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  • La fuga da Gaza e l’assuefazione all’orrore

La fuga da Gaza e l’assuefazione all’orrore

  • Data 20 Settembre 2025

L’ultima settimana è stata segnata dalle immagini dell’esodo forzato e disperato di centinaia di migliaia di profughi da Gaza dopo l’invasione dell’esercito israeliano, mentre continuano massacri e distruzioni e la popolazione è alla fame. Eppure anche di fronte a queste immagini drammatiche che ci arrivano ogni giorno a getto continuo, rischiamo spesso di assuefarci all’orrore, di atrofizzare la nostra sensibilità a favore dell’indifferenza come se dietro tutto questo non ci fossero volti e storie di persone reali, di uomini concreti con un nome e un cognome. Si arriva persino a farlo diventare oggetto di talk show dove urlare, scontrarsi e insultarsi per passare poi senza colpo ferire alla prossima puntata. Nella newsletter di oggi vogliamo proporvi due articoli sulla situazione di Gaza che ci testimoniano uno sguardo diverso, uno sguardo umano. Il primo è di Marina Corradi ed è tratto da Avvenire. Si sofferma sulle immagini dei profughi e di chi, avendo perso tutto, non ha più neppure l’istinto di fuggire. Immagini che in modo paradossale richiamano alla memoria altre tragiche evacuazioni come quelle dei ghetti ebraici. Il secondo articolo è un’intervista del Sole 24Ore a padre Francesco Ielpo, nuovo custode di Terra Santa e grande amico della San Benedetto: «Ho trovato – racconta – una situazione drammatica, mi verrebbe da dire disumana nella Striscia, e tanta sofferenza anche in Israele dove si vive in un clima di sospetto, una situazione di conflitto in cui le posizioni si estremizzano». Anche in queste condizioni la Chiesa non perde la speranza e non si stanca di lanciare appelli per la pace: «Noi continuiamo a credere che valga la pena – spiega padre Ielpo – perché è un appello sempre rivolto alle coscienze e quando poi le coscienze cambiano, quando cambia proprio anche la possibilità di intravedere una via diversa, più umana per risolvere le questioni, queste voci, magari non subito, avranno l’effetto che devono avere».

Il 25 settembre inizia la Scuola di comunità

Giovedì 25 settembre alle 18.30 nella nostra sede di Borgo Wührer 119 a Brescia, ci ritroveremo per la Scuola di comunità. Di cosa si tratta? Partendo dalla lettura di alcuni testi di don Luigi Giussani questo momento è un’occasione per mettere a confronto domande ed esperienze che riguardano la nostra vita e il suo significato. Gli incontri, della durata di un’ora, si terranno con cadenza quindicinale sempre alle 18.30. La proposta è libera, gratuita e aperta a tutti. Chiediamo solo la continuità della partecipazione come segno di serietà nel percorso che ci apprestiamo a cominciare. Il giorno 25 verranno date indicazioni su come si svolgeranno gli incontri con il calendario fino a dicembre.


Quel popolo di profughi in colonna verso il nulla

di Marina Corradi – da Avvenire – 17 settembre 2025

All’alba l’altra notte il cielo sopra Gaza City è esploso di fuoco: bombe e droni su ciò che era rimasto in piedi, torri di trenta piani che andavano giù come castelli di carta. A cosa può somigliare l’inferno? A quel bagliore rosso sangue che si allarga su una città di macerie, ancora immersa nel buio. Poi, con il giorno, polvere, e incendi, e uomini e donne che fuggono reggendo bambini, borse, materassi, tutto quello che hanno potuto afferrare. Tutti raggiungono una sterminata colonna di camion vetusti e carichi all’inverosimile, quasi si recassero a un gigantesco miserabile mercato. Ma la colonna marcia, lentissima, verso l’unico lembo settentrionale di Striscia in cui i palestinesi, secondo Israele, possono stabilirsi: lembo di terra peraltro già gremito.

Nel guardare – e bisogna assolutamente guardarli – i video girati a Gaza City ieri all’alba, si resta basiti. Non sono fake, non sono prodotte da IA quelle riprese oscillanti: sono la fuga, vera, di oltre 300mila profughi. Eppure c’è qualcosa di ancora più disperato che il mettersi in marcia verso Nord nella polvere, fra i fumi dei vecchi diesel e i pianti dei bambini. C’è qualcuno, che da Gaza City non parte.

Sui telegiornali gira un video in cui un palestinese sui sessant’anni, i vestiti già coperti di polvere, urla esasperato all’ultimo ordine di evacuazione, e non si muove da quella che sembra essere una cantina. Accanto una donna è china e piange su un fagotto bianco. Fuggire? E dove, e perché, quando già si è perso tutto? Immagini di uomini attaccati a una flebo, mani di vecchi che stringono quelle dei figli. C’è chi non abbandonerà sua madre, a Gaza City. C’è chi semplicemente, in troppa morte, ha perduto l’istinto che porta gli uomini a fuggire dal pericolo. Istinto originario e potente che da sempre spinge altrove i minacciati, gli incalzati, i perdenti, perché qualcuno almeno – almeno i figli – sopravviva. A Gaza, però dopo tre anni quasi di bombe e morte ed evacuazioni, qualcuno questo istinto lo ha perduto. Che ne farà l’Idf, di questa gente? Bombarderà ancora, a stanare, dice, gli ultimi di Hamas, fino a che non rimanga di Gaza pietra su pietra? Trascineranno fuori con la forza i malati, i vecchi? Quanto queste immagini riportano in mente le evacuazioni dei Ghetti ebraici, negli anni ’40. Una commissione indipendente incaricata dall’Onu ieri parlava di «genocidio», il presidente israeliano Herzog negava con durezza. Ma è davvero importante discutere su una parola, guardando ciò che accade? A chi scrive viene in mente Etty Hillesum, ebrea olandese deportata a Westerbork e morta ad Auschwitz, che nelle sue Lettere testimonia l’arrivo nel campo dei treni dei deportati: il barcollare e il vacillare dei più vecchi, soli, quasi ciechi senza gli occhiali, e l’angoscia delle madri con i figli febbricitanti in braccio.

Le immagini della colonna in fuga da Gaza City, dei feriti, di gente che scappa ancora e di nuovo, senza alcun luogo in cui andare, non saranno forse giuridicamente «genocidio»: ma sono insostenibili agli occhi di chi appena stia a guardare. Israele, che cosa stai facendo? viene da gridare. E intanto Marco Rubio, Segretario di Stato Usa, ha appena incontrato Netanyahu a Tel Aviv. L’appoggio americano contro Hamas è garantito. Rubio parte: dalla scaletta dell’aereo saluta, sorride soddisfatto e alza il pollice, nel gesto della vittoria. Almeno quel pollice levato, ce lo si poteva risparmiare. A pochi chilometri dal cielo d’inferno su Gaza, dalla colonna di poveri cristi in fuga. Da quelli che nemmeno fuggono: avendo perso già tutto, di ciò che si può togliere ad un uomo.


«Nella Striscia di Gaza ho trovato una situazione drammatica e disumana»

Intervista a padre Francesco Ielpo, nuovo Custode di Terra Santa

di Catia Caramelli – da Il Sole 24Ore – 18 settembre 2025

«Ho trovato una situazione drammatica, mi verrebbe da dire disumana nella Striscia, e tanta sofferenza anche in Israele dove si vive in un clima di sospetto, una situazione di conflitto in cui le posizioni si estremizzano». Padre Francesco Ielpo è il nuovo custode di Terra Santa. Ha raccolto da pochi mesi il testimone da padre Francesco Patton, nel momento più difficile per quei territori.

Padre Ielpo che situazione ha trovato?

L’incarico è arrivato in un momento drammatico per quella terra, per le popolazioni che la abitano. Ho trovato una situazione di grande stanchezza, di smarrimento, di preoccupazione per il futuro e di tanta sofferenza da parte di tutti, sofferenza di chi ancora ha i propri cari ostaggio di Hamas, sofferenza in chi sta vivendo in quella Striscia e che da quasi due anni è in una situazione disumana. Ho trovato incertezza per il futuro dove non si vede una possibilità di speranza e poi tanta sofferenza anche in Israele dove comunque si vive in un clima di sospetto, di paura, di incertezza e tutto questo mina poi anche i rapporti, condiziona lo sguardo di tutti su tutto, è una situazione di conflitto e come tutte le situazioni di conflitto molte posizioni si estremizzano.

Prima Papa Francesco, ora Papa Leone. Gli appelli per la pace sono quasi quotidiani.

La Chiesa e anche la Custodia di Terra Santa non si stanca di non perdere la speranza. A volte si dice ma che cosa serve continuare a fare tutti questi appelli quando poi comunque non cambia nulla. Noi continuiamo a credere che valga la pena perché è un appello sempre rivolto alle coscienze e quando poi le coscienze cambiano, quando cambia proprio anche la possibilità di intravedere una via diversa, più umana per risolvere le questioni, queste voci, magari non subito, avranno l’effetto che devono avere.

I patriarcati ortodosso e latino, di concerto con il parroco e i religiosi della Sacra Famiglia, nonostante il precipitare della situazione hanno scelto di restare?

Quando ho letto il comunicato congiunto dei due patriarchi per due giorni sono rimasto molto scosso da questa scelta perché mi sono immedesimato sia nei religiosi e nelle religiose che vivono lì e che hanno deciso di dare la loro vita per stare accanto a quel piccolo gruppo di cristiani sia nei sentimenti di questi due patriarchi che hanno lì una parte della loro comunità. È una sorte verso forse il sacrificio, il martirio, la donazione totale della vita, quindi sono rimasto molto colpito, scosso da questa decisione e ho capito anche che questo forse è l’appello più grande. Prima si parlava di questi continui appelli, questo è un appello che non urla, non grida, non finisce magari in prima pagina, ma è quello che davvero scuote le coscienze, che ti interroga, che ti dice c’è un’altra via che arriva fino al dono di sé. In tutto quell’inferno che stanno vivendo ci sono questi segni di luce che sono dati da persone che sono disposti a dare la vita per stare accanto a chi soffre e questo mi ha veramente molto toccato e colpito.

I turisti e i pellegrini non vengono più. Sarebbe importante tornare?

Sì, sono continui anche gli appelli a far tornare i pellegrini in Terra Santa. Vediamo ormai da due anni santuari vuoti, strade deserte, negozi chiusi, gente che soprattutto nei territori palestinesi viveva del turismo religioso e quindi è veramente in grandissima difficoltà. D’altro canto vediamo piccole delegazioni, anche di vescovi e cardinali che vengono con piccoli gruppi a manifestare la loro solidarietà. Certo è un paese in guerra, ma è altrettanto vero che per i pellegrini c’è la massima sicurezza, quindi davvero un gesto così oggi è più che mai profetico, fa bene a chi viene, ma soprattutto fa bene alle comunità che vivono in Terra Santa.

Tag:Gaza, Israele, Padre Francesco Ielpo, Palestina

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piergiorgio

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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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