I venti della guerra e dell’odio soffiano sempre più forti. Di fronte a una guerra «che sembra non avere fine, e che sta seminando morte e distruzione, non solo nelle strutture fisiche, ma anche nella vita delle persone, nelle relazioni a ogni livello», c’è la necessità «di non perdere la nostra umanità». Lo ha scritto il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa all’indomani della commemorazione del 7 ottobre. Noi, nel nostro piccolo, vogliamo farlo questa settimana proponendovi, attraverso la lettura di due articoli, le storie di due persone che hanno affermato con il loro esserci un amore per la vita più forte della morte e della volontà di ridurre tutto a nulla, anche dentro situazioni molto drammatiche. La prima è la storia di Sammy Basso che ha colpito tutti non per la sua malattia, ma per come ha saputo stare di fronte a questa vivendo fino in fondo. Ne è una prova la sua straordinaria lettera-testamento, letta venerdì durante il funerale che trovate a questo link. Come scrive Federico Pichetto nell’articolo pubblicato dal quotidiano online ilsussidiario.net, la sua esistenza per Sammy non è stata «una via angusta che il tempo priva d’ogni gioia e d’ogni possibilità, bensì come il luogo di una festa». Una positività contagiosa che investe tutto come ha detto la madre di Sammy in un’intervista al Corriere: «Dai suoi 14 anni abbiamo vissuto con lui ringraziando ogni giorno. Ci svegliavamo al mattino dicendo: “Che bello che sia qui anche oggi”».
Oskar Schindler
La seconda storia che vi segnaliamo è quella di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco scomparso il 9 ottobre di cinquant’anni fa, che salvò più di mille ebrei dallo sterminio della Shoah, e la cui vicenda è stata raccontata da un celebre film di Steven Spielberg.
In un articolo sull’Osservatore Romano il direttore Andrea Monda scrive: «Fu un grande, grandissimo imprenditore. Si pose davanti il dilemma che il filosofo danese Kierkegaard ha posto di fronte ad ogni uomo quando ha scritto che “osare è perdere momentaneamente l’equilibrio. Non osare è perdere per sempre se stessi”, e seppe rispondere. Forse i grandi della storia devono essere “squilibrati”. Solo così Oskar riuscì a dare un colpo all’asse terrestre che ruotava pigramente sempre su se stesso re-indirizzandolo verso un altro orizzonte, più umano». La sua storia è la dimostrazione concreta che la nostra felicità, che il compimento di ciascuno, non dipendono dagli Stati o da chi ci governa anche quando possono essere di nostro gradimento.
Una Speranza per il Libano, martedì incontro a Brescia
Invitiamo tutti a partecipare martedì 15 ottobre alle 18 a Brescia a Palazzo Martinengo delle Palle (Sala del Camino) in via San Martino 18 all’incontro sul tema «Libano – Uniti con La Speranza». Saranno proposte riflessioni e testimonianze per la pace in Medio Oriente con un aiuto concreto per la popolazione libanese. L’iniziativa è promossa dall’associazione La Speranza, con il sostegno anche della Fondazione San Benedetto. Interverranno Mario Mauro, già ministro della Difesa, Graziano Tarantini, presidente Fondazione San Benedetto, Amal Baghdadi e Dorian Cara, rispettivamente presidente e vicepresidente de La Speranza odv, e Michele Brescianini, direttore Fondazione Punto Missione Ets. Di fronte alla pesantissima situazione umanitaria del Libano che si è aggravata nelle ultime settimane, l’associazione ha lanciato una raccolta fondi. Queste le coordinate per le donazioni: iban IT79X0501811200000017230673 – ETICIT22XXX (Banca Popolare Etica – Filiale di Brescia). Sulle donazioni è possibile beneficiare di detrazioni del 35% per i privati e del 10% per enti e società.
Quando la vita è vissuta come un regalo del Mistero
È morto a 28 anni Sammy Basso, affetto da una malattia rara, la progeria (invecchiamento precoce). Due lauree, ha vissuto la vita fino in fondo
Ha suscitato profonda commozionela morte di Sammy Basso, ventottenne vicentino affetto da progeria, malattia genetica che provoca un invecchiamento precoce del corpo. Ne era il malato più longevo del mondo. Come lui, soltanto un altro centinaio di persone sul pianeta ne sono affette. Eppure, quello spazio di esistenza – agli occhi di tutti troppo piccolo e ingiusto – per lui era diventato il luogo del bene e della felicità. Aveva lottato per laurearsi per ben due volte all’Università di Padova e conseguire quel titolo di biologo molecolare che gli dava la possibilità di lavorare attivamente alla ricerca sulla propria malattia. Aveva poi fondato un’associazione affinché gli esiti del suo lavoro non si disperdessero con la propria morte. Si era battuto come un leone per la diffusione dei defibrillatori nei luoghi pubblici, sapendo che la morte – per tanti – fa capolino all’improvviso e chiede di essere intercettata. Era diventato un personaggio pubblico, amato da politici, cantanti, intellettuali, per quella sua forza e il suo coraggio che guardava sempre all’altro e al futuro. Confessava spesso e pubblicamente la propria fede, commuovendosi parlando di un Dio così grande che aveva dato tanto amore e tanta bellezza ad uno come lui, destinato ad un’inesorabile fine.
In tanti si sono chiesti quale fosse il segretodella sua positività, della sua capacità di progettare sempre e comunque, ben sapendo che ogni giorno per lui era davvero un regalo. Adesso che l’alito della vita mortale lo ha abbandonato, appare chiaro come Sammy Basso abbia indicato a tutti che il motore della vita è paradossalmente la morte, quel contatto col mistero della nostra finitudine, con la realtà di un sentiero inevitabile che rende tutti compagni di strada di Sammy. Anche noi ogni giorno possiamo morire, anche per noi ogni istante è un dono, anche noi siamo appesi a un filo e non sappiamo nulla di quel che sarà.
Il suo essere costretto a non pensarsi eterno gli ha donato il presente, lo ha trasformato nell’unico testimone che interessa al cuore dell’uomo: il contatto con qualcuno che indichi l’ambito dell’esistere non come una via angusta che il tempo priva d’ogni gioia e d’ogni possibilità, bensì come il luogo di una festa: Sammy è apparso a tutti, anche in quel Sanremo di qualche anno fa in cui l’Italia lo conobbe, come l’invitato d’onore al banchetto del mistero della vita. Pensare a lui, a quei tratti così lontani dai canoni di bellezza che oggi descrivono le persone che dalla società sono presentate come realizzate e perfette, fa tornare alla mente quel Dorian Gray dal corpo perfetto il cui vero volto – in realtà – veniva corrotto giorno per giorno dalla dissipazione del cuore.
Sammy era bello, spettacolo ai genitori e agli amici,curioso e vivace del presente, appassionato a quel cammino che gli era stato donato. “Ci ha insegnato che vale sempre la pena di vivere con pienezza”, hanno detto i suoi genitori. Come sarebbe bello avere la progeria se fosse la progeria a donare quel gusto di vita! Come sarebbe desiderabile! E invece è la percezione del Mistero, dell’essere fatti da un Altro che è presente ora, a infondere nello sguardo di chiunque tenerezza e gratitudine.
Che compagno di viaggio che è stato Sammy Basso!E chi non lo ha conosciuto può ancora cercarlo, leggerne gli scritti, ascoltarne i discorsi. Sapendo che non è il nulla il destino delle anime come le sue, ma la gioia che avvolge gli uomini liberi. Dal primo istante del loro concepimento all’ultimo passo della loro decrepita vecchiaia.
Cinquant’anni fa moriva Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco che salvò più di 1.000 ebrei dallo sterminio della Shoah. Nel mondo di oggi, dilaniato dalle guerre e dalle violenze, questa ricorrenza appare come un segnale luminoso di speranza.
Schindler ha fatto il suo dovere: era un imprenditore e, come recita ogni manuale di diritto privato, le due caratteristiche che costituiscono questa figura giuridica e sociale sono l’iniziativa e il rischio. Da questo punto di vista fu un grande, grandissimo imprenditore. Si pose davanti il dilemma che il filosofo danese Kierkegaard ha posto di fronte ad ogni uomo quando ha scritto che «osare è perdere momentaneamente l’equilibrio. Non osare è perdere per sempre se stessi», e seppe rispondere.
Forse i grandi della storia devono essere “squilibrati”. Solo così Oskar riuscì a dare un colpo all’asse terrestre che ruotava pigramente sempre su se stesso re-indirizzandolo verso un altro orizzonte, più umano.
Il magnifico film di Spielberg ha illuminato questa storia e ciò ha avuto senz’altro effetti positivi, perché soprattutto oggi — con l’asse del mondo che sembra essersi risistemato cocciutamente su quel vecchio, solito, movimento stritolatore di tutto ciò che è vivo, buono, umano — abbiamo bisogno di storie belle, ricche di carità e di speranza. Ed è consolante pensare che il mondo è pieno di storie di bene che rimangono nascoste, come quella di Schindler prima che un film la raccontasse.
Il 27 marzo 2020, durante la Statio Orbis in piazza San Pietro, Francesco ricordò che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni — solitamente dimenticate — che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia».
Nella sua Meditazione sulla Chiesa Henri De Lubacparlava di quei cristiani la cui «vita è nascosta agli occhi del mondo […] Eppure sono proprio loro che contribuiscono, più di tutti gli altri, ad impedire che la nostra terra sia un inferno […] che conservano in noi, che ci ridonano, qualche speranza.». È la stessa intuizione che spinge lo scrittore inglese Tolkien, negli stessi anni bui in cui Schindler osava salvare vite rischiando la propria, a scrivere al figlio: «Ciò che è veramente importante è sempre nascosto ai contemporanei, e i semi di ciò che deve essere germogliano tranquillamente nel buio in qualche angolo dimenticato, mentre tutti guardano Stalin o Hitler. Nessun uomo può sapere ciò che sta accadendo realmente sub specie aeternitatis. Tutto ciò che sappiamo, e in gran parte per esperienza diretta, è che il male lavora con grande potenza e continuo successo — ma invano: prepara sempre e solo il terreno per il germogliare di un bene inaspettato».
Il germoglio di Schindler è stato più forte del Male perché come ha scritto il teologo, ora cardinale eletto, Timothy Radcliffe, «il mistero del male è grande, ma il mistero del bene è ancora più grande».
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.
È un tema scomodo quello che affronta Susanna Tamaro nel suo ultimo libro «La via del cuore». Parla della nostra trasformazione, della crisi della nostra umanità, di un processo in atto che ci riguarda nel profondo. Nella newsletter di questa settimana vi segnaliamo la lettura dell’articolo che la stessa Tamaro ha scritto per il Corriere della Sera in occasione dell’uscita del libro. Cita Romano Guardini che più di sessant’anni fa parlava di un «potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male». È quanto sta avvenendo oggi in modo accelerato con «l’irrompere nella nostra vita dello smartphone e dei social», con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini. «Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità – scrive Susanna Tamaro -, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego». Siamo immersi in un «lunapark di distrazioni» che al fondo è segnato da un «odio per la vita» che non è più «un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi». La postura dell’uomo contemporaneo, come sosteneva Hannah Arendt, diventa così il risentimento. Eppure si può invertire la rotta. «Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra – conclude Tamaro – e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura (la via del bene e la via del male) e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male».