libano, Netanyahu, Ucraina

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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