Meno antidepressivi, per favore
Come due guardiani centenari fatti di legno e fronde, il tiglio e il castagno presidiano il viale che porta alla villetta Borgna, a Borgomanero di Novara. Eugenio Borgna, voce eminente di quella psichiatria che dialoga con la filosofia, vive da sempre in questa casa dove i destini personali si sono intrecciati con la Storia.
Professore, è questa la dimora che la sua famiglia dovette abbandonare dopo l’armistizio del 1943?
«Sì, mio padre era entrato nella Resistenza e mia madre, con coraggio, riuscì a portare in salvo i suoi sei figli a Grassona, sul lago d’Orta. Il maggiore aveva 14 anni, il minore solo tre mesi. Quando tornammo qui, dopo la guerra, trovammo la casa ridotta ad un fortilizio abbandonato, semi distrutto dai militi in fuga. Ricostruimmo, con fiducia e pazienza».
Lei è appena entrato nel 91° anno e nel suo nuovo libro, «I grandi pensieri vengono dal cuore» (Raffaello Cortina), sovrappone quei giorni e il momento che stiamo vivendo.
«Soprattutto nella qualità del tempo. Un tempo congelato nel presente, paralizzato dalla paura e incapace di guardare al passato. Il passato, insegna Sant’Agostino, è sorgente di speranza perché rivitalizza zone della nostra vita apparentemente dimenticate. Una delle tante forme di impoverimento nate da questa pandemia è la sensazione di non vivere questi mesi o di aver bruciato l’anno appena trascorso. Nulla di più falso».
Sì, ma anche lei nei suoi libri ha riconosciuto più volte che siamo disabituati a guardarci dentro, cosa che potrebbe cambiare la percezione del tempo.
«È vero, ma questa potrebbe essere un’occasione per un cambio di passo. Non dobbiamo temere emozioni come la tristezza o la malinconia. Ho lavorato nel manicomio femminile di Novara e ho vissuto la stagione italiana delle reclusioni per “follia”. Uomini e donne, giovani e vecchi: bastava un’attenzione spiccata alla dimensione interiore, qualche domanda in più sul senso della vita per etichettare le persone come “malati mentali”. Oggi le cose sono diverse, ma la malinconia è ancora guardata con sospetto».
Si potrebbe dire che la malinconia o la tristezza siano viste come tendenze poco adatte alla vita che viviamo perché scarsamente produttive, data la loro natura puramente contemplativa?
«Dirò di più: vedo somministrare fiumi di antidepressivi a persone che stanno vivendo solo una condizione di malinconia. È questo il grande equivoco: una psichiatria che si limita alla farmacologia identifica ogni dolore dell’anima, ogni tristezza leopardiana con una malattia. Ho visto adolescenti sfiorati da fragilità e tristezza, del tutto normali alla loro età però seguiti con apprensione da genitori convinti che quella fosse sofferenza psichica. Ma guai a chi non ha mai conosciuto la malinconia: ha perso momenti di sensibilità».
Com’è nato questo suo approccio?
«Osservando. Sin dall’inizio, mentre mi specializzavo nella clinica delle malattie nervose e mentali all’Università di Milano. Allora predominava la neurologia, ma c’erano pure dei letti dedicati alla psichiatria. Veniva anche Gillo Dorfles che, prima di diventare famoso come critico d’arte, è stato medico psichiatra».
Professore, lei non ha mai nascosto le sue fragilità, anzi, ne ha fatto uno strumento terapeutico. Ci racconta questo corpo a corpo di vulnerabilità, le sue e quelle dei suoi pazienti?
«Il poeta tedesco Friedrich Hölderlin diceva che “noi siamo colloquio”. Ecco, la cura è prima di tutto ascolto, è mettersi di fronte all’altro, intercettarne le parole. Ma anche un sorriso, una speranza. Persino il silenzio deve essere campo di ascolto e come psichiatra conosco tanti silenzi. A volte sono disperati. In questo ascolto, difficile ma emozionante, c’è una sacca di mistero: è un territorio friabile e bisogna sapersi abbandonare a qualcosa che vada oltre il razionale».
È in questa «sacca di mistero» che prende corpo la sua fede, una fede interrogativa, di un uomo di scienza?
«E che si nutre di parole. Per me hanno un senso profondo: nelle mie ricerche hanno sempre trovato spazio poeti, scrittori, filosofi. Sant’Agostino mi ha insegnato la qualità del tempo “vissuto”. Etty Hillesum mi fa riconoscere quello speciale silenzio eloquente che sa esprimere solo chi sta soffrendo. Il mio compito è decifrare la sofferenza, ascoltarla, anche quando diventa una muraglia».
In questi mesi, purtroppo, la morte è diventata un numero che accompagna i bollettini quotidiani della pandemia. C’è rischio di indurre un’indifferenza per assuefazione?
«Sì perché, paradossalmente, mentre si parla della tragedia del “morire in solitudine” in realtà migliaia di persone muoiono sotto gli occhi di tutti. Nei bollettini, in tv, sui giornali. E a morire non è più quella donna, quell’uomo, quell’individuo con una propria storia, un destino, dei sogni. Ma tutto diventa statistica o narrazione. Per carità, cose necessarie all’epidemiologia, però questo priva la morte del suo imprescindibile mistero. Poi ricordiamoci che quando parliamo della morte è sempre quella degli altri».
Questo ricorda il famoso passo del poeta latino Lucrezio sul guardare un naufragio da lontano: si prova angoscia ma anche una sorta di distacco.
«Attenzione quando si parla della morte. O della malattia stessa: vedo troppe diagnosi frettolose e senza appello. Ma una cattiva diagnosi può essere peggiore della malattia, anche perché una diagnosi si smonta difficilmente. Inoltre spero che da questa situazione si traggano lezioni utili a migliorare la qualità della nostra sanità pubblica».
Professore concludiamo con l’argomento più bello e difficile: oggi il tema della speranza è molto discusso, pensiamo solo al lavoro di Martha Nussbaum, però Eugenio Borgna ne parlava già cinquant’anni fa.
«E venni deriso: all’epoca il concetto era trattato con superficialità, accostato al facile ottimismo. Sbagliato. Marc Bloch diceva che la speranza è l’unico antidoto alla paura. Ma la speranza si nutre dei ricordi di cose passate che solo in apparenza si sono liquefatte. Grazie al ricordo rivivono e ci permettono di dare continuità alla nostra vita. Sennò vivremmo in un profetismo astratto o, peggio, incrostati nel qui ed ora. Allora coltiviamo il ricordo, rivitalizziamo il passato. Emily Dickinson scriveva: “Se io potrò impedire/ a un cuore di spezzarsi/ non avrò vissuto invano”. Spero che crescano sempre più medici capaci di fermarsi ad ascoltare».
Intervista di Roberta Scorranese
da La Lettura – 24 gennaio 2021