Non ci arrendiamo alla perdita del senso della vita
Non ci arrendiamo alla perdita del senso della vita
Data 19 Luglio 2025
Ci possiamo rassegnare passivamente al fatto che la nostra vita non abbia un senso? Nei giorni scorsi Repubblica ha pubblicato l’intervento fatto durante un incontro a Orzinuovi dal filosofo Umberto Galimberti. La sua conclusione è che di fronte al potere sempre più pervasivo del «mondo della tecnica», nel quale l’uomo non è più chiamato a «esistere» ma semplicemente a «funzionare», reperire un senso per la propria esistenza è «praticamente impossibile».
Il filosofo Umberto Galimberti
Davanti a un’affermazione così tranchant non potevamo restare indifferenti. Come Fondazione San Benedetto abbiamo voluto replicare a Galimberticon una lettera pubblicata sul Giornale di Bresciache vi invitiamo a leggere (se volete dirci cosa ne pensate potete scriverci a info@fondazionesanbenedetto.it). Il nostro unico e vero scopo, che sta all’origine di tutto quanto facciamo e proponiamo, è proprio quello di non arrendersi alla perdita del senso della vita, che vorrebbe dire smarrire se stessi. In questo don Giussani, a cui il nostro percorso si ispira, ci è stato maestro e testimone impareggiabile.
Nella nostra lettera abbiamo sottolineato che l’esperienza sovrabbondante della bellezza che la realtà continuamente ci offre è l’invito più potente a non rassegnarci al fatto che la nostra vita non abbia senso. Una testimonianza di questa bellezza, dai caratteri estremamente drammatici, è il dialogo fra Pier Paolo Pasolinie Giovanni Testoridi fronte ai dipinti del Romanino nella Cappella del Sacramento della chiesa di San Giovanni a Brescia, proposto una decina di giorni fa durante la Summer School dell’associazione «Il rischio educativo». Ora, come promesso, potete trovare i testi di quel dialogo appassionante sul nostro sito a questo link.
La nostra risposta a Galimberti
dal Giornale di Brescia – 16 luglio 2025
«Oggi c’è ancora un orizzonte di senso per la nostra esistenza?».Se lo chiede il filosofo Umberto Galimbertiall’inizio del suo intervento, pubblicato da Repubblica e tenuto nei giorni scorsi a Orzinuovi nell’ambito della rassegna «Filosofi lungo l’Oglio». La sua è un’analisi molto interessante e acuta della nostra condizione attuale nel «mondo» della tecnica la quale non è più semplicemente «un mezzo a disposizione dell’uomo». Questi per la prima volta vive «privo di un orizzonte di senso perché la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso». La tecnica semplicemente «funziona».Impressionante la risposta di Heidegger citata da Galimberti: «Tutto funziona. Questo è l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre verso un ulteriore funzionare, senza uno scopo finale. E così la tecnica strappa e sradica sempre più l’uomo dalla terra».
Martin Heidegger
Parole dette nel 1966 che descrivono perfettamente il mondo di oggi. In questa situazione a nulla serve un appello all’etica. Giustamente Galimberti osserva che l’etica «al massimo può mettere in guardia, può invocare, ma così diventa pat-etica». Tutto però finisce lì. La battaglia è già persa, prima ancora che sia stata combattuta. La conclusione di Galimberti è uno sconcertante vicolo cieco. Non ci sono vie d’uscita o punti di fuga. Reperire il senso della propria esistenza, per l’uomo d’oggi ridotto a funzionare, «è praticamente impossibile». Punto, stop. È la fine anche di ogni filosofia. Siamo dunque destinati a consegnarci, corpo e anima, a questo orizzonte angusto e soffocante, sparendo definitivamente quando non saremo più in grado di «funzionare» e di garantire performance adeguate? Lucida disperazione.Non sappiamo se a qualcuno dei tanti – immaginiamo – che alcune sere fa erano in piazza a Orzinuovi, sia venuto un sussulto o abbia avvertito in sé un moto di intima ribellionea sentire Galimberti concludere che reperire un senso è impossibile. Certamente oggi il mondo della tecnica, fino alle sue ultimissime declinazioni legate all’intelligenza artificiale, ha una pervasività mai vista e ci spalanca di fronte scenari del tutto inediti che possono rendere ancora più impervio il percorso di ricerca di un senso, anche se in nessuna epoca questo è stato facile o automatico. Veniamo al mondo portandoci dentro una struttura di promessa di senso, di verità, di bene e di bellezza, che può essere magari tacitata, repressa, oscurata, ma che ci appartiene, ci definisce. Chiudere di netto ogni possibilità che questa promessa trovi una risposta, dichiarando che è «praticamente impossibile» reperire un senso è un’opzione gratuita che nega ciò che siamo. Perché non lasciare almeno una porta socchiusa? E poi non c’è solo l’etica, c’è anche l’estetica, l’esperienza sovrabbondante di bellezza che la realtà, nonostante tutto, continua a riservarci ogni giorno, a dirci che chiudere la partita dichiarando preventivamente l’impossibilità di trovare unsenso è contro l’evidenza delle cose.
È dedicata al Natale la nostra newsletter di oggi, l’ultima di questo 2025 ormai agli sgoccioli. Nella distrazione generale in cui siamo immersi forse non facciamo neppure più caso al fatto che gli anni stessi si contano a partire dall’avvenimento storico della nascita di Gesù a Betlemme. Uno spartiacque decisivo di cui, dopo oltre due millenni, godiamo ancora i frutti senza rendercene conto. La sfida del Natale, anno dopo anno, è dunque a misurarsi con questo fatto storico. Qualcosa di completamente diverso da un’effusione di buoni sentimenti o dalla frenetica corsa consumistica a cui viene invece spesso ridotto il Natale. Proprio pochi giorni fa Papa Leone parlando ai pellegrini francesi ha invitato «a non lasciarci prendere da un frenetico attivismo nei preparativi della festa, che finiremmo per vivere in modo superficiale e che lascerebbe spazio alla delusione. Prendiamoci invece il tempo di rendere il nostro cuore attento e vigile nell’attesa di Gesù, affinché la sua presenza amorevole diventi per sempre il tesoro della nostra vita e del nostro cuore». Sulla provocazione alla nostra vita che la nascita di Gesù rappresenta vogliamo proporvi la lettura di un articolo di don Luigi Giussani, pubblicato su Repubblica in occasione del Natale del 1997. Singolare l’esordio: vengono citate e commentate alcune righe di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito Comunista, che metteva in guardia dai rischi di una «svalutazione del passato» nella quale «è implicita una giustificazione della nullità del presente». Per Giussani Gramsci «dice il vero: la grande alternativa per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione». La rimozione continua del vero senso del Natale a cui assistiamo oggi e la sua sostituzione con simboli vuoti basati sul consumo e sul bisogno di evadere, documentano questa volontà di cancellare il passato, la tradizione che ci è stata consegnata. Tradizione, beninteso, che non ha nulla a che vedere con il tradizionalismo, che è un attaccamento ideologico a un passato che non esiste più e che si vorrebbe vanamente riesumare. «Chi pretendesse di distruggere il passato per una affermazione presuntuosa di se stesso non amerebbe né l’uomo né la sua ragione – scrive Giussani -. E, infatti, un presente così ridotto finisce in “nulla” (nichilismo), cedendo l’uomo alla tentazione di credere che la realtà non esista. E questo è come un veleno instillato nelle vene dell’uomo dal padre della menzogna: una volontà di negare l’evidenza che qualcosa c’è». Eppure l’uomo, continua l’articolo, «non può negare l’evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuore come tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione». È a questo uomo che «ora, proprio dal passato giunge una notizia: il Mistero, ciò che i popoli chiamano “Dio”, ha voluto comunicarsi a tutti gli uomini come un uomo, dentro un pezzo di tutta la realtà. Noi sappiamo – sottolinea Giussani – quanto gli uomini del nostro tempo cerchino anche inconsapevolmente un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace, cioè riscattati dalla menzogna, dalla violenza e dal nulla in cui tutto tenderebbe altrimenti a finire. Il Natale è la buona notizia che questo luogo c’è, non nel cielo di un sogno, ma nella terra di una realtà carnale».
Mercoledì sera la Rai ha mandato in onda il monologo di Roberto Benigni «Pietro, un uomo nel vento». Un racconto travolgente della storia dell’apostolo Pietro e del suo incontro con Gesù. «Le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano, si incontrano», ha detto Benigni. Un racconto non fatto da un uomo di chiesa, ma da una persona come il comico toscano visibilmente affascinato da quella storia, con una forza di immedesimazione che non può non sorprendere. Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo di Lucio Brunelli pubblicato su Avvenire che insieme al caso di Benigni ricorda anche quello dello scrittore spagnolo Javier Cercas che ha raccontato in un libro bellissimo, «Il folle di Dio alla fine del mondo» (lo avevamo segnalato fra le nostre proposte di lettura la scorsa estate), il suo viaggio con Papa Francesco in Mongolia. Benigni e Cercas, «due artisti dalla biografia totalmente estranea al mondo ecclesiale», i cui racconti sinceri «toccano la mente e il cuore, aprono a una domanda». «Il commovente monologo del premio Oscar, Benigni, e il sorprendente romanzo di Cercas – continua Brunelli – si spiegano con l’innata genialità di questi due artisti e con la fantasia della Grazia, che opera come vuole, quando vuole e in chi vuole. Sono al contempo anche il frutto di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica. C’è forse meno pregiudizio, più simpatia, più disponibilità all’ascolto». Soprattutto si presagisce il fascino di un’umanità più vera. L’annuncio del Natale ormai vicino risponde a questa attesa di verità, di bellezza, di felicità che è nel cuore di ogni uomo a patto di essere leali con se stessi. Quel Natale che oggi appare spesso soffocato da una quantità di orpelli inutili, da noiosi riti consumistici, da evasione e distrazione di massa, da un intrattenimento vuoto e stordente. Eppure dissotterrare l’attesa profonda che è in noi, riportarla in primo piano, è il primo passo per farsi sorprendere da qualcosa che sia veramente attraente, all’altezza del desiderio infinito della nostra umanità.
Martedì 2 dicembre si è concluso il viaggio di Leone XIV in Turchia e in Libano, il primo del nuovo papa. Un viaggio carico di significati, spesso del tutto ignorati nei servizi dei telegiornali e nei resoconti di molti quotidiani. Significati su cui vogliamo invece soffermarci nella nostra newsletter di oggi proponendovi la lettura di due articoli. Il primo tratto da il Foglio è dedicato alla tappa del papa a Nicea, sulle rovine dell’antica basilica, a 1700 anni dal concilio che là definì il Credo che ancora oggi viene recitato ogni domenica nella messa. Stabilì un punto fermo sconfessando le posizioni ariane che negavano la natura divina di Gesù. Ma, ha sottolineato papa Leone, «se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci partecipi della natura divina». Non è una questione che riguarda secoli molto lontani. Il papa ha parlato infatti del rischio di un arianesimo di ritorno quando Gesù viene ridotto a una sorta di «leader carismatico o di superuomo». Il secondo articolo, di Andrea Tornielli dal sito Vatican News, riguarda la parte libanese del viaggio papale. Il Libano, caso unico nel Medio Oriente tormentato da guerre e terrorismo, da lacerazioni profonde e da contrapposizioni radicali, è un paese in cui ancora oggi convivono fedi diverse. È un segno che non è inevitabile arrendersi alla guerra e all’odio. È un paese che documenta concretamente che ci sono le condizioni, sia pur tra mille difficoltà, per affermare la pace.