Giovedì 29 maggio a Brescia, a Palazzo Loggia, si è tenuto l’incontro in occasione dei vent’anni della Fondazione San Benedetto. Il Salone Vanvitelliano gentilmente messo a disposizione dalla sindaca Laura Castelletti, era al completo con una platea attenta che ha seguito per oltre un’ora e mezza il dibattito: prima il discorso del professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, poi il racconto di tre giovani cresciuti nella San Benedetto (Laura Ferrari, Matteo Comini e Nicola Aggogeri) e gli interventi dei tre ex sindaci di Brescia Paolo Corsini, Adriano Paroli e Emilio Del Bono. Un dialogo che si è sviluppato attorno al libro che ripercorre i vent’anni della fondazione e concluso dall’intervento del presidente Graziano Tarantini. Tra il pubblico presenti diverse personalità e rappresentanti del territorio a cominciare dal vescovo di Brescia monsignor Tremolada. Nei prossimi giorni sarà online sul nostro sito il video integrale.
Il Salone Vanvitelliano ha ospitato l’incontroLa sindaca Castelletti e il vescovo mons. Tremolada
Oggi, anziché riproporvi un riassunto di quanto è stato detto che, vista la ricchezza di contenuti, sarebbe inevitabilmente incompleto e parziale, vogliamo soffermarci, senza la pretesa di un discorso organico, solo su alcune parole che, nei diversi interventi che si sono succeduti, hanno fatto da filo conduttore dell’incontro e che in qualche modo descrivono anche il percorso compiuto fino a oggi e quello che intendiamo fare. Nulla di autoreferenziale o di celebrativo, ma la condivisione di un percorso aperto a tutti.
Matteo Comini, Nicola Aggogeri e Laura Ferrari
GRAZIE. È la parola che più è echeggiata nei vari interventi e mai in modo formale. Anzitutto perché, nel suo piccolo, quanto è sbocciato in questi venti anni è andato ben al di là di ogni legittima aspettativa o progetto, sorprendendo spesso anche chi la San Benedetto concretamente l’ha fatta giorno dopo giorno. È un corpo vivo che è cresciuto con l’apporto di molte persone e, tra queste, in particolare di alcuni amici che oggi non sono più tra noi: Adriano Gandolfi, Vitaliano Gaidoni, Attilio Camozzi, Enrico Consolie, solo da pochi mesi, Paolo Fumagalli. Quest’ultimo è stato ricordato in modo commosso, alla fine dell’incontro, dal presidente della San Benedetto Tarantini che ripercorrendo i passi di una grande amicizia e di una vita condivisa nel lavoro, nell’attività professionale, nella passione ideale, nel servizio a chi più ha bisogno, ha aggiunto: «Abbiamo soprattutto sperimentato che ogni persona è come è guardata, diventa come è guardata». Una sintesi quanto mai chiara anche di ciò che sta al cuore della proposta della fondazione.
Graziano Tarantini
E un grazie a sorpresa è quello arrivato in video da Giacomo Poretti, il noto attore del famoso trio, che ha voluto esprimere la sua gratitudine alla San Benedetto per l’aiuto ricevuto nell’avvio del Teatro Oscar a Milano.
COMUNITÀ PENSANTI. Il percorso della San Benedetto è quello di una realtà a cui la sindaca Castelletti riconosce una certa capacità di visionenel saper anche anticipare temi e provocare dibattiti. Per Vittadininella fondazione ci sono le tracce di una «comunità pensante» (la definizione è di Luciano Violante) che si innesta in una storia popolareche a Brescia, soprattutto in ambito cattolico, ha una tradizione molto radicata. La riprende anche Corsini. Ricorrono i nomi di Paolo VI, di Giuseppe Tovini, di Giuseppe Camadini. Ma è un legame che non guarda mai al passato. Pochi giorni fa è morto il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre che nel 1981 riflettendo sull’esperienza di Benedetto da Norciasottolineava che questo davanti al crollo della civiltà non si preoccupò di puntellare l’impero romano in declino ma si dedicò alla costruzione di nuove forme di comunitàin cui la vita potesse essere sostenuta. Questa è anche la sfidadella San Benedetto. Una comunità nella quale il centro è l’uomo, la persona con le domande fondamentali che costituiscono il suo cuore. «Un uomo che non si ferma a dire “non è possibile”, che non si rassegna al fatto che l’orizzonte sia definito dall’egoismo dei singoli», dice Vittadini.
Giorgio Vittadini
«Noi abbiamo bisogno di luoghi di umanità nei quali nessuno si senta stigmatizzato o giudicato prima ancora di avervi messo piede. Questi luoghi sono una ricchezza per la comunità», senza di essi la stessa sostanza della democrazia viene svuotata, sottolinea Del Bono. Comunità locali che costruiscono il bene comune e che diventano «il terzo pilastro» fra lo Stato e il mercato, come ha spiegato l’ex governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan, citato da Vittadini.
IL CAFFÈ.Vittadini: «A Milano nelle seconda metà del ‘700 è nato “il Caffè”, un giornale che era l’espressione dell’illuminismo cittadino. Lì i lumi non hanno tagliato le teste, ma favorito il progresso, la Chiesa non era oscurantista ma ha partecipato al processo risorgimentale con Manzonie D’Azeglio, con “Dei delitti e delle pene” di Beccaria si è pensato a un altro modo di fare giustizia che oggi chiameremmo riparativa. Nel Caffè è nata una cultura che ha fatto di Milano una città diversa. Ecco il Caffè di Brescia oggi è la Fondazione San Benedetto. Io spero che ci siano tanti altri caffè».
CERCARE IL SENSO.Corsini: «Tutta l’attività della fondazione, compreso il Mese Letterario, scaturisce da una disposizione alla ricerca e alla produzione di senso e questo è straordinario in un tempo di disincanto, di demistificazione dell’esperienza della vita. Papa Bergogliodiceva: “Dovete restare assetati, vale la domanda e la qualità delle attese”. A me pare che l’esperienza della San Benedetto sia riconducibile a questa dimensione».
Paolo Corsini
Del Bono: «Il Mese Letterario, la riflessione culturale, la sfida educativa, mi piacciono per come sono impostati. Non la conferenza dotta, dove si va alla ricerca dello stilema o del professore più bravo del mondo che fa l’esegesi, ma la letteratura come un pezzo fondamentale della ricerca del senso della propria esistenza. Non un luogo che ti trasferisce un sistema di valori dall’alto, ma ti aiuta a cavar fuori da te quel sistema di valori. I tuoi diritti naturali li hai nel cuore, e allora bisogna cercare ciò che ti aiuta a tirarli fuori. E a innescare questa ricerca può essere una curiosità, una passione, una parola che non avresti mai immaginato di ascoltare. Ciascuno arriva a quel punto attraverso strade sue. E questa è la cosa bellissima di un percorso che vede la cultura come uno strumento, non come qualcosa di fine a se stesso, non come un abbellimento o uno specchio nel quale guardarsi in modo un po’ narcisistico. Non è vero che i ragazzi sono vuoti o privi di quella passione che ha bisogno solo di essere riaccesa. Basta col pessimismo».
Emilio Del Bono
CORPI INTERMEDI.Vittadini: «Non si tratta di pensare una terza via sociale. Il liberismo e l’idea di uno stato hobbesiano sono modelli vecchi. Bisogna partire da un uomo che desidera costruire comunità. E questo ha un risvolto diretto sulla democrazia alla quale non bastano le libere elezioni ma servono i corpi intermedi. Questi mettendosi insieme costruiscono una democrazia reale. Se invece si fanno elezioni libere in paesi dove non ci sono corpi intermedi vengono fuori i Putin e gli Erdogan. Una cosa che gli americani non hanno capito».
EUROPA. Del Bono: «La sussidiarietà: a me interessa questo rapporto tra il globale e il locale, tra la territorialità e una dimensione più grande. Se usciamo da un approccio ideologico, strumentale o egoistico, lì possiamo trovare un pezzo di soluzioni alla complessità che stiamo vivendo. E poi l’orizzonte europeo: è l’unico che possiamo consegnare alle nuove generazioni come prospettiva di pace, di serenità e di sviluppo».
SVILUPPO.Vittadini: «Lo sviluppo non è quel accumulo di pilche poi si distribuisce per fare un po’ di educazione, più uguaglianza, la sanità, ecc. Occorre guardare al bene della persona. Un’impresa che fa altissima tecnologia ha bisogno di uomini che hanno una vita sociale, che stanno bene, che hanno relazioni, che fanno figli, così la produttività migliora. Nello stesso tempo abbiamo bisogno di un’economia dove non si distrugga l’altro (l’idea dei distretti). Un’economia che sia al servizio. Da qui nasce il welfare. La persona dà il meglio di sé quando viene educata alla creatività, al lavorare insieme. Il contrario del taylorismo».
Il libro dedicato ai vent’anni della San Benedetto
INCONTRI FUORI DAL RECINTO.Corsini: «Qui trovo un cattolicesimo civile profondamente rispettoso della dimensione della laicità perché altrimenti non si invita Giuliano Ferrara, Luciano Violante, Adriano Sofri, Giuliano Amato. Una disposizione che definisce la propria identità cristiana nel segno di una piena accettazione della laicità e del pluralismo». Paroli: «Questi incontri stupiscono, una fondazione che ha una radice cattolica ma non si chiude. E allora invita Sofri. Incontri nei quali è fondamentale superare questa necessità così diffusa oggi di guardarsi allo specchio, di accomodarsi nella propria comfort zone. Anche in politica oggi si evita il confronto. Invece un luogo che evoca un dibattito, un confronto intelligente fa bene. Personalmente dall’incontro sull’Europa con Prodiche la fondazione ha promosso io sono uscito respirando».
NEL POSTO GIUSTO.Paroli: «Troppe volte mi trovo in luoghi nei quali mi chiedo “cosa ci faccio qui, forse dovrei essere da un’altra parte”. Ecco invece la sensazione chiara che mi viene rispetto alla San Benedetto, ogni volta che mi capita di partecipare a un incontro, è: “mi trovo nel posto giusto”».
Adriano Paroli e il moderatore Marco Bardazzi
LIBANO. La San Benedetto in questi anni ha sostenuto diversi interventi di aiuto in Libano. Tra le ultime iniziative, che erano state seguite direttamente da Paolo Fumagalli, l’apertura a Beirutdel Cafè Agonista, un’impresa sociale nel settore della pasticceria che fa lavorare 20 ragazzi con disabilità intellettive. Nelle prossime settimane tre di questi ragazzi arriveranno a Brescia per fare un tirocinio formativo da Iginio Massari (presente all’incontro in Loggia), con il sostegno della fondazione e del Club Papillon di Paolo Massobrio.
Iginio Massari e Paolo Massobrio
In questi giorni invece alcuni amici della San Benedetto sono in Libano dove sarà scoperta una targa in ricordo di Fumagalli nei locali di Cafè Agonista e per inaugurare la nuova panetteria George Bakery (altra iniziativa fortemente voluta sempre da Fumagalli). E ancora nel segno del Libano si è concluso l’incontro con un’altra sorpresa: un video fatto in occasione del primo viaggio a Beirut nel 2016 in cui un gruppo di ragazzi libanesi suona l’inno di Mameli. E tutto il pubblico del Vanvitelliano alle prime note è scattato in piedi.
Il pubblico in piedi ascolta l’inno nazionale suonato dai ragazzi di Beirut
Online tutti i video del Mese Letterario 2025
A questo link trovate i video del tre serate del Mese Letterarioche si è appena concluso e il trailerdella quindicesima edizione.
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.
È un tema scomodo quello che affronta Susanna Tamaro nel suo ultimo libro «La via del cuore». Parla della nostra trasformazione, della crisi della nostra umanità, di un processo in atto che ci riguarda nel profondo. Nella newsletter di questa settimana vi segnaliamo la lettura dell’articolo che la stessa Tamaro ha scritto per il Corriere della Sera in occasione dell’uscita del libro. Cita Romano Guardini che più di sessant’anni fa parlava di un «potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male». È quanto sta avvenendo oggi in modo accelerato con «l’irrompere nella nostra vita dello smartphone e dei social», con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini. «Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità – scrive Susanna Tamaro -, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego». Siamo immersi in un «lunapark di distrazioni» che al fondo è segnato da un «odio per la vita» che non è più «un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi». La postura dell’uomo contemporaneo, come sosteneva Hannah Arendt, diventa così il risentimento. Eppure si può invertire la rotta. «Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra – conclude Tamaro – e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura (la via del bene e la via del male) e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male».