In queste settimane diverse persone ci hanno chiesto suggerimenti di letture per l’estate. Negli anni scorsi a questi consigli abbiamo sempre dedicato l’ultima newsletter prima della pausa estiva a fine luglio. Quest’anno ve li anticipiamo di qualche settimana con la newsletter di oggi. Si tratta solo di alcune proposte, perché come abbiamo scritto più volte, al di là dei titoli consigliati, il primo invito è sempre a leggere. Prendere in mano un libro, scegliere di leggere un testo, è sempre un atto di libertà che poco o tanto porta a mettersi in gioco e a non consegnarsi semplicemente al flusso delle cose e delle informazioni. Lo spunto che ci ha spinto ad anticipare i nostri consigli di lettura ci è stato dato dalla pubblicazione pochi giorni fa sul settimanale La Voce del popolo di un articolo di Piergiorgio Chiarini (che potete rileggere sotto) su Vasilij Grossman, lo scrittore nato in Ucraina da una famiglia ebrea, autore di un’opera memorabile come «Vita e destino» ma anche di «Tutto scorre» e «Il bene sia con voi!». Tutti libri (editi da Adelphi) che segnaliamo, ancora di più in questo momento in cui la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi. Grossman è un «figlio di quella terra, ha vissuto un altro conflitto, la seconda guerra mondiale, e la stagione dei totalitarismi, ma – si sottolinea nell’articolo – non ha lasciato che fosse il male a dire l’ultima parola. Le sue pagine sarebbero da rileggere oggi in un’ora in cui lo spettro della guerra torna ad allungarsi sull’Europa».
Vasilij Grossman sul fronte di guerra in Germania nel 1945
Oltre alle opere di Grossman, vogliamo proporvi altre tre letture.
¤ Angelo Scola, «Nell’attesa di un nuovo inizio – Riflessioni sulla vecchiaia» (Libreria Editrice Vaticana): ricca e densa meditazione, a metà tra il dato di pensiero e l’esperienza, sulla vecchiaia e i suoi significati umani e spirituali da parte di una delle personalità di Chiesa più conosciute a livello internazionale. La vecchiaia, oggi, è un’età della vita considerata “di scarto” dalla società: l’autore, invece, ne riabilita il valore pieno e autentico, identificando pure il senso profondo del rapporto tra vecchiaia, compimento di un’esistenza e attesa per la resurrezione. Un piccolo testo, un gioiello di sapienza e di umanità. Con prefazione di Papa Francesco.
¤ Javier Cercas, «Il folle di Dio alla fine del mondo» (Guanda): un ateo, anticlericale laicista militante, un razionalista ostinato, un empio rigoroso. Sono queste le definizioni con cui lo scrittore spagnolo Javier Cercas si presenta all’inizio del suo nuovo libro, in cui racconta il suo viaggio in Mongolia dal 31 agosto al 4 settembre 2023 insieme a Papa Francesco. Cercas accetta l’invito inedito del Vaticano a partecipare al viaggio a una condizione: poter chiedere personalmente al Papa se dopo la morte riabbracceremo davvero le persone più care. Ne uscirà un racconto pieno di incontri avvincenti e di sorprese dalla prima all’ultima pagina.
¤ Giancarlo Cesana, «L’interminabile ‘68» (Liberilibri): come è cambiata la nostra società negli ultimi decenni? Come ha influito sulla sua struttura il radicale abbandono del cristianesimo? La scomparsa della religione cattolica dalle menti e dalla vita della maggior parte delle persone è un fenomeno storico di straordinaria importanza, troppo poco indagato nelle sue conseguenze sociali, politiche, morali. Giancarlo Cesana s’interroga su questo fenomeno con lucidità e spregiudicatezza, guardando agli ultimi sessant’anni di storia del nostro Paese, che l’hanno visto in prima fila in molti eventi importanti, da una prospettiva ormai sempre più minoritaria e proprio per questo originale e degna di riflessione. Prefazione di Giuliano Ferrara.
Quella forza dell’umano
di Piergiorgio Chiarini
da La Voce del Popolo – 26 giugno 2025
Da più di tre anni ci siamo «abituati»(sì, purtroppo ci si abitua anche all’orrore) alle notizie e alle immagini della guerra che arrivano dall’Ucraina. Quasi non ci facciamo più caso. C’è uno scrittore, figlio di quella terra, che ha vissuto un altro conflitto, la seconda guerra mondiale, e la stagione dei totalitarismi, ma che non ha lasciato che fosse il male a dire l’ultima parola. Le sue pagine sarebbero da rileggere oggi in un’ora in cui lo spettro della guerra torna ad allungarsi sull’Europa. È Vasilij Grossman. Ha attraversato tutte le atrocità e le menzogne del Novecento, che lui definirà il «secolo canelupo». Ne è stato toccato sulla propria pelle. Sua madre fu uccisa nel 1941 all’inizio dell’occupazione nazista dell’Ucraina, quando in soli tre giorni vicino a Kiev furono sterminati trentamila ebrei. Lui che, a quel tempo, si trovava a Mosca, lo scoprirà solo tre anni dopo.
Persecuzione.A guerra finita Grossman dovrà invece subire l’ostracismo e la persecuzione del totalitarismo sovietico, sia di quello di marca staliniana che del nuovo corso di Krusciov. La sua colpa è imperdonabile: aver documentato nella sua opera narrativa che nazismo e comunismo «sono l’uno lo specchio dell’altro» perché identico è il loro principio ideologico. Il suo percorso però imprevedibilmente non lo porta a un cinismo disilluso, ma a scoprire «la forza dell’umano nell’uomo» come inizio di una speranza possibile anche nelle circostanze più terribili. E che tutto questo arrivi da uno scrittore agnostico, formatosi nel clima plumbeo del terrore staliniano, inviato di guerra al seguito dell’Armata Rossa, è ancora più sorprendente. La conoscenza di Grossman in Italia è relativamente recente. Morto nel 1964, è rimasto quasi sconosciuto in Occidente fino agli anni ’90. In Italia il suo capolavoro «Vita e destino» sarà pubblicato solo nel 1984 dalla Jaca Book e poi riproposto da Adelphi dal 2008. Il manoscritto molto voluminoso arrivò fortunosamente in Svizzera all’inizio degli anni ’80 grazie ai microfilm che il fisico Andrej Sacharov, non ancora finito sotto il controllo del regime, era riuscito a realizzare. Eppure siamo di fronte a uno scrittore della levatura di due Nobel come Solzenicyn e Pasternak. In Russia per vedere le sue opere pubblicate occorrerà attendere la caduta del comunismo. Nel 1961 Michail Suslov, l’ideologo del Pcus (il partito comunista sovietico) aveva dichiarato «Vita e destino» «non pubblicabile prima di duecento anni» giudicandolo «più pericoloso delle atomiche americane». È la conferma che ciò che può davvero scardinare il potere totalitario non sono gli armamenti, ma «la forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo». Una forza che «nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogare», come noterà Grossman nella Madonna Sistina, il suo racconto più bello scritto nel 1955 in occasione dell’esposizione a Mosca del quadro di Raffaello prelevato dai sovietici a Dresda durante l’avanzata nel 1945.
Contraddizioni. Lui arriva a tale consapevolezza attraverso un percorso segnato anche da grandi contraddizioni. Da comunista ortodosso che durante il terrore staliniano degli anni ’30 aveva visto spazzare via amici e parenti senza che lui proferisse parola in loro difesa, dopo la tragedia della guerra e la scoperta della Shoah (sarà tra i primi a entrare con le truppe sovietiche nel campo di sterminio di Treblinka) assisterà allo scatenarsi della campagna antisemita degli anni 1949-53, all’arresto in massa degli ebrei, alla montatura del processo contro i medici «avvelenatori». I nazisti avevano eliminato gli ebrei e i liberatori comunisti adesso stavano facendo come loro.
Vita e destino.È il romanzo «Vita e destino» a segnare lo svolta. La prima idea del suo capolavoro Grossman l’aveva avuta quando da inviato di guerra era stato sul fronte della battaglia di Stalingrado. Testimone oculare, non protetto in qualche retrovia, aveva cominciato a raccontare «la spietata verità della guerra» con le sue corrispondenze per il giornale dell’Armata Rossa. Da qui il primo abbozzo di una grande opera che desse conto di quel terribile periodo vissuto attraverso le vicende di una famiglia con le sue ramificazioni, divisioni e incomprensioni di fronte all’incedere della storia. Tra le decine di personaggi, che si alternano nelle quasi mille pagine del libro, ci sono lo stesso Grossman rappresentato dal fisico nucleare ebreo Victor Strum e alcuni suoi familiari. Leggiamo di madri che piangono figli perduti, di soldati e commissari politici, di lager e gulag e delle anime perse che li abitano, di aerei in fiamme e amori infranti, di eroi e di esseri abietti. In questo racconto, che non ci risparmia nulla, non è mai interrotto il filo che, dentro uno scenario di male e di sofferenza, racconta anche del bene, del «piccolo bene» direbbe Grossman. Racconta, per esempio, di una vecchina a cui i tedeschi hanno bruciato il villaggio. Un giorno due soldati entrano in casa sua e le ordinano di accudire un compagno ferito. Lei prova rabbia nei confronti di quell’uomo, basterebbe poco per soffocarlo. E invece lo solleva, gli offre dell’acqua. Perché lo fa? Neppure lei sa spiegarselo. La donna riscopre in sé qualcosa che credeva di aver perduto, la bontà. Una cosa illogica, piccola, istintiva, senza testimoni e senza grandi teorie. È debole, fragile e questo è il segreto della sua immortalità. «In questa epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa» scrive Grossman. Il riemergere della speranza di un bene è più forte della cappa dell’ideologia e della violenza.
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.
È un tema scomodo quello che affronta Susanna Tamaro nel suo ultimo libro «La via del cuore». Parla della nostra trasformazione, della crisi della nostra umanità, di un processo in atto che ci riguarda nel profondo. Nella newsletter di questa settimana vi segnaliamo la lettura dell’articolo che la stessa Tamaro ha scritto per il Corriere della Sera in occasione dell’uscita del libro. Cita Romano Guardini che più di sessant’anni fa parlava di un «potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male». È quanto sta avvenendo oggi in modo accelerato con «l’irrompere nella nostra vita dello smartphone e dei social», con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini. «Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità – scrive Susanna Tamaro -, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego». Siamo immersi in un «lunapark di distrazioni» che al fondo è segnato da un «odio per la vita» che non è più «un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi». La postura dell’uomo contemporaneo, come sosteneva Hannah Arendt, diventa così il risentimento. Eppure si può invertire la rotta. «Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra – conclude Tamaro – e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura (la via del bene e la via del male) e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male».