Vivere nella stagione della risacca
di Concita De Gregorio
da la Repubblica del 4 dicembre 2022
Non è solo la melanconia del presentimento, l’inverno demografico, la sensazione che il vecchio ordine delle cose sia davvero finito e non ce ne sia uno nuovo. Non è solo la rassegnazione all’evidenza che la classe politica prodotta da decenni di scommesse sulla figura del leader (presto, un volto, un nome, uno furbo e svelto da votare) e di premi-fedeltà ai suoi scudieri abbia generato la più debole, sbandata e inconcludente compagnia di giro mai vista, fra governo e opposizioni. C’è qualcosa di più profondo in questa stagione della risacca, che ha l’odore marcio delle alghe a riva quando il mare si ritira. Una specie di desolazione definitiva, come se a questo giro fosse davvero finito il gas che accende le passioni. Troppi investimenti a vuoto, troppe speranze disilluse troppo a lungo. Non interessa più quasi niente. Il proprio portafogli, certo. Il proprio destino personale: ma dentro quale disegno, a prezzo di quali battaglie, in nome di quale orizzonte collettivo no, questo no. Mentre nel resto del mondo si infiammano rivoluzioni potenzialmente in grado di cambiare i campi di forza, la Storia, qui in Italia, in Europa, si vivacchia, si tira a campare con quello che c’è. Si vince e si perde in recinti sempre più piccoli, si esulta per un risultato effimero: dove una volta serviva uno stadio, a riunirsi, oggi basta una piazzetta, quattro gatti, correnti in conclave nello spazio di una cabina del telefono. Fuori, nella coda dell’occhio del campo visivo, la Cina torna per strada esasperata dalla meno politica delle ragioni: la permanente reclusione per Covid. La potenza più temuta, la più aggressiva senza dare guerra apparente: qualcosa di enorme sta accadendo, in Cina. L’Iran, la rivoluzione dei ragazzi contro l’orrendo regime religioso che le sinistre d’Occidente salutarono come liberazione, dall’influenza americana, all’epoca. Ma c’interessano poco, quei morti. Sempre meno i morti ucraini, in questo conflitto troppo lungo — ha già stancato, quanto ci costa, in nome di cosa.
Tornano i guitti in tv, le storie di corna tengono banco come nelle stagioni morte, le famiglie reali, le spunte su Twitter, il caffè con il bancomat e poi c’è il calcio, il resto che volete che sia: guardate gli ascolti tv, seguite l’algoritmo. Persino un calcio senza di noi è più interessante di una legge di bilancio che parla di noi, che poi tanto le leggi vanno e vengono, si cambiano, ci son sempre i condoni e non c’è da farci troppo caso a quel che si dice oggi, domani sarà un’altra storia. Il governo si è insediato da sei settimane, niente, e sembrano passati anni da una campagna elettorale furibonda: il fascismo che torna, allarme, il campo largo a fare argine al pericolo, gli sgambetti e i tradimenti dell’ultimo minuto, a sinistra, l’opposizione in frantumi, il nuovo Centro, ma centro di cosa se la sinistra non c’è. La diaspora dei Cinque Stelle, la scomparsa del fondatore, Grillo dov’è?, Conte Masaniello capopopolo dei derelitti con un semplice cambio di camicia, meglio il maglione dolcevita per questa stagione, funziona — e difatti. Berlusconi ostaggio delle nuove signorine, Renzi e Calenda che scalano Forza Italia, Salvini che boccheggia come un pesce senz’acqua, Draghi che saluta cordiale e passa le consegne, farà bene chiunque, qualsiasi governo farà quel che deve, arrivederci. E poi, e dunque? Niente.
Un mese e mezzo scarso, ed è vero che ci si abitua a tutto molto rapidamente ma così veloce, quest’inedia questa noia, non si erano viste mai. I nuovi, come previsto, sono vecchi. Giorgia Meloni da sola, senza una classe dirigente all’altezza del compito, si barcamena con quello che c’è: molta retorica, la famiglia, l’ordine il riscatto, ma il problema grande sono i soldi che mancano e se ci sono non si sa come usarli, servirebbe competenza, e gli alleati che la soffrono come un sopruso: sotto il dieci per cento, entrambi, eppure fastidiosissimi e ciarlieri, gente che non sa fare silenzio — la disperazione delle perdita di consensi irrimediabile. Enrico Letta avrebbe dovuto alzar bandiera bianca, all’indomani del risultato, ma si è fatto soldato — nell’incertezza sul da farsi, il senso del dovere — e sta lì, a non governare un processo di rinnovamento che rinnovamento non sarà, perché nessuno in quel che resta del centrosinistra rinuncerà alla sua postazione, al suo posto di mazziere che dà le carte e i posti alla sua corrente. Perciò ecco, come può appassionare un dibattito in cui Letizia Moratti si presenta a chiedere i voti della sinistra in Lombardia, come se Piero
Fassino si candidasse alla guida del centro destra in Piemonte — uno lo dice così per paradosso, ma chissà. Nemmeno Conte a Scampia scalda più, nemmeno i tumulti di piazza dei deprivati dal reddito spaventano, che tanto alla fine qualcosa dal cilindro di governo uscirà: uno sgravio, una paghetta. Il caso Soumahoro, che ha regalato alle destre un’insperata formidabile campagna per seppellire in un colpo solo rivendicazioni sindacali, questione migranti, integrazione, esodi biblici e schiavismi, ha visto la sinistra politica e intellettuale vacillare come a un ko. Al di là delle ragioni e dei torti, dei meriti e delle colpe il passaggio dalla celebrazione eroica dell’uomo-simbolo che entra in Parlamento con gli stivali infangati al suo occultamento con vergogna è stato, oggettivamente, uno spettacolo triste e finale.
Resta da divertirsi nei talk show col folklore, la prima la seconda moglie, le borse griffate, la suocera, come sempre i cognati. Di cognati è lastricata la storia. Ma peggio di sempre, stavolta. Tutto più stanco, più triviale, più distratto e in fondo inutile. La verità è che la politica ha perso, tutta insieme, la grande occasione, forse l’ultima, di tornare a mobilitare. Poteva essere l’inizio di una grande riscossa dell’opposizione — ad averne una — davanti a una destra così destra, così facile da contestare. Poteva essere l’occasione per la destra di mostrare un disegno che non fosse il semplice ora tocca a noi, e vai con lo spoil system. Fuori gli altri, dentro i nostri. E invece no. Va come va. Il pubblico è già stanco, vuole distrazioni nuove. Una celebrità da mettere alla gogna, un’influencer a Sanremo. A febbraio, fra Chiara Ferragni e Bonaccini-Schlein non è difficile indovinare dove andrà l’attenzione della maggioranza che fa audience, l’Italia profonda che televota. E che poi smotta quando piove ma si sa, è sempre andata così: vedrai che arrivano i fondi speciali, dove è marcio si ricostruisce. È l’abitudine.