Le elezioni americane, con la polarizzazione mai vista prima, sintomo di un paese spaccato, al di là del risultato che martedì uscirà dalle urne, sono lo specchio della crisi che le società occidentali e i sistemi democratici stanno attraversando. Siamo alla fine di un mondo? Su questo tema segnaliamo il commento, pubblicato dal sito inglese di opinione UnHerd e ripreso dal Foglio, di David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore statunitense, oltre che Premio Pulitzer per i suoi lavori teatrali. Figlio di una famiglia di genitori ebrei originari della Russia, Mamet ha sviluppato una «forma di insofferenza viscerale verso il perbenismo della cultura dominante». Per lui «oggi, non stiamo semplicemente assistendo, ma partecipando a uno spostamento di civiltà». C’è il rischio che al nostro mondo accada come al «viaggiatore verso una civiltà scomparsa da tempo che guarda, senza comprendere, le rovine della Cattedrale di San Paolo». Le considerazioni di Mamet sono volutamente provocatorie, ma portano allo scoperto le comode ipocrisie dietro cui spesso ci si trincera addossando le responsabilità a qualche capro espiatorio, a «una causa sopportabile nelle vicinanze».
Tra vita e morte, il 15 novembre a Brescia incontro con Violante e Carrón
Venerdì 15 novembre alle 18.15, a Brescia al Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30, la Fondazione San Benedetto promuove un incontro sul tema «Tra vita e morte la vera battaglia». Interverranno Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei deputati, e Julián Carrón, docente di teologia all’Università Cattolica di Milano.
Luciano Violante
L’occasione è data dalla recente uscita del libro dello stesso Violante «Ma io ti ho sempre salvato» (ed. Bollati Boringhieri). Nel libro viene messa la questione del rapporto con la morte, partendo dall’esperienza autobiografica dell’autore. Nei momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando, è necessario porsi le domande cruciali del convivere civile, imporci di tornare ai fondamentali. Quando la tenuta stessa della società civile sembra essere messa in discussione conviene fermarsi e domandarci quale sia il collante che ci tiene uniti, quale il criterio che sopra ogni altro può farci restare umani.
La partecipazione è aperta a tutti, sino a esaurimento posti, previa registrazione a questo link dove è possibile iscriversi immediatamente.
«Oggi, non stiamo semplicemente assistendo, ma partecipando a uno spostamento di civiltà»
«Nel 1968, il film “Il pianeta delle scimmie”si concluse con l’allora sconvolgente inquadratura di una Statua della Libertà semisommersa, che rivelava che il futuro mondo distopico non era altro che il nostro». Così scrive su Unherd David Mamet, premio Pulitzer con una solida carriera di sceneggiatore hollywoodiano (“Gli intoccabili” di Brian De Palma e “Hoffa” di Danny Devito), personalità trascinante che, altalenando tra Broadway e Hollywood, ha conquistato una fama mondiale. Mamet era stato ritenuto dall’intellighenzia di sinistra uno dei “suoi”, per via di celebri lavori teatrali come “American Buffalo” e “Glengarry Glen Ross” (in Italia “Americani”), coronamento di una straordinaria carriera teatrale. Fino alla “conversione” di Mamet a una forma di insofferenza viscerale verso il perbenismo della cultura dominante.
«La rivelazione fa parte della coscienza occidentale da parecchio tempo»continua Mamet. «La Bibbia avverte continuamente che se la Terra non ha i suoi Sabbath, il Signore li imporrà. È un elemento fisso della coscienza occidentale che un giorno l’occidente, come ogni altra civiltà, morirà. Ogni lettore vittoriano ha compreso le allusioni al Neozelandese, una figura retorica nel saggio del 1840 di Thomas B. Macaulay, un viaggiatore verso una civiltà scomparsa da tempo che guarda, senza comprendere, le rovine della Cattedrale di San Paolo. Più o meno nello stesso periodo, Karl Marx credeva che il capitalismo fosse una fase necessaria di decadenza, da cui sarebbe potuto nascere il comunismo. Vediamo la sua previsione rivelarsi corretta: in Russia, Cina, Cuba, Venezuela e, ora, negli Stati Uniti. Ma la sua visione era di decadenza nella perfezione; piuttosto che nel caos, nella ferocia e nella dissoluzione. Marx si è fermato troppo presto nella sua equazione. Perché se la forza era necessaria per sostituire il capitalismo con il comunismo, sarebbe stato necessario garantirne la continuazione. Lo zar Nicola fu sostituito da Stalin e Batista da Castro; il Re filosofo non era sulle schede perché non c’erano schede. Il popolo fu “salvato” attraverso l’imposizione di una forza, non meno necessaria dopo la sua salvezza non convinta.
In “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, i pompieri del futuro esistono per appiccare il fuoco ai libri, la cui lettura o possesso è un crimine. I libri sono, oggi, censurati e banditi da forze distruttive e, presto, questi inizieranno a bruciarli, come, oggi, bruciano le bandiere. La gioia della loro rabbia autorizzata è aumentata dalla loro unità con uno Zeitgeist, o spirito del tempo. Potremmo intenderlo come una moda specifica di un’epoca che si ripete ciclicamente. Ma, da una prospettiva più lontana, lo Zeitgeist può essere visto come una progressione. Qui, tuttavia, il quid della politica o della moda appare come il risultato della ragione umana, e la civiltà, essendo un organismo, evolve verso la propria morte e dissoluzione. Un giorno non ci saremo più e i monumenti che abbiamo costruito faranno tutt’uno con quelli che abbiamo profanato. Anche quei libri che potrebbero rimanere condivideranno alla fine il destino dei piccoli telefoni di plastica. Come dobbiamo comportarci mentre siamo qui? Non c’è da stupirsi che il nostro manuale operativo, o guida rapida, la Bibbia, sia denigrato dagli anarchici e liquidato come assurdo dagli intellettuali. Sono entrambi nella stessa squadra, inconsciamente al servizio dell’accelerazione. Walter Scott scrisse che la spada si consuma più del fodero, come il cuore si consuma più del petto, e tutto ciò che vive deve respirare e l’amore stesso deve riposare; e il nostro contemporaneo Tom Ropelewski ha concluso in modo simile il suo film del 1990 “Madhouse” (in Italia “Roba da matti”, ndt), con “dopo la guerra nucleare, rimarranno solo due cose, scarafaggi e ospiti” di Kirstie Alley.
Un quarto di secolo dopo, Seattle distribuisce droghe pesanti gratuitamente, a chiunque ne faccia richiesta. New York importa immigrati clandestini e li ospita in hotel, e il governatore della California vuole pagare “sussidi di disoccupazione” agli immigrati clandestini. Le generazioni future diranno che siamo stati tanto sciocchi e, a tratti, fortunati quanto qualsiasi altra civiltà perduta: saremo considerati come un tutt’uno non solo con Ninive e Tiro, ma anche con i cacciatori-raccoglitori del Pacifico nord-occidentale, che fanno del loro meglio mentre combattono non solo con la natura e le depredazioni, ma anche con la nostra stessa natura. La nostra follia millenaristica sarà considerata più selvaggia del massacro annuale di 20.000 vittime da parte degli Aztechi; la nostra economia più assurda della distruzione del surplus da parte degli Haida attraverso le immolazioni del Potlach? La nostra mutilazione genitale dei bambini sarà considerata meno selvaggia delle clitoridectomie dell’islam o della subincisione delle tribù africane?
La feroce proclamazione della sinistra del primato dell’aborto, del transessualismo e della non procreazione è la preghiera propiziatoria: “Rinuncerò al mio diritto alla prole: ma risparmiatemi”. La loro preghiera è il riconoscimento che qualcosa è terribilmente sbagliato. Le persone in uno stato di panico (in contrapposizione alla semplice “paura”) cercheranno una causa sopportabile nelle vicinanze. Per gli israeliani di sinistra, non è la ferocia dell’Iran e la riscoperta dell’odio per gli ebrei da parte del mondo, è Netanyahu; per il liberale americano, non è il decadimento delle città, ma Trump. Per il mondo in generale, sono gli ebrei. Il bambino abusato si schiera sempre con l’abusato contro il genitore passivo, poiché il genitore passivo ha dimostrato di essere troppo debole o non disposto a offrire protezione al bambino. La civiltà morente, come l’individuo morente, mostrerà sintomi coerenti con quelli dei suoi predecessori in declino.
Machiavelli scrive che la cura di una malattia nelle sue fasi preliminari sarebbe semplice se si potesse fare una diagnosi corretta; ma quando la malattia progredisce abbastanza da essersi “dichiarata”, la cura è difficile. Chicken Little (il polletto del film “Amici per la pelle”, ndt) urlò: “Il cielo sta cadendo, correte per salvarvi la vita!”. Tutti i bambini delle scuole si deliziarono dell’idiozia della sua affermazione, ispirata da una pigna che gli è caduta sulla testa; un apprezzamento più adulto è che, se in effetti stesse cadendo, non avrebbe senso fuggire. Oggi, non stiamo semplicemente assistendo, ma partecipando a uno spostamento di civiltà. Siamo troppo vicini per capirlo facilmente, salvo come interazione di forze comprensibili: Sinistra contro Destra; Islam contro Cristianesimo; Comunismo contro Capitalismo. Le alleanze e gli entusiasmi che ne conseguono saranno tanto sconcertanti per gli studiosi del futuro quanto le guerre intestine del cristianesimo su questioni di dottrina.
Qual è la “cura” per il declino della nostra civiltà? Non esiste una “cura”, perché è una progressione organica. Non possiamo tornare alla sana classe operaia sindacalizzata dell’industria americana degli anni Cinquanta più di quanto possiamo tornare alle tecniche di coltivazione taglia e brucia degli aborigeni australiani. Potremmo fare pronostici più chiari dopo le prossime elezioni, in cui i conservatori propongono un ritorno alla prosperità e alla pace, e i liberal alla “gioia”. L’occidente morirà a un certo punto, ma non deve farlo il 5 novembre. Potrebbe persino continuare in una forma rivista ma operabile e riconoscibile, in una nuova dedizione alla Costituzione e all’etica giudaico-cristiana che la ispira».
«Quando le persone smettono di leggere – di dare un senso al testo su una pagina – perdono anche la capacità di dare un senso al mondo. In gioco c’è nientemeno che il destino dell’umanità, data l’intima connessione tra la parola scritta e la civiltà stessa». Lo scrive l’economista e saggista britannico Niall Ferguson in un articolo pubblicato il 16 novembre sul quotidiano inglese The Times di cui vi invitiamo a leggere una sintesi sul nostro sito. Un intervento che segue di qualche giorno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel quale veniva evidenziato «il progressivo abbandono della lettura», in questo caso riferito al nostro paese. «Qui ne va davvero dell’avvenire del Paese – scriveva -, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno». Il 22 novembre è stato invece Papa Leone a richiamare l’importanza della lettura «oggi più che mai». Leggere aiuta ad «unire mente, cuore e mani».
Apparentemente il crollo della lettura può risultare un dato del tutto secondario rispetto ad altri problemi più impellenti, in realtà rappresenta una regressione pericolosa che mina la stessa libertà delle persone come segnala Ferguson. Nel nostro piccolo ci sembra interessante l’esperienza fatta in questi anni come Fondazione San Benedetto, soprattutto attraverso il Mese Letterario ma anche con la nostra newsletter domenicale, nel far appassionare alla lettura di grandi autori come di articoli dalla stampa o di testi significativi. Per molti è stato anche un percorso di riaffezione «per contagio» all’esperienza della lettura. Una strada sulla quale intendiamo continuare.
Vivere dando tutto per scontato o farsi sorprendere dalla realtà? Un’alternativa davanti alla quale siamo continuamente posti e chiamati a misurarci. Lo racconta in un interessante articolo che vi invitiamo a leggere, pubblicato sul Corriere della Sera, Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, che parla dell’esperienza fatta in classe all’inizio di una mattinata scolastica facendo ascoltare La primavera di Antonio Vivaldi. È stato «fare esperienza della gratuità – scrive -, cioè sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi». Sorprendersi è questo, non è uno shock emotivo per evadere dalla cosiddetta normalità della vita. «Solo l’esperienza della vita data “gratis” e non “per scontata” (che infatti è diventato sinonimo di: “non mi sorprende più”) – continua D’Avenia – provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono». Dare per scontato impedisce di «ricevere l’istante come un dono» e quindi di vedere la realtà per quello che veramente è introducendovi un principio di novità che trasforma la vita.
In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.
Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita».
Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne». È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani.