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Siamo uomini o risultati?

  • Data 18 Gennaio 2025

Siamo chiamati a funzionare come se fossimo delle macchine o invece a essere, o meglio a diventare ciò che siamo? Se lo chiede lo scrittore e insegnante Alessandro D’Avenia nell’ultimo articolo della sua rubrica settimanale sul Corriere della Sera. La pressione a trattare l’uomo come una macchina oggi è molto forte, al punto che l’umano «sembra una versione superata del vivere». Lo stesso linguaggio in alcune delle sue espressioni più comuni tradisce il modello tecnologico a cui ci rifacciamo nel guardare a noi stessi e agli altri. Funzionare però sembra renderci «più sicuri, ma non felici». D’Avenia, nel suo articolo che vi invitiamo a leggere integralmente, cita Hannah Arendt che già nel 1958 scriveva: «Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove, che desidera scambiare con qualcosa che lui stesso abbia fatto». «L’essere programmati» come una macchina apparentemente è più sicuro e alleggerisce il peso della libertà. «Però prima o poi – sottolinea D’Avenia – ci rompiamo come telefoni che, a forza di “ultimi aggiornamenti”, non reggono più il “programma” divenuto troppo “pesante”». La cultura oggi dominante, continua l’articolo, «forma l’uomo-potenza, lo spinge a funzionare, a programmarsi, ad avere successo. Il corpo è un hardware e la coscienza un software (la cosiddetta intelligenza artificiale non è l’evoluzione del computer ma la nostra, ciò che noi vogliamo diventare: pensiero meccanico che risolve problemi in pochissimo tempo, ma è inconsapevole di sé). È divino chi si libera dai limiti, chi funziona meglio e non si pone più inutili domande di senso. La “formazione” greca dice “diventa ciò che sei, costi quel che costi, c’è un destino“; la cristiana “ricevi ciò che sei, sei un dono per te e per il mondo, c’è una chiamata“; quella contemporanea “funziona meglio che puoi, sarai al sicuro, c’è un programma“. Di conseguenza per la cultura greca la forma-modello dell’umano è l’eroe, Achille; per quella cristiana il figlio, Cristo; per quella moderna il risultato, IA». Sta a noi scegliere cosa vogliamo diventare: eroi, figli o risultati? Che cosa ci rende più felici?


Diventare chi? 

di Alessandro D’Avenia

dal Corriere della Sera – 13 gennaio 2025

«Sono esaurito». «Ho bisogno di staccare la spina». «Devo ricaricarmi». Espressioni d’uso quotidiano che tradiscono la fatica di pensarsi macchine con un corpo-hardware e una coscienza-software («ci aggiorniamo», «non siamo compatibili», «interfacciamoci»). È la neolingua tecnologica: abbiamo affidato alle macchine l’umanissimo sogno di non morire, perché l’umano, così com’è, sembra una versione superata del vivere. Infatti «ultima generazione» non indica più i nuovi nati, ma i nuovi telefoni o pc. Eppure noi non stacchiamo la spina, riposiamo come i campi per dare frutto; non ci ricarichiamo, noi rinforziamo i legami con la vita come l’albero con la terra e la luce; non ci esauriamo come batterie, ma come sorgenti d’acqua. Barattando il discorso naturale con quello artificiale, abbiamo scelto: macchina ti dici, macchina diventi. Ma funzionare è il nostro destino? Il frullatore frulla, la lavatrice lava, il calcolatore calcola. E l’umano come «umana»? Sente e sa di essere vivo perché sente e sa che morirà: siamo un limite aperto, libero, creativo; siamo tempo incarnato, respiro e desiderio, sangue e sogno, destino e destinazione. Eppure invidiamo alla macchina il contrario: non sentire né sapere di sé, non dover scegliere né morire. Funzionare ci rende più sicuri, ma non felici, perché «umanare» non è funzionare, ma diventare. Diventare chi?

Ogni cultura immagina la felicità in una forma compiuta dell’umano, per questo tutte hanno la loro «formazione»: il metodo educativo per avere quella «forma». Una cultura che punta alla forma-macchina fa, per esempio, una scuola-macchina, dove si eseguono «programmi» su memorie da riempire di dati. La didattica (dal greco indicare: ciò che è vero, giusto, bello) diventa «didatica» (fornire dati), la formazione formattazione (a tutti gli stessi dati). Lo ha reso palese il confinamento: abbiamo creduto di far scuola mantenendo intatti ore e programmi ma attraverso lo schermo, perché formare è in-formare memorie (soft-disk) senza corpo. Non c’erano vite ma programmi da eseguire, e infatti le vite sono rimaste ferite.

Già nel 1958 la filosofa Hannah Arendt aveva colto la deriva: «Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove, che desidera scambiare con qualcosa che lui stesso abbia fatto» (Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana). Al «diventare ciò che siamo» dei Greci (sei portatore di un destino) e patrimonio di molte altre culture, preferiamo «l’essere programmati»: è più sicuro e alleggerisce il peso della libertà. Però prima o poi ci rompiamo come telefoni che, a forza di «ultimi aggiornamenti», non reggono più il «programma» divenuto troppo «pesante».

Crediamo di dover cambiare hardware, invece è solo una salutare crisi di senso, che la macchina non ha: chi sono? Chi sto diventando? Non è un caso che in ambito educativo non abbiamo mai avuto così tante informazioni (manuali ed esperti) ma così tanta difficoltà a educare. Come mai? Perché non bastano i dati, l’umano non è programma ma origine, non è protocollo ma relazione, la «forma» non si «carica» in base a quello che il mondo si aspetta dal nostro curriculum, come nella famosa scena di Matrix in cui il protagonista, sospeso nel bianco come un hardware vergine, viene «aggiornato». In noi la forma si «scopre», «coltiva» e «compie»: essere «in forma» non riguarda solo il corpo, ma la vita tutta.

Scriveva il poeta greco Pindaro già nel VI sec. a.C. «Diventa ciò che sei, avendolo appreso» cioè, come ricordava il dio Apollo a chi visitava il suo tempio, su una facciata «Conosci te stesso» (sei un uomo), sull’altra «Nulla di troppo» (rimani uomo). Servono i dati, ma non bastano. Ci serve un’ipotesi diversa al «pensati macchina», abbiamo bisogno di abbracciare la condizione umana così «come ci è stata data», dice Arendt, in generale e in originale: la vita non è «data» (dati) ma «data» (donata), non si programma, si scopre. Omero lo dice senza mezzi termini, perché per dire «uomo» dice «mortale», cioè «fatto di morte», come legnoso è fatto di legno. Gli dei greci sono infatti uguali agli uomini tranne in un aspetto: sono immortali. Ed è la «forma» divina il fine della «formazione» greca.

Il mortale (soggetto al tempo) aspira all’immortale (vince il tempo), al non soggetto alla morte. Infatti quella cultura ha indagato la natura delle cose per cogliere ciò che non muta, inventando ciò che non muore come i templi e i teatri, la geometria e la medicina, la filosofia e la democrazia… All’uomo greco, mortale che cerca l’immortale, la cultura giudaico-cristiana suggerisce un orizzonte più ampio. L’uomo è sì mortale «Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (Mt 6,27) chiede Cristo, che abbraccia questa condizione morendo anche lui, ma rivela che l’uomo è di più: è figlio, figlio del Dio della vita e della cura della vita, «anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete» (Lc 12,7). Non è fatto di morte ma di filiazione. La forma piena dell’umano non è diventare immortale, ma figlio: «A quanti l’hanno accolto (il Figlio) ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12).

CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO SUL SITO DEL CORRIERE CLICCANDO QUI

Tag:Alessandro D'Avenia, Hannah Arendt, intelligenza artificiale

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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