Intelligenza artificiale, dipendenza dagli smartphone e dai social network, multitasking mediatico, uso sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, difficoltà a distinguere le notizie vere dalle fake news. Sono solo alcuni aspetti contrastanti del mondo in cui siamo quotidianamente immersi. Su questi temi, tra luci e ombre, vogliamo soffermarci nella nostra newsletter per stimolare la riflessione. Lo facciamo attraverso due articoli, che consigliamo di leggere, dell’epistemologo Gilberto Corbellini sul Sole 24Ore, e del direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi su La Lettura. Entrambi gli interventi, che partono da approcci e punti di vista diversi, documentano alcune ricadute che l’impatto con le tecnologie digitali sta avendo sulle nostre vite e sul cervello umano, di cui occorre essere consapevoli. Un impatto che rischia di essere particolarmente aggressivo sui più giovani.
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Non si tratta assolutamente di demonizzare la tecnologia con inutili battaglie di retroguardia, fuori tempo massimo, o con altre idiozie del genere. Ci interessa invece utilizzarla in modo critico e consapevole; e questo è possibile. Tutto, come sempre, dipende dal soggetto, da ciascuno di noi. Come ha scritto recentemente lo scrittore Alessandro D’Avenia, se l’homo curvatus (quello che passa le sue giornate con lo sguardo curvato sullo smartphone e non si accorge più della realtà) «ha meno occhi non è colpa del telefono, ma di un cuore che quel telefono ha trovato vuoto». Così qualche giorno fa sul Corriere un lettore descriveva in una piccola lettera una scena emblematica: «Per un piccolo intervento, sono da pochi giorni in una camera d’ospedale a tre posti. Fino a ieri c’era anche Paolo, un degente boomer come me, andato via stamani. Da oggi ecco arrivare due sui 40 anni. Completamente rapiti dal cellulare, stanno distesi sul letto a guardarlo come un dio. Zero saluti, zero sguardi, zero di tutto. Con Paolo, invece, è bastato uno sguardo per conversare, sapere dove vive, che ha una figlia, che lui è in pensione, che non ha paura dei medici, prende farmaci e sta bene. In due giorni ci si è confidati giusto un po’, per rendere meno vuoto il tempo e non sentirsi soli. I due digitali 40enni invece… che tristezza l’adorazione di quel loro dio tascabile». Tutti temi su cui ci ripromettiamo di tornare presto anche con la proposta di iniziative ad hoc.
«La lode, la grazia», a Brescia il coro di Russia Cristiana
In preparazione alla Pasqua, domenica 6 aprile alle 17.15, nella chiesa di Santo Stefano alla Bornata, in via Bonatelli 16 a Brescia, è in programma un incontro con il coro di Russia Cristiana che proporrà canti e immagini della tradizione liturgica bizantino-slava. Un percorso di santità e bellezza per collaborare alla «profezia per la pace» di Papa Francesco. Verranno proposte le più belle icone russe, commentate nella loro impostazione artistica ma anche nel loro significato teologico. Per ciascun tema iconografico, terminato il commento, il coro esprimerà col canto la preghiera che nasce di fronte all’icona; i brani sono tratti dal grande patrimonio liturgico della polifonia slava. L’iniziativa è proposta dalla Fondazione San Benedetto insieme alle parrocchie del Buon Pastore, di San Francesco da Paola e di Santo Stefano. La partecipazione è libera.
Mese Letterario, le iscrizioni sono aperte
In molti si sono già iscritti alla quindicesima edizione del Mese Letterario che ha come titolo una frase di Woody Allen: «Leggo per legittima difesa». Una frase che dice molto sul valore della lettura come atto di libertà in un mondo in cui si legge sempre meno. Quest’anno il Mese Letterario propone tre serate in programma a maggio a Brescia, nell’auditorium Capretti degli Artigianelli.
Il primo incontro, l’8 maggio, con Valerio Capasa sarà dedicato a Luigi Pirandello nel centenario della pubblicazione di «Uno, nessuno e centomila». Il secondo appuntamento, il 15 maggio, con Edoardo Rialti avrà come protagonisti i tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide. L’ultimo incontro, il 22 maggio, con Stas’ Gawronski sarà sullo scrittore americano, scomparso nel 2023, Cormac McCarthy, autore di opere memorabili come «La strada», «Non è un paese per vecchi», «Il passeggero». Per partecipare occorre iscriversi sul sito dell’Associazione Mese Letterario – utilizzare questo link– che organizza la rassegna in collaborazione con la Fondazione San Benedetto.
No, non siamo fatti per essere digitali
Oltre lo schermo. Il neurologo Cytowic inquadra le conseguenze negative dei dispositivi. E spiega perché il multitasking riduce efficienza e memoria
di Gilberto Corbellini – dal Sole 24Ore – 30 marzo 2025
Sono in costante aumento le prove che l’uso precoce e via via crescente con l’età dello smartphone e l’esposizione a contenuti digitali veloci (come TikTok, YouTube Shorts, Reels) possono avere un impatto sulla salute mentale, sullo sviluppo cerebrale e sulle funzioni cognitive dei giovani. Sono stati prodotti dati strutturali e funzionali a livello neurologico: studi di risonanza magnetica condotti dai National Institutes of Health dimostrano che l’uso intensivo di schermi nei bambini è legato a un assottigliamento delle aree della corteccia, soprattutto nelle regioni responsabili del linguaggio e delle funzioni esecutive. L’uso eccessivo dello schermo è stato associato a una riduzione dell’integrità di tratti di materia bianca (che influisce sulla velocità di elaborazione e sullo sviluppo del linguaggio). Non meno provata è la compromissione cognitiva, a livello di attenzione e concentrazione: ovvero che lo scorrimento e il multitasking mediatico portano a un’elaborazione più superficiale delle informazioni. Le persone memorizzano meno e peggio, mentre l’uso dello smartphone durante le lezioni (anche in modo passivo) compromette la qualità della registrazione di appunti, la comprensione e il rendimento nei test. Un esperimento ha mostrato che, se uno studente lascia a casa lo smartphone, è più performante di uno che lo tiene in tasca e ancora di più di uno che lo tiene spento sul banco.
Sul piano della salute mentale, ansia, depressione e solitudine rappresentano un rischio doppio rispetto alla norma per gli adolescenti che passano più di 5 ore al giorno davanti allo smartphone. E anche il rischio di ideazioni suicidarie è significativamente superiore alla norma. L’uso dello smartphone attiva il sistema di ricompensa dopaminergico (simile al gioco d’azzardo): il design delle app (scroll infinito, like, notifiche) incoraggia l’uso compulsivo e la disregolazione della dopamina. Naturalmente l’uso eccessivo di questi dispositivi ha un impatto negativo anche sul sonno e i ritmi circadiani, e porta a un declino di abilità sociali, tra cui l’uso della teoria della mente nelle negoziazioni e interazioni affettive (in gergo, si dice empatia). Ovviamente un uso moderato, educativo e attivo ha effetti positivi.
Tutti questi argomenti, che sono documentati da pubblicazioni scientifiche,vengono analizzati nell’ultimo libro del neurologo Richard E. Cytowic, un’autorità mondiale nello studio del cervello per i lavori pionieristici sulla sinestesia, una condizione in cui la stimolazione di una via sensoriale porta a esperienze automatiche e involontarie in una seconda via sensoriale – per esempio, “vedere” i suoni o “gustare” i colori. Cytowic inquadra le conseguenze negative dei dispositivi e degli ambienti digitali in una cornice evoluzionistica. Sostiene, con ottima logica, che la tecnologia moderna – in particolare gli schermi digitali, le app e i media – è in dissonanza con il funzionamento del nostro cervello. La mancata corrispondenza adattativa tra il nostro cablaggio neurale, che è rimasto quello del Pleistocene, e l’ambiente digitale in rapida evoluzione, crea problemi cognitivi diffusi, stress, distrazione e disregolazione emotiva.
I temi trattati a fondo nel libro riguardano quindi il disallineamento evolutivo,il sovraccarico sensoriale, il burnout emotivo, la trappola della dopamina, gli effetti potenzialmente devastanti su bambini e adolescenti e le strategie per affrontare il problema. L’autore combina sapientemente i fatti neuroscientifici con aneddoti personali e linguaggio accessibile, fornendo rigorose analisi scientifiche con stile accattivante. Non risparmia critiche puntuali e impietose alla superficialità con cui vengono diffusi i miti tecnologici più comuni (sulla utilità di procedure come il multitasking, o l’effetto socializzante di essere connessi, o che i problemi hanno origine nella tecnologia e non in noi, etc).
Il nostro cervello si è evoluto per sopravvivere in ambienti naturali dal ritmo lento, con interazioni faccia a faccia, stimoli limitati e routine. Il “cervello del cacciatore-raccoglitore” dava priorità alle minacce immediate, alla coesione sociale e alle ricompense tangibili. La vita moderna, al contrario, ci sommerge di notifiche continue, di contenuti a scorrimento infinito, stimoli artificiali (ad esempio, combinano innaturali di stimoli luminosi, feed algoritmici, etc.). Cytowic si riferisce a questo fenomeno come a un «complesso industriale della distrazione».
I media digitali sovra stimolano i sensi e dirottano l’attenzione. Il multitasking, tanto glorificato, in realtà riduce l’efficienza e la capacità di memorizzazione. L’input sensoriale cronico (visivo, uditivo, cognitivo) può causare ansia, disturbi del sonno riduzione della capacità affettive, affaticamento decisionale. Le app e le piattaforme sfruttano i nostri sistemi di ricompensa basati sulla dopamina. Come avviene nel gioco d’azzardo. I like e le condivisioni offrono ricompense variabili che creano dipendenza. Cytowic paragona i social media a stimoli sintetici che aggirano i nostri cicli di feedback naturali.
Il cervello in via di sviluppo dei bambini è particolarmente vulnerabile. L’eccessivo tempo trascorso sullo schermo ha un impatto sulla regolazione emotiva, l’immaginazione, sulle abilità sociali e i giovani saturi di schermi non sanno interfacciarsi con le emozioni degli altri perché non sono in grado di intercettarle affettivamente e cognitivamente. Uno studio del 2014 ha rilevato che i bambini privati degli schermi per 5 giorni hanno mostrato un miglioramento significativo nella lettura delle emozioni rispetto a un gruppo di controllo. Nel 2019 JAMA Pediatrics pubblicava i risultati di una ricerca da cui emergeva che l’aumento del tempo trascorso sullo schermo all’età di 2 anni è collegato a risultati di sviluppo più scarsi all’età di 3 e 5 anni.
Cha fare? Cytowic propone l’adozione di tecniche di riequilibrio funzionale, come il digiuno digitale e le pause dallo schermo, l’uso di pratiche di mindfulness per recuperare l’attenzione e esposizione alla natura come «pulsante di reset» neurologico. Per recuperare sul piano dell’interazione sociale: si dovrebbero privilegiare le relazioni di persona, cioè vis à vis, e limitare la comunicazione digitale quando possibile. Inoltre, per evitare disturbi del sonno non si devono guardare schermi 1-2 ore prima di andare a letto e si deve regolare l’esposizione alla luce per ripristinare i ritmi naturali del sonno. Per quanto riguarda direttamente l’uso di queste tecnologie e piattaforme si dovrebbe privilegiare il monotasking, invece del multitasking, e utilizzare strumenti offline per il pensiero, la creatività e la memoria.
Le nuove tecnologie sfidano la memoria
Non ricordiamo i numeri di telefono? Ci pensa lo smartphone. Non sappiamo muoverci in una città? Ci pensa Google Maps. Siamo incapaci di scrivere un elaborato? Ci pensa ChatGPT. Da tempo la scienza affronta la questione: qualcuno è scettico (un po’ come lo era Socrate verso la scrittura), qualcuno entusiasta. Ecco cosa può succedere al nostro cervello
di Giuseppe Remuzzi – da La Lettura – 30 marzo 2025
Come la mettiamo con l’«altra memoria», quella che sta fuori di noi, per intenderci, quella di internet o dell’Intelligenza artificiale? I nostri processi mentali si adatteranno pian piano alla tecnologia che cambia ed evolveranno in rapporto ai nuovi strumenti che avremo a disposizione? Se lo sono chiesto già qualche anno fa scienziati di New York e di Boston. Rispondere a queste domande non è affatto facile, ma dobbiamo partire dal presupposto che il nostro cervello è uguale a quello di 40 mila anni fa; con il passare del tempo abbiamo semplicemente imparato a servircene in modo diverso. Ed è così da sempre: confrontato con nuove sfide, il cervello trova nuovi modi per affrontarle. È così che siamo passati da un cervello usato soprattutto per ricordare a un «cervello capace di leggere». Nemmeno allora fu facile. Socrate per esempio pensava che scrivere e leggere fossero attività che denigravano l’intelletto. Lui, che non scrisse mai nulla, considerava vivo solo il linguaggio parlato. «Se non ci sarà più bisogno di imparare a memoria quello che vogliamo trasmettere agli altri la società finirà per impoverirsi». Ma Socrate non aveva fatto in tempo ad apprezzare quanto scrivere aiuti a scoprire nuove strade. Fosse vissuto altri cinquant’anni forse avrebbe cambiato idea. A mano a mano che si diffondeva l’alfabeto, in Grecia si diffondevano l’arte, la filosofia, la scienza…
Oggi il cervello si confronta con un’altra rivoluzione: i ragazzi si parlano su WhatsApp, e non c’è più nemmeno bisogno di scrivere, abbiamo macchine che scrivono, leggono e traducono per noi. Adesso immaginiamo di trovarci in una città che non conosciamo e che Google Maps non funzioni. «Accidenti, s’è persa la connessione… chi chiamo adesso? Non conosco nessuno. Un vigile, forse, mi può aiutare; o la polizia. Potrei chiedere di chiamare a casa, o qualche amico, certo, basta fare così… e il numero?» (Arriverà il momento in cui perdere la connessione – o perdere il telefono – sarà peggio che perdere un amico).
E questo è niente, c’è di peggio. La dipendenza dalla tecnologia può renderti incapace di far fronte a imprevisti anche banali con cui ormai non siamo più abituati a confrontarci. I medici gli hanno anche dato un nome, «brain rot», come dire che a forza di dipendere dalla tecnologia il cervello progressivamente si deteriora. C’è anche un altro termine: «digital amnesia» (potresti perdere la memoria perché, a forza di internet e Intelligenza artificiale, non la usi più). Diverse ricerche ci dicono che non è fantascienza ma potrebbe succedere davvero. Per esempio non ricordiamo quasi più i numeri di telefono. Un altro esempio? Chi è abituato a usare il navigatore fa più fatica a ricordare il nome delle strade; e c’è di più, uno studio del 2020 dimostra come la memoria spaziale, di chi usa sempre il Gps per muoversi, si deteriora molto più rapidamente di chi se ne serve poco o affatto.
Qualcuno arriva a dire che Google ci renderà stupidi,ma le cose probabilmente sono più complesse. Anche se, fra il grande pubblico, sono sempre di più quelli che si chiedono «perché devo mettermi in testa un sacco di cose quando ho uno smartphone in tasca e faccio prima a cercare su Google che nella mia memoria?». Una domanda così gli scienziati se la pongono da tanto tempo. Il problema è stato studiato a fondo: gli studi di Betsy Sparrow della Columbia University, nel 2011, dimostrarono che, di fronte a domande complesse, la prima cosa che uno pensa è di andare a cercare la risposta proprio su Google. E s’è visto anche che quello che sappiamo di trovare in internet («Qual è la capitale del Madagascar?») tendiamo a dimenticarlo, mentre ricordiamo con più facilità quello che non troveremo mai in rete.
Ma allora è vero che l’uso frequente di internet indebolisce la memoria?Forse, o forse no: altri ricercatori, fin dal 2018, hanno messo in dubbio l’intera costruzione teorica basata sui dati di Sparrow per il semplice fatto che non sono mai riusciti a riprodurli. Chi ha ragione? A dirla tutta non lo sappiamo ancora; negli ultimi anni ci si è concentrati sul problema del sovraccarico cognitivo per capire se Google, ammesso che indebolisca la memoria, aiuti almeno un po’ a liberare il cervello da cose che non è poi così importante ricordare. Facciamo attenzione però a non confondere l’effetto della tecnologia con quello dell’età (questa sì, tende a indebolire la memoria), senza contare che la gigantesca quantità di informazioni dalle quali siamo bombardati ogni giorno potrebbe darci la falsa impressione di perderla un po’, la memoria.
E l’Intelligenza artificiale? Quale sarà l’effetto sulla nostra memoria? Quanto internet? O forse anche di più? Rispondere a queste domande è ancora più complesso. Strumenti come ChatGPT avranno certamente un impatto sulla nostra capacità di apprendere (e sulla nostra memoria), non necessariamente negativo, tutt’altro, e forse più sofisticato di quanto non sia successo in tutti questi anni con internet. Ma anche qui ci sono opinioni molto diverse: certi scienziati sostengono che gli strumenti basati sull’Intelligenza artificiale cambieranno sicuramente il nostro modo di ricordare, altri invece hanno ragioni per ritenere che l’Intelligenza artificiale generativa avrà qualche effetto sul nostro cervello ma non molto diverso da quello che abbiamo sperimentato con internet.
Il problema è reso ancora più complicato dal fatto che quando ci rivolgiamo a Large Language Models (LLMs)per avere in tempo reale risposte alle nostre domande, potremmo ricevere informazioni sbagliate, se quelle poi si fissano nella nostra testa finiremo per ricordare cose non vere, quando non alterate ad arte. C’è persino il rischio che qualcuno finisca per confondere la memoria dell’Intelligenza artificiale con la propria. E pensare che Socrate considerava vivo solo il linguaggio parlato ed esortava i suoi allievi a tenersi lontani dallo scrivere. Oggi sappiamo che scrivere aiuta a pensare, e chissà che affidarsi all’Intelligenza artificiale non ci faccia perdere almeno un po’ queste capacità. C’è preoccupazione, per esempio, fra i professori delle università di tutto il mondo sul fatto che gli studenti usino l’IA per preparare i loro elaborati, con il rischio di non imparare niente, perché è l’esercizio di scrivere secondo Helen Pearson (giornalista scientifica, per oltre vent’anni a «Nature», autrice di un bellissimo testo pubblicato in questi giorni) che aiuta a pensare in modo critico e ad avere, di conseguenza, idee originali.
Non chiedetemi se sarà davvero così, non lo so, non lo sa nessuno.Il mio parere è che i passi avanti della scienza e della tecnologia di solito fanno più bene che male, e c’è da scommettere che sarà così anche questa volta. Un articolo, pubblicato da «Nature» qualche giorno fa, mostra come l’interazione fra le versioni più avanzate di ChatGPT, per esempio ChatGPT-4, consente di imparare in modo originale e innovativo, ma anche profondo. Secondo Amanda Heidt — scrive anche lei per «Nature» — conversare con chatbot è utilissimo per gli studenti universitari durante il periodo della specializzazione: aiuta a perfezionare il linguaggio, capirne le sfumature, apprezzarne la complessità (a parte il fatto che l’IA ti consente di identificare rapidamente le pubblicazioni di letterati, filosofi o scienziati, per esempio, che ti aiuteranno ad approfondire un determinato argomento senza perdere tempo a cercare quello di cui hai bisogno fra un’enorme massa di informazioni).
C’è chi è scettico comunque, e l’argomento è sempre lo stesso: «La macchina non sostituirà mai l’uomo», «la macchina dà informazioni non veritiere», «facciamo attenzione alle fake news», insomma «guai a voi (studenti) se userete l’Intelligenza artificiale per fare i compiti». Ma la maggior parte degli scienziati sostiene che grazie all’Intelligenza artificiale gli studenti risparmiano un sacco di tempo, imparano moltissimo e le informazioni che vengono da chatbot nella stragrande maggioranza dei casi sono corrette. «L’intelligenza artificiale — leggiamo su “Nature” del 6 marzo — va al di là del saper riassumere e correggere gli errori, adesso gli studenti imparano da “AI professors” anche più e meglio di quanto non succeda a lezione».
Siamo solo all’inizio, sono processi estremamente complessi e per quanto i ricercatori siano al lavoro per capire i rapporti tra questa tecnologia e il nostro cervello non aspettiamoci di avere risultati conclusivi nel giro di poco tempo, in particolare rispetto alla memoria. Certo, perché i ragazzi possano continuare ad avere un cervello capace di leggere nell’era digitale glielo si dovrà insegnare, come si è fatto con i bambini dislessici. Leonardo se l’è cavata da solo, con fatica. «Diranno — scriveva — che essendo senza lettere non potrò farmi capire». Si sbagliava.
Mentre dai diversi fronti di guerra (Ucraina, Medio Oriente, Sudan, ecc.) non arrivano segnali che possano far sperare in un cessate il fuoco in tempi brevi, questa settimana vogliamo proporre un’interessante testimonianza del filosofo Rocco Buttiglione su Papa Giovanni Paolo II e sulla sua posizione nel 2003 di fronte alla guerra in Iraq che stava per scoppiare e che ha poi lasciato uno strascico infinito di morte e distruzione senza arrivare a una vera pacificazione dell’area. «Non contestava – scrive Buttiglione – il diritto dei governi di fare la guerra per tutelare l’ordine internazionale. Era però deciso a chiarire che si trattava di una guerra tutta politica, non una guerra di religione, non una crociata, non una guerra in cui la Chiesa dovesse o potesse prendere partito. Intuiva che quella guerra poteva scatenare un conflitto epocale fra le religioni ed era deciso a fare tutto il possibile per evitarlo. Alla fine del colloquio mi disse: “Noi abbiamo lottato per la verità e la giustizia sotto il regime comunista con le armi della non violenza. Non avevamo altra arma che l’appello alla coscienza dell’avversario e alla fine abbiamo vinto. L’Occidente ha tanti mezzi per convincere Saddam a rispettare l’ordine internazionale. Possibile che si decida comunque, alla fine, di fare ricorso alla forza delle armi?”». Una domanda estremamente attuale anche di fronte agli scenari di guerra di oggi.
Il clima di odio politico che ormai respiriamo quotidianamente in piccola o grande scala ha un’origine religiosa? È quanto sostiene il noto psicanalista Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica. Una tesi che viene contestata dal filosofo Giovanni Maddalena, in un intervento – che vi segnaliamo – sul sito tempi.it, perché «è un pensiero che non tiene conto né della logica né della teologia né, soprattutto, dell’esperienza religiosa effettiva». In questo caso fare di tutte le erbe un fascio non rende giustizia alla realtà dei fatti, anzitutto perché «non tutte le teologie sono uguali».
Uscendo dai luoghi comuni occorre piuttosto considerare cosa sia l’esperienza religiosa. «Tutte le persone religiose, di qualsiasi religione – sottolinea Maddalena -, sanno che il rapporto con Dio è una relazione con qualcosa o qualcuno che è più di se stessi, la cui volontà è altra dalla propria perché è in ultimo misteriosa, ossia ultimamente imperscrutabile, non riconducibile alle dinamiche della mente umana. Come faceva ben capire la filosofia di Gianni Vattimo, una rivelazione che togliesse del tutto il mistero di Dio sarebbe pura secolarizzazione». E allora la violenza della società di oggi, che si esprime nella sua estrema polarizzazione, da dove viene? Nasce piuttosto – spiega Maddalena – «dall’opposto della religione, che è l’idolatria e, modernamente, l’ideologia. Essa significa mettere al posto di Dio qualcosa o qualcuno che non lo è affatto, che risponde o corrisponde ai nostri pensieri umani, e spesso al mero nostro piacere o desiderio, adorandolo come un dio. È un dio che è nostro possesso e di cui diventiamo schiavi». Che lo si chiami ordine sociale, eguaglianza, razza, classe, successo, denaro, partito, gruppo, clan, etc. tutto può essere trasformato in dio. «Lo comprendiamo – conclude il filosofo -, sappiamo che non è dio, che non parla, non comunica niente di diverso da ciò che già pensiamo, ma lo trasformiamo in dio pensando che l’affermazione sua sia l’affermazione nostra. È il dio dei (cattivi) filosofi, il dio della mente che è principio di violenza, mai il Dio vivente delle tradizioni popolari vissute da cuori di carne».
«Leggo per legittima difesa», questa frase di Woody Allen fa da titolo alla quindicesima edizione del Mese Letterario e dice anche molto sul valore della lettura come atto di libertà …