«Della morte è fastidioso parlare perché non abbiamo un rapporto serio con la vita». Lo ha detto Luciano Violante nell’incontro promosso venerdì sera a Brescia dalla Fondazione San Benedetto per presentare il libro dell’ex presidente della Camera «Ma io ti ho sempre salvato». L’aula magna del Centro Paolo VI era gremita di pubblico e una seconda sala era videocollegata.
L’aula magna del Centro Paolo VI durante l’incontro
Violante ha risposto ad alcune domande arrivate da persone che hanno letto il suo libro, insieme a don Julián Carrón, docente di teologia alla Cattolica di Milano. È stato un confronto molto intenso, impossibile da riassumere in poche righe; nei prossimi giorni sarà possibile riascoltarlo nel video dell’incontro che metteremo a disposizione online sul sito della fondazione. Qui richiamiamo solo alcuni piccoli flash dagli interventi.
Molto numeroso il pubblico presente
Nel libro viene messo a tema il nostro rapporto con la morte non in modo astratto o filosofico, ma partendo dall’esperienza personale dell’autoreche mentre lo stava scrivendo ha dovuto affrontare la scomparsa della moglie dopo 56 anni di matrimonio. Per Violante oggi c’è una sorta di assuefazione alla morte. «Assistiamo alle guerre in televisione come se fossero un videogame, tra una notizia e l’altra. Il loro ripetersi ci ha fatto acquisire un sentimento di insensibile convivenza. È come se i meccanismi tecnici tendessero a prevalere dentro di noi. C’è una “cosizzazione” delle persone, persone ridotte a cose e non c’è reazione su questo. Mi pare di assistere a una sofferenza senza misericordia». Per Carrón è il momento di tornare ai fondamentali «per rispondere all’indebolimento della persona. L’Illuminismo ci ha lasciato in eredità una razionalità ridotta a ragione strumentale. Davanti a una tragedia come quella di Valencia ci rendiamo conto che la vita urge. Se ciò che accade non diventa occasione per tornare a farsi domande, per crescere, per aumentare la nostra consistenza umana, ne usciremo ogni volta più indeboliti. Eliotsi chiedeva dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo. Non basterà neppure la conoscenza».
Julian Carron, Graziano Tarantini e Luciano Violante
La vita, sottolinea Violante, «è una lotta tra il bene e il male. Dobbiamo dare una mano a nostro Signore per cercare di far prevalere il bene. Oggi è diffusa un’idea di libertà che consiste nel possedere determinate cose. Ma è questa la libertà che Dio ci ha lasciato? Occorre rendersi conto che ci sono molte realtà che vanno oltre ciò che noi pensiamo di controllare. Ci vuole quell’umiltà che un illuminismo onnivalente ha messo in ombra. La morte è fine o transito? Non so, vivo come se questa vita servisse a qualcosa. Sento parlare molto di dignità della morte, ma non di dignità della vita. Invece occorre combattere per valorizzare la vita. Per usare un’espressione della mia formazione comunista, è una lotta, come radicamento di valori, ma questa posizione ci consente di guardare la morte a occhi aperti». Per Carrón «se non si risponde al vuoto che è dentro di noi con ciò che è indispensabile ci manca la ragione del vivere. Tutto è troppo poco per quanto desidera l’uomo. E la libertà di ciascuno si realizza solo quando trova soddisfazione a tale desiderio. Gesù dice: “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. In un mondo multiculturale come il nostro dove non si può imporre nulla, possiamo solo far risplendere, far brillare la vita».
Nella nostra newsletter di questa settimana vi segnaliamo anche un articolo pubblicato nei giorni scorsi sull’Osservatore Romano dedicato alla figura di Augusto Del Noce, «filosofo fuori squadra e profeta inascoltato». A 35 anni dalla sua scomparsa è un’occasione per riscoprire un pensatore che ha molto da dire all’Italia contemporanea. Nel novembre 1989, poche settimane prima di morire, scriveva: «La nuova società sarà caratterizzata da un’assolutizzazione dell’economico, che assorbirà ogni altro valore. Sarà la fine della lotta tra le concezioni del mondo e anzi nella nuova società si avrà la loro scomparsa. Se il marxismo, che si presentava come l’acme della modernità, ha concluso nel totalitarismo, il post moderno occidentalista ha il destino di cadere nel suo opposto, nell’alimento del sentimento del nulla».
«La nuova società sarà caratterizzata da un’assolutizzazione dell’economico, che assorbirà ogni altro valore. Sarà la fine della lotta tra le concezioni del mondo e anzi nella nuova società si avrà la loro scomparsa (…) Se il marxismo, che si presentava come l’acme della modernità, ha concluso nel totalitarismo, il post moderno occidentalista ha il destino di cadere nel suo opposto, nell’alimento del sentimento del nulla».
Così, Augusto Del Noce in uno dei suoi ultimi scritti. È il 14 novembre 1989, meno di una settimana prima, il 9 novembre, la caduta del Muro di Berlino — in Italia il 12 novembre la svolta della Bolognina per il Pci di Achille Occhetto — che darà il la alla decomposizione del blocco sovietico, e l’anziano filosofo studioso della politica esprime giudizi più che preoccupati sulla globalizzazione che, con l’esaurirsi della guerra fredda, si profila all’orizzonte. E i cui effetti purtroppo non potrà più osservare. Morirà, infatti, poco più di un mese dopo, settantanovenne, il penultimo giorno di un anno — l’89 — divenuto plastico spartiacque della storia contemporanea. La fine del “secolo breve”, si dirà. Per qualcuno sic et simpliciter la “fine della storia”; la storia stessa, tuttavia, si è drammaticamente incaricata di smentire quella previsione, gravida della non irrilevante appendice di un “nuovo ordine mondiale”.
Il filosofo Augusto Del Noce
A ogni modo, il lavoro di Del Nocesi arrestò sulla soglia di un gigantesco cambio di passo della storia. E, oltre al completamento dell’opera su Giovanni Gentile, pubblicata postuma nel 1990, rimase incompiuta anche la sua riflessione storica relativa al dissolvimento del comunismo. In una mattina d’inizio gennaio, i funerali furono celebrati nella cappella de La Sapienza, università che per anni lo aveva visto docente di filosofia della politica e divenire punto di riferimento per tanti studenti post-sessantottini. Presenti alti rappresentanti delle istituzioni e del mondo accademico, a officiare il rito fu don Giacomo Tantardini, sacerdote lombardo ma incardinato a Roma, morto nel 2012, e all’epoca padre spirituale della Cl capitolina nonché carismatico animatore di due riviste che videro Del Noce illustre collaboratore. Pubblicazioni battagliere, «Il Sabato» e «30Giorni», che in quegli anni, nel bene e nel male, segnarono in maniera non banale il dibattito culturale e politico non meno di quello ecclesiale.
Proprio al significativo rapporto che, a partire dagli anni Settanta, il filosofo studioso della modernità ebbe con il mondo cattolico e in particolare con i giovani studenti discepoli di don Giussani sono dedicati i passaggi centrali del denso saggio di Luciano Lanna Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del Noce (Siena, Cantagalli, 2024, pagine 495, euro 28). Pagine che, innestando l’acribia della ricerca con il ritmo giornalistico, a partire da uno specifico punto di vista ricostruiscono il clima non raramente esacerbato che ha attraversato la comunità dei fedeli italiana in quella delicata fase che va dall’immediata ricezione del Vaticano II, con il Sessantotto, la successiva dilaniante campagna referendaria sul divorzio e gli “anni di piombo”, fino al tentativo di ricomposizione nel primo decennio di pontificato wojtyłiano.
A 35 anni dalla scomparsa di Del Noce e a 60 dalla pubblicazione di una delle sue opere più note — Il problema dell’ateismo — il saggio di Lanna si pone dichiaratamente l’obiettivo di far uscire la memoria del filosofo da quel cono d’ombra nel quale è stata relegata. Non si tratta, spiega l’autore, di un «filosofo tradizionalista» ma di «un pensatore che, come Gilson, ha ipotizzato una filosofia attraverso la storia e che si è ricollegato a una tradizione di pensiero che da Agostino, passava per Vico, per transitare attraverso Rosmini». Per Giacomo Marramao, che del volume firma la prefazione, Del Noce è stato un filosofo «fuori squadra», «decentrato nell’accademia come in politica».
Ma appunto anche per questo «libero di attraversareaspetti e tendenze del proprio tempo mantenendo un’irriducibile originalità». Una voce libera, «inattuale» come suggerisce il titolo del volume. O forse anche un «profeta inascoltato» che può essere accostato, sostiene l’autore, ad altre figure a lui contemporanee: Sciascia, Baget Bozzo, Zolla, Silone, Chiaromonte, Testori, Pasolini. In particolare, proprio con un autore “scomodo” come Pier Paolo Pasolini— i cui testi peraltro furono spesso valorizzati anche da don Giussani — vi era piena sintonia nel denunciare l’affermarsi di un nuovo potere e il rischio totalitarista. «Del Noce — annota Lanna — aveva sempre riconosciuto nello scrittore e regista il lucido diagnostico di una fenomenologia sociale e antropologica ben narrata con la metafora della “scomparsa delle lucciole” e con il concetto di “genocidio culturale”.
Scrive infatti Del Noce nel febbraio 1975:«Le cose che Pasolini diceva erano veramente giuste: l’emergere dopo il ’60 di un potere reale e la relativa sconfitta dei politici. Comincia il totalitarismo (…) quel totalitarismo che il fascismo non riuscì a realizzare perché trovò davanti la vecchia Chiesa». Una sintonia, per intenderci, non con il Pasolini che guardava con nostalgia al mondo preindustriale ma con l’autore degli Scritti corsari laddove sottolineava come la Chiesa e il cristianesimo dovessero temere il nuovo potere avanzante. In questo ambito si inseriscono gli interventi e i dibattiti — in particolare se ne ricorda uno molto significativo organizzato alla Sapienza dal centro culturale Massimiliano Kolbe con la partecipazione di Massimo Cacciari, allora deputato del Pci, con a tema il bilancio del marxismo a cento anni dalla morte del filosofo di Treviri — in cui Del Noce attacca «la nuova egemonia tecnocratico-azionista che aveva preso il sopravvento a sinistra dopo lo scacco del marxismo e che aveva finito per egemonizzare anche la leadership del partito cattolico». Insomma, questo l’allarme, si era di fronte ad un «superpartito trasversale, laicista e neolibertino».
A impreziosire il volume un testo inedito del 1961, nel quale emergono già i tratti salienti della ricerca di Del Noce: la vocazione “metapolitica”, l’interpretazione della modernità, la critica al marxismo, una messa in discussione del determinismo nella storia e nella storia della filosofia che fa propria la lezione dell’ucronia teorizzata dal pensatore francese Charles Renouvier.
Per Del Noce, sintetizza Lanna, il «tempo storico» è «simile a un albero dalle innumerevoli ramificazioni virtuali: in potenza tutte possibili». Una visione che rifiuta il tracciato determinato di un corso storico, quasi fosse una «freccia inarrestabile». Lasciando sempre una finestra aperta e liberante allo sguardo della fede. Non a caso, in occasione dei funerali venne sottolineato come il maggiore insegnamento lasciato da Del Noce fosse proprio quello di aver compreso che la fede «dona uno sguardo senza il quale, ogni umanesimo, pur se mosso da nobili ideali, è destinato al fallimento» (cfr. «L’Osservatore Romano», 2-3 gennaio 1990). Una lezione da non dimenticare.
Martedì 2 dicembre si è concluso il viaggio di Leone XIV in Turchia e in Libano, il primo del nuovo papa. Un viaggio carico di significati, spesso del tutto ignorati nei servizi dei telegiornali e nei resoconti di molti quotidiani. Significati su cui vogliamo invece soffermarci nella nostra newsletter di oggi proponendovi la lettura di due articoli. Il primo tratto da il Foglio è dedicato alla tappa del papa a Nicea, sulle rovine dell’antica basilica, a 1700 anni dal concilio che là definì il Credo che ancora oggi viene recitato ogni domenica nella messa. Stabilì un punto fermo sconfessando le posizioni ariane che negavano la natura divina di Gesù. Ma, ha sottolineato papa Leone, «se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci partecipi della natura divina». Non è una questione che riguarda secoli molto lontani. Il papa ha parlato infatti del rischio di un arianesimo di ritorno quando Gesù viene ridotto a una sorta di «leader carismatico o di superuomo». Il secondo articolo, di Andrea Tornielli dal sito Vatican News, riguarda la parte libanese del viaggio papale. Il Libano, caso unico nel Medio Oriente tormentato da guerre e terrorismo, da lacerazioni profonde e da contrapposizioni radicali, è un paese in cui ancora oggi convivono fedi diverse. È un segno che non è inevitabile arrendersi alla guerra e all’odio. È un paese che documenta concretamente che ci sono le condizioni, sia pur tra mille difficoltà, per affermare la pace.
«Quando le persone smettono di leggere – di dare un senso al testo su una pagina – perdono anche la capacità di dare un senso al mondo. In gioco c’è nientemeno che il destino dell’umanità, data l’intima connessione tra la parola scritta e la civiltà stessa». Lo scrive l’economista e saggista britannico Niall Ferguson in un articolo pubblicato il 16 novembre sul quotidiano inglese The Times di cui vi invitiamo a leggere una sintesi sul nostro sito. Un intervento che segue di qualche giorno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel quale veniva evidenziato «il progressivo abbandono della lettura», in questo caso riferito al nostro paese. «Qui ne va davvero dell’avvenire del Paese – scriveva -, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno». Il 22 novembre è stato invece Papa Leone a richiamare l’importanza della lettura «oggi più che mai». Leggere aiuta ad «unire mente, cuore e mani».
Apparentemente il crollo della lettura può risultare un dato del tutto secondario rispetto ad altri problemi più impellenti, in realtà rappresenta una regressione pericolosa che mina la stessa libertà delle persone come segnala Ferguson. Nel nostro piccolo ci sembra interessante l’esperienza fatta in questi anni come Fondazione San Benedetto, soprattutto attraverso il Mese Letterario ma anche con la nostra newsletter domenicale, nel far appassionare alla lettura di grandi autori come di articoli dalla stampa o di testi significativi. Per molti è stato anche un percorso di riaffezione «per contagio» all’esperienza della lettura. Una strada sulla quale intendiamo continuare.
Vivere dando tutto per scontato o farsi sorprendere dalla realtà? Un’alternativa davanti alla quale siamo continuamente posti e chiamati a misurarci. Lo racconta in un interessante articolo che vi invitiamo a leggere, pubblicato sul Corriere della Sera, Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, che parla dell’esperienza fatta in classe all’inizio di una mattinata scolastica facendo ascoltare La primavera di Antonio Vivaldi. È stato «fare esperienza della gratuità – scrive -, cioè sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi». Sorprendersi è questo, non è uno shock emotivo per evadere dalla cosiddetta normalità della vita. «Solo l’esperienza della vita data “gratis” e non “per scontata” (che infatti è diventato sinonimo di: “non mi sorprende più”) – continua D’Avenia – provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono». Dare per scontato impedisce di «ricevere l’istante come un dono» e quindi di vedere la realtà per quello che veramente è introducendovi un principio di novità che trasforma la vita.