«L’infinita distrazione che ci viene offerta in ogni istante in cui siamo a portata di telefono significa che non dobbiamo mai fare il difficile lavoro di capire come vivere con la nostra mente». Il difficile lavoro di capire come stare con noi stessi. «Facciamo tutto il possibile per assicurarci di non provare mai la noia». Lo scrive sul NewYorkTimes lo scrittore e reporter americano Chris Hayes in un lungo articolo dedicato proprio al tema della noia e di cui vi riproponiamo alcuni passaggi salienti. «Quando di tanto in tanto mi sono messo a considerare le diverse distrazioni degli uomini – scriveva Pascal citato da Hayes – ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da un unico fatto: che non possono stare tranquilli nella propria camera. Da qui deriva che gli uomini amano tanto il rumore e l’agitazione; da qui deriva che la prigione è una cosa così orribile; da qui deriva che il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile». L’irrequietezza delle nostre menti e la voglia di svago nascono dall’angoscia spirituale per la nostra mortalità.Foto PickPik
«La noia – continua Hayes – è qualcosa di molto più grave della lamentela del bambino che non ha nulla da fare. La mente non occupata può essere una bestia feroce e gran parte della nostra vita, secondo Pascal, viene spesa per cercare di domarla. Tutti noi abbiamo avuto occasione di trovarci intrappolati con i nostri pensieri in un modo che ci fa sentire come prigionieri nella gabbia di un leone. E oggi siamo circondati da infinite fonti di svago, ma nessuna di esse è mai abbastanza per sfuggire davvero al terrore della noia». Oggi l’intrattenimento continuo, i guru dell’auto-aiuto, le app per la mindfulness, stanno provando di tutto per calmare «le nostre menti pruriginose». «Inseguiamo la distrazione con sempre maggior ferocia, condizionati nel tempo dalle slot machine di contenuti che abbiamo in tasca, per avere sempre più bisogno di prestare attenzione». Hayes conclude che quello che ci troviamo ad affrontare non è un problema situazionale, ma esistenziale e spirituale. Già Leopardi aveva mirabilmente descritto questa condizione quando nello Zibaldone scriveva di «non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; (…) trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio(…) e sempre accusare le cose di insufficienza e nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana». Gli uomini fanno dunque esperienza dell’insufficienza del reale, e quindi della noia, per la natura infinita del desiderio che è nel loro cuore che non può essere mai cancellato da alcuna illusione di ricchezza o di potere né da alcun svago o intrattenimento più o meno tecnologico, digitale o artificiale. Per questo possiamo dire «benedetta noia», come ha titolato Robinson, il settimanale culturale di Repubblica ripubblicando l’articolo di Hayes.
Incontro con Adriano Sofri e Massimo Camisasca
«Dal ’68 a oggi, il desiderio del cambiamento» è il titolo dell’incontro che la Fondazione San Benedetto promuoverà a Bresciagiovedì 13 marzo alle 18.15 con l’intervento di due ospiti d’eccezione: monsignor Massimo Camisasca, allievo di don Giussani e vescovo emerito di Reggio Emilia, e Adriano Sofri, scrittore, editorialista ed ex leader di Lotta Continua.
L’occasione di questo incontro del tutto inedito è data dalla recente pubblicazione del libro «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli editore) che raccoglie alcuni interventi di don Giussani, fra il 1968 e il 1970, in un periodo molto turbolento che vedrà anche la nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Poterne parlare con due protagonisti di quella stagione, con storie molto diverse, è un’opportunità straordinaria anche per guardare in modo nuovo al momento che stiamo attraversando oggi segnato da grande incertezza. L’incontro, che si svolgerà nell’aula magna del Centro Paolo VI, in via Gezio Calini 30, è aperto a tutti sino ad esaurimento posti e previa registrazione. Invitiamo perciò a registrarsi al più presto cliccandoquesto link.
La noia e la gabbia dell’intrattenimento
di Chris Hayes – 3 gennaio 2025
Nel 2014, gli psicologi dell’Università della Virginia e dell’Università di Harvard si sono messi a studiare l’esperienza della noia delle persone. Ai soggetti è stato chiesto di stare seduti da soli in una stanza senza fare nulla per un periodo di tempo compreso tra i sei e i 15 minuti e successivamente è stato chiesto loro di raccontare la loro esperienza. L’hanno odiata. I ricercatori hanno poi testato quanto i soggetti la odiassero. Gli autori hanno chiesto se i soggetti preferissero svolgere un’attività sgradevole piuttosto che nessuna attività.
In uno studio, ai partecipanti è stata data « l’opportunità di sperimentare una stimolazione negativa (una scossa elettrica) se lo desideravano», scrivono i ricercatori. E indovinate un po’? «Molti partecipanti hanno scelto di ricevere una stimolazione negativa piuttosto che nessuna stimolazione, soprattutto gli uomini: il 67 per cento di loro (12 su 18) si sono dati almeno una scossa durante il periodo di riflessione » , rispetto al 25 per cento delle donne. In effetti, sembra che un partecipante abbia trascorso praticamente tutto il tempo a darsi scosse, somministrandosene 190 in quello che posso solo immaginare sia stato un tentativo disperato di evitare di rimanere solo con i suoi pensieri.
Potreste dire a voi stessi: «È una pazzia», o la vostra reazione potrebbe essere: «Oh, mi ci vedrei bene », e la maggior parte di noi non lo saprà mai perché non ci vengono mai date scelte così nette. Ma probabilmente vi sarà capitato di entrare in una caffetteria con una lunga fila e di prendere istintivamente il telefono, per poi scoprire di averlo lasciato in macchina o a casa. Ora siete bloccati. Quello che segue è una breve ma intensa sensazione di panico claustrofobico. A un certo livello questo è un esempio della dipendenza che abbiamo dai nostri telefoni, ma chi ha una certa età ricorda una sensazione simile molto prima dello smartphone: arrivare in bagno senza nulla da leggere o sedersi al tavolo della colazione prima di andare a scuola, con gli occhi assonnati, leggendo il retro della scatola di cereali perché era l’unica cosa disponibile per occupare la mente.
Sebbene lo stato di costante interruzione dell’età dell’attenzione possa essere sgradito, nasce da un desiderio che precede di molto la vita contemporanea. «Quando di tanto in tanto mi sono messo a considerare le diverse distrazioni degli uomini», osservava Pascal nei Pensieri, pubblicati nel 1670, «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da un unico fatto: che non possono stare tranquilli nella propria camera». La preoccupazione principale di Pascal era lo stato delle anime degli uomini. Voleva capire perché gli uomini ( e intendeva proprio gli uomini, come i soggetti sperimentali più inclini a scandalizzarsi) sono tentati di intraprendere i rischi della guerra e della conquista e ogni sorta di attività pericolosa e peccaminosa piuttosto che godere semplicemente di ciò che hanno. La radice di tutto ciò, ha proposto, è un aspetto della condizione umana da cui oggi dipende molto: l’irrequietezza delle nostre menti, la voglia di svago. «Da qui deriva che gli uomini amano tanto il rumore e l’agitazione; da qui deriva che la prigione è una punizione così orribile; da qui deriva che il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile » . Sono tornato spesso a leggere gli scritti di Pascal su questo argomento per la loro attualità a distanza di tanti secoli, a testimonianza di quanto il problema sia profondo e duraturo.
Questo desiderio, sosteneva, derivava dall’angoscia spirituale per la nostra mortalità, « la povertà naturale della nostra condizione debole e mortale, così miserabile che nulla può confortarci quando ci pensiamo da vicino». Questa angoscia è così forte che nessuna ricchezza, nessun potere e nessuna comodità terrena possono fare da scudo contro di essa. Questo vale anche per i re.
Sembra che la mente del re debba essere tranquilla, perché, a differenza di quasi tutti gli altri nel regno, il re non è tenuto a impegnarsi in fatiche brutali per il suo sostentamento. Eppure questa tranquillità è una sorta di prigione: «Quando immaginiamo che un re sia accompagnato da tutti i piaceri che può provare, se non ha svaghi e viene lasciato a considerare e riflettere su ciò che è, questa debole felicità non lo sosterrà», scrisse Pascal. «Egli cadrà necessariamente nella previsione di pericoli, di rivoluzioni che possono accadere e, infine, di morte e di malattie inevitabili; così che se non
ha ciò che si chiama svago, è infelice, e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi che gioca e si diverte».
La noia è qualcosa di molto più grave della lamentela del bambinoche non ha nulla da fare. La mente non occupata può essere una bestia feroce e gran parte della nostra vita, secondo Pascal, viene spesa per cercare di domarla. Tutti noi abbiamo avuto occasione di trovarci intrappolati con i nostri pensieri in un modo che ci fa sentire come prigionieri nella gabbia di un leone. E oggi ci troviamo nella posizione del re: siamo circondati da infinite fonti di svago, ma nessuna di esse è mai abbastanza per sfuggire davvero al terrore della noia.
Mi piacerebbe offrire qualche consiglio, ma la brutale verità è che io stesso non sono bravo a gestire questa situazione. La mia soluzione è assicurarmi di fare sempre tante cose diverse: conduco un programma televisivo e un podcast, ho appena scritto un libro e ho tre figli dai sei ai 13 anni. Quando conoscenti e amici mi chiedono: « Come stai? » , rispondo, quasi per istinto, « Bene! Impegnato! » . Ma forse l’impegno è solo un altro tentativo di distrazione. Scrivendo due secoli dopo Pascal, il filosofo danese Søren Kierkegaard osservava: «I lavoratori più indaffarati di tutti, quelli che nel loro ronzio offensivo assomigliano di più a insetti ronzanti, sono piuttosto i più noiosi di tutti». Ahi. (…)
Stiamo provando diverse soluzioni a questo problema, che è allo stesso tempo nuovo e una versione di un rimedio molto antico. Ci sono applicazioni per la mindfulness e infiniti guru dell’auto- aiuto che ci chiamano da Instagram Reels e TikTok, promettendo modi per calmare le nostre menti pruriginose. Ma tutto questo non basta per placare un pubblico inquieto e a disagio, che è stato condizionato a essere facilmente annoiato dal costante rumore dei diversivi. Siamo bloccati nel paradosso del re. Inseguiamo la distrazione con sempre maggiore ferocia, condizionati nel tempo dalle slot machine di contenuti che abbiamo in tasca, per avere sempre più bisogno di prestare attenzione.
Si può immaginare che il re di Pascal richieda ai suoi giullari di corte un intrattenimento sempre più estremo, perverso e umiliante solo per mantenere il suo interesse, una tentazione simile a quella che si trova nei dispositivi di intrattenimento nelle nostre tasche, una tentazione simile a quella offerta da un politico che manterrà le cose interessanti, non importa quanto crudele o offensivo debba essere per mantenere l’attenzione del pubblico.
Non ci si può occupare della noia né ci si può divertire per evitarla. Né il lavoro né l’intrattenimento costante forniscono una soluzione. Né per il re né per noi.
Il problema che dobbiamo affrontare è esistenziale e spirituale, non situazionale. Non possiamo sfuggire alla nostra mente, che ci segue ovunque andiamo. Non possiamo correre più veloci del tapis roulant. La nostra unica speranza di pace è costringerci a scendere ogni volta che possiamo. Imparare di nuovo a stare fermi.
«Leggo per legittima difesa», questa frase di Woody Allen fa da titolo alla quindicesima edizione del Mese Letterario e dice anche molto sul valore della lettura come atto di libertà …
Il ’68, il disagio esistenziale dei giovani, la contestazione, la rivoluzione sessuale, la critica radicale dell’autorità, l’autunno caldo del ‘69 e le lotte degli operai, le università occupate, la violenza politica degli anni ’70. Cosa c’entra tutto questo con quanto stiamo vivendo oggi? Moltissimo. Lo si è capito bene nell’incontro che si è tenuto giovedì a Brescia, promosso dalla Fondazione San Benedetto, con monsignor Massimo Camisasca e Adriano Sofri. Aula magna del centro Paolo VI con tutti i posti occupati e una seconda sala videocollegata, per incontrare due testimoni di quella stagione con storie completamente diverse, ma che non hanno mai smesso di interrogarsi apertamente. Un’occasione davvero straordinaria. Nei prossimi giorni sarà disponibile sul nostro sito il video integrale dell’incontro.
Il dialogo senza rete aveva come costante punto di riferimento il libro «Una rivoluzione di sé» che raccoglie gli interventi di don Luigi Giussani fra il 1968 e il 1970. In quegli anni l’esperienza di Gioventù Studentesca che aveva riunito sotto la guida di Giussani migliaia di giovani, fra cui anche Camisasca, si era dispersa davanti ai primi fuochi della contestazione. Da lì Giussani inizierà una nuova storia di amicizia che in anni di grande tensione sociale porterà alla nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Nello stesso periodo Sofri era il leader incontrastato di Lotta Continua schierata per la rivoluzione classista. La via per costruire la propria individualità passava attraverso l’esperienza del collettivo. Eppure tra CL e LC, due storie che sembravano agli antipodi, c’erano inaspettati punti di somiglianza. Senz’altro un desiderio di cambiamento e di autenticità che aveva le sue radici nel bisogno esistenziale dei giovani. Su queste stesse basi oggi è possibile veder dialogare Camisasca e Sofri in un incontro sorprendente, ricchissimo di provocazioni e di spunti significativi per vivere più consapevolmente il presente.
Questa settimana come proposta di lettura vi segnaliamo infine un recente editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere. Un’analisi molto interessante sulla società e sulla politica italiana e sul ruolo delle cosiddette élite di fronte al nuovo corso trumpiano degli Usa, che vi invitiamo a leggere con attenzione.
Giovedì 13 marzo alle 18.15, a Brescia, al Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30 è in programma l’incontro sul tema «Dal ’68 a oggi, il desiderio del cambiamento». Promosso dalla Fondazione San Benedetto vedrà gli interventi di due ospiti d’eccezione: monsignor Massimo Camisasca, allievo di don Giussani e vescovo emerito di Reggio Emilia, e Adriano Sofri, scrittore, editorialista ed ex leader di Lotta Continua.
In molti in queste settimane si sono già registrati per partecipare. Invitiamo quindi ad arrivare per tempo raccomandando la puntualità. È ancora possibile registrarsi utilizzando questo link.
Si tratta di un incontro del tutto inedito. L’occasione è data dalla recente pubblicazione del libro «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli editore) che raccoglie alcuni interventi di don Giussani, fra il 1968 e il 1970, in un periodo molto turbolento che vedrà anche la nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Poterne parlare con due protagonisti di quella stagione, con storie molto diverse, è un’opportunità straordinaria anche per guardare in modo nuovo al momento che stiamo attraversando oggi segnato da grande incertezza.
In vista dell’incontro in questa newsletter vogliamo proporvi la lettura di un recente articolo di Sofri, tratto dalla Piccola Posta, la sua storica rubrica pubblicata dal Foglio dal martedì al sabato. È un interessante spunto di confronto che parte dall’osservazione di quanto sta avvenendo nello scenario internazionale, da Gaza a Israele, dall’Ucraina al nuovo corso trumpiano degli Usa, per arrivare all’Europa e all’Italia. Per Sofri «la vera lezione dei tempi – che corrono, la democrazia è lenta, la prepotenza è rapida, procede di colpo, culmina nel colpo di stato – sta nella rinuncia definitiva alla speranza di essere d’accordo pressoché su tutto ciò che è essenziale, grazie alla parte dalla quale si è schierati. È il prodotto ultimo della fine delle ideologie sistematiche e delle loro pretese di coerenza. Le ideologie non muoiono: il feticismo del denaro e la superstizione della tecnologia sono lussureggianti supplenze. Ma così assoggettate alla potenza non tengono più insieme convinzioni, opinioni e sentimenti». Tutto questo ci riguarda più da vicino di quanto si potrebbe pensare. È parte del clima sociale che respiriamo e che si riflette nelle relazioni con gli altri e nel rapporto col piccolo mondo in cui viviamo. Oltre alla presa d’atto di come stanno le cose, rimane però ancora lo spazio per esercitare la propria libertà e la propria responsabilità. «Penso che la disposizione più responsabile – conclude Sofri – sia quella al rispetto reciproco, di qua e di là da una linea rossa che ciascuno ritenga di fissare, d’accordo con la propria coscienza, o nemmeno».