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Il lunapark delle distrazioni e la via del cuore di Susanna Tamaro

  • Data 25 Ottobre 2025

È un tema scomodo quello che affronta Susanna Tamaro nel suo ultimo libro «La via del cuore». Parla della nostra trasformazione, della crisi della nostra umanità, di un processo in atto che ci riguarda nel profondo. Nella newsletter di questa settimana vi segnaliamo la lettura dell’articolo che la stessa Tamaro ha scritto per il Corriere della Sera in occasione dell’uscita del libro. Cita Romano Guardini che più di sessant’anni fa parlava di un «potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male». È quanto sta avvenendo oggi in modo accelerato con «l’irrompere nella nostra vita dello smartphone e dei social», con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini.

La scrittrice Susanna Tamaro (foto Fondazione San Benedetto)

«Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità – scrive Susanna Tamaro -, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego». Siamo immersi in un «lunapark di distrazioni» che al fondo è segnato da un «odio per la vita» che non è più «un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi». La postura dell’uomo contemporaneo, come sosteneva Hannah Arendt, diventa così il risentimento. Eppure si può invertire la rotta. «Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra – conclude Tamaro – e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura (la via del bene e la via del male) e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male».

Da Papa Francesco a Papa Leone, nei prossimi giorni online il video dell’incontro con Andrea Tornielli

Venerdì 24 ottobre nella sala convegni della Poliambulanza si è tenuto l’incontro promosso dalla San Benedetto con Andrea Tornielli, direttore editoriale dei media della Santa Sede. Sappiamo che diverse persone non hanno potuto raggiungere la sede dell’incontro a causa di un incidente che ha bloccato il traffico. Nei prossimi giorni il video della serata sarà comunque disponibile online sul nostro sito e sul nostro canale YouTube. Il dialogo con Tornielli è stato molto intenso toccando, anche con testimonianze personali, diversi temi che riguardano il momento che la Chiesa sta vivendo con l’inizio del pontificato di Papa Leone e l’impegnativa eredità lasciata da Papa Francesco. Si è parlato della continuità e della discontinuità tra Francesco e Leone, di come la Chiesa comunica oggi la fede e della necessità di osare e di uscire da steccati precostituiti, della drammatica situazione in Terra Santa, del prossimo viaggio del Papa in Turchia per ricordare i 1700 anni del Concilio di Nicea nel quale fu definito il Credo che recitiamo ancora oggi (che significato ha nel nostro mondo?), dell’attualità di Paolo VI che intuì l’impatto pervasivo della secolarizzazione, dell’accordo fra il Vaticano e la Cina e del discusso cammino sinodale della Chiesa in Germania. Insomma tanti i temi trattati in un dialogo che potrete presto riascoltare sul nostro sito.


Il cuore, un mistero. Riprendiamocelo

di Susanna Tamaro – dal Corriere della Sera – 17 ottobre 2025

La scrittrice torna in libreria con «La via del cuore» (ed. Solferino), una raccolta di saggi sulle crisi dell’oggi e l’urgenza di riappropriarci di una dimensione più vera. Un senso si può ritrovare. Un progresso distorto ci ha reso inumani

«In questo momento le prospettive dell’umanità sono estremamente cupe», scriveva Konrad Lorenz nella prefazione al suo libro Il declino dell’uomo del 1983. «È probabile che stia per commettere, con le armi nucleari che possiede, un suicidio rapido ma tutt’altro che indolore. (…) Ammettiamo però che essa riesca a invertire la rotta cieca e incredibilmente stolta che sta seguendo: essa è minacciata tuttavia dal declino graduale di tutte le qualità e le doti che fanno dell’uomo un essere umano». Konrad Lorenz è stato il più grande incontro della mia vita e provo sempre un certo rammarico nel constatare che, malgrado abbia scritto molti saggi e ricevuto il premio Nobel, nel mondo culturale venga ricordato soltanto per le sue pittoresche passeggiate con le oche. Già cinquant’anni fa Lorenz parlava dell’avvento delle tecnocrazie, della manipolazione capillare del pensiero, della scomparsa delle democrazie che, pur rimanendo come vestigia di un tempo passato, erano ormai svuotate del loro significato. La mia formazione è sempre stata quella di un naturalista, di chi vede la realtà per quello che è, non per quello che ideologicamente vorrebbe che fosse. Perciò quando ne osservo le trasformazioni lo faccio con gli stessi criteri di chi è consapevole che l’essere umano ha una lunga storia evolutiva alle spalle che ne determina in parte la natura, realtà negata da un mondo che tende a considerare ogni nuovo nato come una «tabula rasa» su cui sarà possibile scrivere i suoi programmi. «Dire che l’uomo è un mammifero dell’ordine dei primati — sottolinea sempre Lorenz nello stesso volume — è una proposizione indiscutibilmente vera, ma affermare che “l’uomo non è null’altro che un mammifero nell’ordine dei primati” è indiscutibilmente falsa».

È forse questo il punto di partenza che urge affrontare sulla crisi della nostra umanità. Un’urgenza dettata dalla frenetica velocità dello sviluppo della tecnica che rende sempre più difficile parlare di ciò che costituisce veramente l’essere umano. Di questo parlano le mie riflessioni che coprono un arco di più di vent’anni e che sono state raccolte nel mio ultimo libro, La via del cuore, edito da Solferino. Come avviene nei terreni friabili che vengono lentamente erosi dalle piogge, penso che lo smottamento della nostra natura sia iniziato diversi secoli fa, grazie a un filosofo svizzero che aveva abbandonato tutti i suoi figli all’assistenza pubblica e, ciononostante, scriveva libri di grande successo sull’educazione e sull’innata bontà dell’uomo. Anch’io, avendo frequentato le magistrali, sono stata un’appassionata lettrice dell’Émile di J. J. Rousseau. Perché negarlo? Il sogno di un’angelica bontà inscritta nei nostri geni è più che entusiasmante ma di solito dopo l’adolescenza, con l’impatto della vera vita, è destinato a spegnersi, come un fuoco alimentato unicamente di sterpaglie. Oltre a ciò, penso sia stato proprio Rousseau a inaugurare la figura moderna dell’intellettuale, sancendo il principio della non coerenza tra come si vive e ciò che si scrive.

Jean Jacques Rousseau

Ma se l’uomo è buono, come sostiene il pensatore svizzero, perché le cose vanno così male? La risposta è semplice: perché non è lui ad essere sbagliato, ma la società in cui vive, e dunque bisogna cambiare il sistema, non l’essere umano che è già perfetto. Questo spostamento di baricentro — non è più il mio cuore, e il rapporto con il mistero che lo inabita a dare il senso della mia vita, ma le condizioni sociali da rovesciare — ha fatto nascere la necessità di una manipolazione delle masse, preludio dell’instaurarsi delle dittature novecentesche. Nel 1962, Romano Guardini, il grande filosofo italo-tedesco, rifletteva sugli effetti della bomba atomica che aveva dato all’uomo la possibilità di distruggere sé stesso. «Ma oltre alla bomba atomica, non vogliamo dimenticare quell’altra possibilità di esercizio di potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male, la condizione in cui egli, come persona, ha in se stesso… Anche questa è una forma di potere umano, forse ancor più minacciosa della bomba atomica».

Romano Guardini

L’irrompere dello smartphone e dei social nelle nostre vite non è stato molto diverso da questa bomba: lo possiamo paragonare alle uova di certi parassiti che si insinuano nel corpo dei mammiferi e vi soggiornano per un po’ silenti, prima di esplodere con conseguenze devastanti. Le persone più attente hanno sempre messo in guardia, soprattutto nei riguardi dei bambini, sull’uso di questi dispositivi, ma l’entusiasmo e l’obbedienza al diktat delle magnifiche sorti e progressive, cioè del progresso che, in quanto tale, porta con sé solo benefici e non richiede l’arte del discernimento, hanno silenziato queste voci. Ora, davanti al disastro che travolge le giovani generazioni — i casi psichiatrici tra i bambini e gli adolescenti sono cresciuti del 500% — non si può più procrastinare una riflessione più che severa.

Da anni viviamo sotto l’incubo del flagello del cambiamento climatico e delle sue conseguenze apocalittiche. Il cambiamento evidentemente c’è ed è importante, com’è importante l’apporto antropico, ma il vivere con perenni sensi di colpa per essere distruttori del mondo ha spostato l’attenzione da quella che è la vera e più grave apocalisse, quella che avviene nella mente delle persone con l’abuso ossessivo dei social. Gli studi ci dicono infatti che il cervello sottoposto alla stimolazione continua dello schermo si riduce, facendo perdere alle persone la capacità di applicarsi su compiti più complessi, rendendole succubi della facilità dell’immediato. I cervelli degli addicted ai social subiscono modificazioni simili a quelle della tossicodipendenza, rendendo gli individui incapaci di gestire le emozioni e di rispettare gli ordini sociali, annullando il loro rapporto con il reale e trasformandoli in soggetti manipolabili.

Chi gestisce questa manipolazione che, in breve tempo, ha spostato l’asse dell’umano, facendoci accettare realtà che fino a poco tempo fa avrebbero suscitato il nostro orrore? Con un meticoloso lavoro, il buonsenso, il fondamento della natura umana, è stato eroso e, al suo posto, sono state diffuse spore di fanatismi il cui unico scopo è aumentare lo smarrimento e il disordine. Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego.

Nel frattempo, in questo lunapark di distrazioni sempre più inutili e sempre più attraenti, si è sviluppata un’alga tossica che ha invaso ogni ambito della nostra società. E quest’alga si chiama odio per la vita. La vita non è più un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi. Siamo incatenati ai nostri giorni e, come tutti i prigionieri, impegniamo le nostre energie nella continua ricerca di vie di fuga perché il fardello di una vita senza senso è troppo pesante da portare. «La disposizione affettiva dell’uomo moderno — scriveva Hannah Arendt — è il risentimento. Risentimento verso tutto ciò che gli è dato, anche contro la propria esistenza, contro il fatto che non è creatore dell’umano né di stesso».

Hannah Arendt

Che cos’è il risentimento? Il vocabolario lo definisce come «un atteggiamento di avversione o animosità per un’offesa o un affronto ricevuto». Questo affronto è la vita in sé. Come si può parlare di un aborto a otto mesi — come hanno sancito di recente come diritto in Inghilterra — in un’età in cui i bambini sono già completamente formati e in grado di vivere, senza che nessuno si scandalizzi, senza che nessuno si domandi come questo orrore verrà attuato. La donna partorirà un bambino morto, ucciso già nel suo grembo? E come mai le donne accettano questa terribile violenza sui loro corpi e sulla loro vita contrabbandata per libertà? Quando incrocio gli occhi spenti dei bambini piccoli, le cui madri e i cui padri spingono il passeggino immersi nello scrolling dei loro smartphone, leggo il capolinea evolutivo di una specie che ha divelto le radici profonde della sua natura. Ogni animale che viene al mondo, in un nido, in una tana, in una stalla si affaccia alla vita con uno sguardo al tempo pieno di leggero timore, curiosità e gioia. Questa gioia — che appartiene anche all’essere umano — è stata oscurata dall’assenza di senso, dalla convinzione di essere stati scaraventati in un mondo che propone prevalentemente la legge della confusione e dell’opacità. Non c’è nulla da costruire, non c’è alcuna direzione verso cui andare, non c’è alcuna luce da cercare. L’impennata dei suicidi e degli atti di autolesionismo che cominciano ormai in età infantile ci parlano di una specie che ha smarrito la strada e ha imboccato il cammino dell’autodistruzione.

Personalmente sono molto felice di non essere finita in un vassoietto di inox ma di aver potuto, grazie a mia madre, venire al mondo e partecipare a questa straordinaria avventura che è la vita. La gratitudine per la propria madre, qualunque essa sia stata, dovrebbe essere il fondamento di ogni persona. L’attuale furore ideologico contro la vita nascente — l’uomo trasformato in un grumo di cellule che lo avvicina alla dimensione tumorale — ci parla della cancellazione dello spirito della maternità, confondendo l’equiparazione giuridica e sociale dell’uomo e della donna con la specificità biologica. Tutto il vivente dipende dall’armonia tra il maschile e il femminile, tra l’energia del cielo e quello della terra. L’alterazione di questa energia non può portare altro che catastrofi. Nasciamo ormai solo se riusciamo a superare le selezioni genetiche e, dopo poco, ci viene messo in mano un foglio con la dichiarazione anticipata di trattamento della nostra fine. La rimozione della morte — l’assoluto tabù delle società avanzate — chiude il cerchio dell’odio per la vita. Dato che non abbiamo deciso di nascere, almeno vogliamo essere padroni della nostra fine. Questo naturalmente, grazie al suicidio, è sempre stato possibile, ma ora siamo alla burocratizzazione dei nostri giorni. Deve essere lo Stato, a cui dò pieni poteri, ad avere in mano il mio destino.

Il predominare dello spirito maschile nel mondo — lo spirito dell’efficienza, della competizione, della sopraffazione — ha ridicolizzato e poi messo a tacere lo spirito della maternità. Spirito che non è strettamente legato al dare fisicamente la vita né all’appartenenza a un genere, ma all’attenzione, alla cura, alla virtù della pazienza e al sentimento della compassione nei riguardi di tutto ciò che ha bisogno di essere aiutato e protetto. Perché non dirlo? Abbiamo una terribile nostalgia dell’anima, della necessità di tornare a quella condizione che il grande scienziato e filosofo russo Pavel Florenskij, ucciso con un colpo di pistola in un gulag nel 1937, definiva la «capacità di percepire le cose invisibili».

Pavel Florenskij

Nella storia dell’umanità, il concetto di apocalisse ritorna ciclicamente — catastrofi naturali, guerre, epidemie — e, nonostante questo, la vita dell’uomo è sempre andata avanti, ma ora ci troviamo davvero all’ultima chiamata perché il potenziale distruttivo è assoluto e immediato: basta premere un tasto per scatenare l’Armageddon finale. La parola Apocalisse, però, in greco non vuol dire catastrofe ma rivelazione, svelamento. La malattia dell’epoca moderna è l’ablazione del cuore. Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura — la via del bene e la via del male — e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male. «Il cuore è come la terra, metà in luce e metà in ombra» scrivevo in Va’ dove ti porta il cuore. Ecco ora penso sia giunto il momento di riprendere a dialogare con il mistero della luce che ci inabita.

Tag:Susanna Tamaro

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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