In attesa del Conclave che dovrà eleggere il nuovo papa, nella newsletter di questa settimana ci soffermiamo ancora sulla figura di papa Francesco proponendovi la testimonianza di due giovani siciliani, Giuseppe e Claudia, oggi marito e moglie, che l’hanno conosciuto in un frangente molto complicato della loro vita.
Claudia e Giuseppe con papa Francesco nel giorno del loro. matrimonio
La riprendiamo dall’articolo, pubblicato sul sito del movimento di Comunione e Liberazione, che vi invitiamo a leggere. È la storia di un’amicizia imprevedibile, una testimonianza che parla da sola per la sua semplicità e per la straordinaria intensità di vitache comunica.
Mese Letterario, giovedì si comincia
Conto alla rovescia per il Mese Letterario. Giovedì 8 maggio alle 20.45si comincia con il primo incontro su Luigi Pirandello tenuto da Valerio Capasa. Chi non si fosse ancora iscritto può farlo online sul sito dell’Associazione Mese Letterario – utilizzando questo link– che organizza la rassegna in collaborazione con la Fondazione San Benedetto. Tutte le serate in programma si svolgono a Brescia, nell’auditorium Capretti degli Artigianelli, in via Avogadro 23 (disponibile il parcheggio interno). Quella di quest’anno è la quindicesima edizione del Mese Letterario e ha come titolo una frase di Woody Allen: «Leggo per legittima difesa». Una frase che dice molto sul valore della lettura come atto di libertà in un mondo in cui si legge sempre meno. Oltre all’incontro di giovedì 8, il secondo appuntamento sarà giovedì 15 maggio, con Edoardo Rialti, dedicato ai tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide. L’ultimo incontro, giovedì 22 maggio, con Stas’ Gawronski sarà invece sullo scrittore americano, scomparso nel 2023, Cormac McCarthy, autore di opere memorabili come «La strada», «Non è un paese per vecchi», «Il passeggero».
Peppe, Claudia e la compagnia del Papa
Marito e moglie, siciliani, raccontano l’imprevedibile amicizia con Francesco nata in un momento difficile. Fino al loro matrimonio e al battesimo di Clarissa
In questi giorni tante cose sono state dette e scritte su papa Francesco. Ma sono le storie più nascoste, fatte di gesti teneri, discreti e paterni, a rivelarci tanto di chi è stato veramente Jorge Mario Bergoglio. Una di queste è l’amicizia che ha legato il Santo Padre a Giuseppe Russo, detto Peppe, e Claudia. Entrambi siciliani – lui ingegnere chimico e lei insegnante di sostegno con alle spalle una laura in filosofia ebraica e un master in cultura ebraica – si conoscono dai tempi dell’università. Peppe, che a 12 anni aveva perso la mamma per un tumore, aveva incontrato Gioventù Studentesca al liceo («fu la risposta al mio grido, quella compagnia mi aiutò a capire che non ero stato ingannato da Dio») e poi proseguito il cammino dentro il CLU (Comunione e Liberazione Universitari). Quando conosce Claudia, anche lei inizia a frequentare il movimento di CL. I due si fidanzano nel 2010 e dopo qualche tempo progettano di sposarsi.
Qualcosa di molto brutto, però, scombussola i piani. È Giuseppe a raccontare. «La data delle nozze era fissata per il 7 ottobre 2017, nella bellissima basilica di San Francesco D’Assisi a Palermo. Qualche mese prima però iniziai a non sentirmi bene, un dolore al fianco scambiato per colecisti che peggiorava costantemente. Alcuni amici medici, tra cui Patrizio (attuale responsabile del movimento a Palermo ndr) si mobilitarono subito e a dicembre arrivò la diagnosi: miocardiopatia dilatativa congenita». Serviva un trapianto, urgente. «Ma di cuori a disposizione in Italia ce ne sono pochi. Così venni messo in lista d’attesa e nel frattempo decisero di impiantarmi una pompa artificiale per sostituire il ventricolo sinistro. Avrei dovuto tenerla un anno, invece mi ha fatto compagnia per i successivi tre». La cosa è complessa, fastidiosa: la protesi è infatti sia interna sia esterna, ha una batteria per cui è impossibile anche solo farsi la doccia, va costantemente medicata ed è l’unica alternativa in attesa di un cuore nuovo. Il che significa un limbo senza fine. Il matrimonio viene sospeso, Claudia però rimane a fianco di Giuseppe e nel tempo libero studia meticolosamente – quasi da infermiera – come curarlo e assisterlo al meglio. «Ero arrabbiato con Dio e così, su consiglio di un ragazzo trapiantato che era in stanza con me, decisi di scrivere a papa Francesco».
La lettera di Peppe, inviata nel gennaio del 2017, inizia così: «Sono Giuseppe Russo (Peppe), un ingegnere chimico siciliano e faccio parte di CL dal 2006 (…) Io sono certo della mia fede intesa come esistenza di Dio, ma non riesco a non pensare che mi abbia fregato nonostante le belle persone che ho intorno (…) Se ti va o se hai tempo, vorrei sapere cosa ne pensi». Gli lascia mail e numero di cellulare. Si dimentica di quella missiva, finché il Sabato santo non riceve una chiamata da un numero sconosciuto. Dall’altro capo del telefono c’è il Santo Padre: si scusa per non averlo chiamato prima, dice di aver perso la lettera e di averla ritrovata solo quella mattina. Dopo una breve chiacchierata, invita i due giovani in Vaticano. Ma prima di chiudere la telefonata, ricorda dolcemente al ragazzo: «Guarda che anche a Gesù non è stato risparmiato niente». Il giorno dopo, durante la benedizione Urbi et Orbi, cita parte della loro telefonata davanti a tutta la folla riunita in San Pietro, andando a braccio e lasciando perdere il discorso scritto. «La settimana dopo, domenica della Divina Misericordia, andammo da lui. Quel giorno il Vangelo ricordava l’incredulità di Tommaso e io mi sentivo esattamente così: avevo bisogno di toccare con mano, di vedere per credere».
L’incontro durerà tre ore. Ed è Claudia a ricordarne i dettagli: «Ci fece entrare in una saletta spoglia, eravamo solo noi tre. Parlammo di tutto. Della paura del dolore, dell’attesa del trapianto e dell’incertezza che vivevamo anche rispetto al nostro matrimonio, ma anche dei nostri studi, dei desideri, dell’appartenenza a CL e anche della fatica di non essere compresi da alcuni amici. Lui ci raccontò della morte di suo padre – un infarto per aver tifato troppo durante una partita di calcio della sua squadra del cuore – della fede trasmessagli dalla nonna, della sua vita da Papa. Ma era soprattutto nei gesti che diceva tutto. Pensa che alle 18 Peppe doveva prendere una pillola per il cuore, glielo avevamo accennato all’inizio dell’incontro, e fu lui a ricordarsene! Ridemmo anche tantissimo, era molto ironico. E valorizzava tutto di noi. Anche la rabbia. Ci disse che la rabbia era segno di un dialogo con Dio, aveva un senso se in dialogo con il Signore».
In tutti gli incontri e le telefonate degli anni successiviFrancesco sarà sempre così: attento, premuroso, scherzoso. Un padre. «Ci chiamava nelle feste comandate ma anche a caso, magari all’ora di cena, solo per sapere come stavamo e assicurandoci sempre che per Peppe sarebbe arrivato un cuore da trenta e lode. Come un amico, senza orari e senza calcolo, si faceva sentire, ci rassicurava sul futuro e in una telefonata dell’11 febbraio 2018 – anniversario della Madonna di Lourdes e del riconoscimento della Fraternità – ci disse proprio che secondo lui non doveva aspettare il trapianto per sposarci. Ce lo ripeterà altre due volte. Noi avevamo il desiderio grandissimo di diventare marito e moglie, ma la malattia ci spaventava. Lui ci accompagnò in questo e così decidemmo di rischiare tutto e di fidarci. Glielo scrivemmo, osando chiedergli di celebrare lui le nozze. Ci rispose subito proponendoci delle date».
Il 3 novembre 2018 papa Francesco li sposa in Vaticano, alla presenza di amici e parenti. «Organizzò tutto lui: telefonava per sapere che fiori e che coro preferissimo, quanti amici volevamo invitare, si preoccupò perfino di trovare una chiesa sufficientemente grande perché gli avevamo confessato, ridendo insieme, che i matrimoni del Sud e perlopiù di CL non potevano avere meno di 130 invitati. Si occupò di tutto come un amico caro. E quel giorno arrivò da noi tenendo in mano due regali: un’icona della Madonna col Bambino e un dono che due suoi amici ebrei di Buenos Aires vollero farci».
Dopo il matrimonio la corrispondenza continuerà,assidua, spesso con chiamate, email o lettere. I due giovani scelgono in quel periodo di non rendere pubblico questo legame speciale, ma appuntano tutto per non dimenticare. E soprattutto insieme al Papa pregano perché si trovi un cuore disponibile per il trapianto, perché in quegli anni due brutti ictus complicano il già precario quadro di salute di Peppe.
Il 4 giugno 2020 – durante i mesi concitati del covid – l’organo finalmente arriva. Giuseppe si sottopone a una lunga operazione e Francesco chiamerà ogni giorno Claudia per avere notizie. L’anno seguente è complicato: un parziale rigetto mette molto alla prova i due giovani sposi. Soprattutto li addolora il fatto di non aver avuto ancora figli. Ma Francesco è sempre presente, e ogni anno a giugno, il giorno dell’anniversario del trapianto, incontra i due ragazzi in Vaticano. Chiacchierano, li confessa, Claudia gli confida il sogno di poter diventare mamma e Francesco la invita a pregare San Giuseppe e Santa Teresina. Lei ancora una volta si affida e recita la novena al Sacro Manto.
Nel 2023 due loro amici – Cristiana e Luca, anch’essi di CL – partecipano ad un’udienza papale insieme ad altri novelli sposi. Quando Bergoglio sfila con la papamobile, riescono a dirgli velocemente di avere in comune quell’amicizia. Lui torna indietro, si ferma, chiede della salute di Giuseppe e poi si raccomanda: «Dobbiamo pregare perché Dio doni loro un figlio». Nel giugno di quell’anno Claudia rimarrà incinta e dopo nove mesi nascerà Clarissa. Francesco la battezzerà in Santa Marta il 3 giugno 2024.
«È l’ultima volta che lo abbiamo visto. Abbiamo conservato le foto di quel giorno, con nostra figlia che, in braccio al Papa, gli ciuccia la mano. Ci ha sempre invitati a non perdere la speranza, ad avere fiducia e noi lo abbiamo seguito. In queste ore ci manca moltissimo, siamo addolorati. Solo che questa volta non pensiamo più a una fregatura di Dio, anche se siamo curiosi di vedere come il Signore ci conquisterà ancora, come ci mostrerà ancora di amarci. Abbiamo visto che è già accaduto nelle nostre vite: Dio ci ha indicato la strada prima facendoci incontrare CL da ragazzi e poi col dono di questa amicizia incredibile e speciale col Papa. Una strada che continua oggi con la nostra famiglia, con Clarissa e con gli amici del Movimento».
In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.
Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita».
Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne». È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani.
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.