La solitudine e la forza, l’ultima intervista di Testori
Intervista di Claudio Altarocca
da «La Stampa», 2 gennaio 1993
Giovanni Testori ha passato da solo Natale e Capodanno in una camera all’ospedale San Raffaele. Sempre per il male che gli ha colpito i linfonodi. Ha chiesto lui alle sorelle e al fratello di rimanere con le loro famiglie. Siede in poltrona e ha un catalogo d’arte sulle ginocchia: «Ci metto sopra un foglio e scrivo. Il vizio di scrivere non mi ha lasciato». Sono trascorsi alcuni giorni dall’ultima applicazione di cobalto e ha il viso più rosa, più in carne. Sono mesi che è in questa camera: «Ora la solitudine l’accetto, anche se sono insufficientemente umile, insufficientemente disposto ad accettare ciò che la malattia ha comportato e comporterà. Spero che i miei furori stiano calmi. Ma un po’ furenti è necessario esserlo perché porta all’indignazione». Si gira lentamente, prende un bicchiere d’acqua, beve con avidità.
Sul tavolino di fronte a lui c’è un alberello di Natale, di carta e senza luci. «Questo Natale è stato, forse non volutamente, meno indecente di tanti altri che l’hanno preceduto: è stretto di più attorno a quelli che soffrono. La capanna è più capanna, la grotta più grotta. Gli uomini sono obbligati a spendere meno in cretinate. C’è chi spende lo stesso e butta via quello che dovrebbe esser dato a chi non ha niente, a chi soffre, a chi muore di fame e di malattia. Un medico di qui m’ha detto che fra quindici, vent’anni in Africa moriranno 200 milioni per Aids. L’uomo europeo, occidentale, sarà costretto a ravvedersi dalla rivolta che verrà dei popoli che ha soggiogato e sfruttato. Io lo spero.»
Dice che nel chiarore delle piccole lampade nelle notti d’ospedale non pensa a quel che gli resta da vivere: «Mesi o anni, li ho già messi nel conto». Guarda al futuro degli altri, degli uomini. Cadono le maschere, gli addobbi: «Sento la forza dell’uomo denudato. È la sola forza che sia vera forza; il resto è prepotenza. La forza dell’uomo è la sua nudità, il suo non essere niente. L’uomo si scopre nulla ma scoprendosi nulla scopre la sua immensità, che non è potenza economica, ideologica, politica, sociale, ma potenza di donazione, di offerta di sé, d’amore».
L’altro giorno sono venuti da lui cinque ragazzi, cinque volontari infermieri per malati di Aids: «I buoni ci sono. Hanno il pudore di non dire niente… Io non sono mai stato capace, perché sono un vigliacco. Anch’io miravo non all’avere ma all’essere in modo egoistico, scrivendo. Ora sarei pronto a darmi agli altri, ma non sono più fisicamente in grado. Ho bisogno io di questi altri. È la mia colpa, l’avere omesso troppo la carità… Ho rimorso. Chiedo perdono al Cristo che è nato e quindi agli uomini… Faccio il bilancio della mia vita: è negativo, insufficiente. Ho peccato di orgoglio, di ambizione, di furore… Non rifarei quello che ho fatto. La notorietà come scrittore è una cosa su cui sorridere». «La gloria letteraria… Cristianesimo è amare.»
Si rivolge a chi non crede: «Come fa ad accettare di vivere? Se non va indietro, indietro, indietro e ancora indietro fino alla prima cellula, a quel punto lì se non ci fosse l’amore, se non ci fosse Chi è amore, la cellula sarebbe come impazzita e lui non potrebbe più vivere. Gli direi: anche se non ci credi, un sì alla vita l’hai detto. E quel sì lì è il sì di Maria a diventare madre di Cristo. Ogni uomo fa nascere Cristo, ma lo può anche mettere in croce, uccidere. In ogni uomo si ripete la nascita di Cristo, lo sappia o non lo sappia. Una responsabilità enorme. La dimentichiamo; e tuttavia non è perché la dimentichiamo che essa non c’è o non è vera. Natale è dire questo sì, è una responsabilità che sento come libertà e gioia, come tenerezza e dolcezza. Cristo lo sento come padre mio e figlio mio basta riconoscerlo negli altri perché in ognuno c’è Cristo: è già nato, è già Natale… La Chiesa no, non esalta né la drammaticità né la tenerezza del Natale. La Chiesa propone spesso un Cristo che è un’idea e non una realtà. Lo disincarna».
Testori si alza dalla poltrona, cammina su e giù nella piccola camera, si stringe la cintura della vestaglia, se la stringe più forte, si siede di nuovo sulla poltrona e si prende la testa fra le mani: «Vedo questi giorni nella mia famiglia, vedo l’ultimo Natale che ho passato con mia mamma che era già malata a Santa Margherita Ligure: è stata malissimo quella notte lì, io e lei soli, aveva avuto un ictus ed era paralizzata: pregai tutta notte vicino a lei che non morisse, notte di dolore e di speranza. E vedo questi giorni e il Natale a casa mia a Novate Milanese dove sono nato e dove vivevamo tutti insieme in una casa vicino allo stabilimento di feltri di mio papà: il rito era questa felicità, questo calore. Avrei voluto che fosse sempre così. Io ero felice e tutto il mondo pensavo dovesse essere così. Invece no, ho toccato dopo che non è per tutti: chi non ha famiglia, chi non può avere le piccole e medie cose che io allora avevo. Ho provato vergogna, mi sentivo colpevole. È forse da lì che è cominciata la mia corsa, la mia ribellione, la mia bestemmia».
Si gira verso la bottiglietta d’acqua, allunga il braccio come per prenderla ma poi lo ritira e china il capo abbracciandosi le ginocchia: «Avevo avuto un avviso quando ero piccolissimo d’estate a tre anni. Andavo a Lasnigo nell’Alta Brianza dov’è nata mia mamma, il paese del mio cuore, e un pomeriggio tardi ero uscito con lei a fare la spesa e tornando vedo venire giù lungo la strada un uomo con le mani legate e due carabinieri. L’ho guardato, ci siamo incontrati, mi ha detto una frase che non ho capito, m’è sembrato “ciao”: mi sono voltato, anche lui s’è voltato e m’ha detto quella parola. Dopo ho chiesto a mia mamma perché quell’uomo era così legato. “Va in prigione perché ha rubato una mucca”, mi ha risposto. Ho pensato che quell’uomo era uno che vedevo nei prati ogni tanto a giocare… M’ha fatto impressione. Ancora oggi mi viene in mente cinque, sei volte al giorno. È da lì che ho cominciato a odiare le prigioni e a stare per chi mettevano dentro.
Un primo presagio che la vita non per tutti era Natale e ho cominciato ad avere il senso della colpa: per non essermi fermato da quell’uomo, per non averlo toccato, accarezzato. Dopo mi sono sempre sentito impari alla carità. È la mia croce, più che la malattia e i dolori che ho avuto. Sono inadeguato».
«Ho sentito la mancanza di una famiglia mia, anche se mi è stata sostituita dalle famiglie delle mie sorelle e di mio fratello. Forse per questo, e può sembrare una bestemmia, ho sempre cercato di voler bene a quelli cui volevo bene come fossero miei figli. Per Cristo Bambino sento una grandissima tenerezza e impegno e responsabilità e bisogno di dirgli grazie perché se non sono diventato del tutto uno sventurato è proprio per il richiamo di questa tenerezza. Penso ai miei errori, alla mia omosessualità, ai miei libri, che sono più che errori: sono sciagure, perché m’hanno impedito di darmi agli altri totalmente. Io sono di quelli che tra salvare un bambino e salvare la Cappella Sistina, crolli pure la Sistina… Ho cercato perfino di liberarmi di Cristo, perché era troppo pesante da portare nella mia vita di peccatore, di omosessuale. Ma non riuscivo. Ce l’avevo sempre addosso.»
«Cristo…»
Testori dice che ha finito in questa camera d’ospedale due testi per il teatro. Li racconta: è animato, lieto. Il primo testo è Regredior, monologo di un barbone, un disperato, un reietto, un uomo che da bambino ha subito un’orribile violenza dal padre e quest’uomo va indietro, si degrada fino a leccare la pissa umana sullo zoccolo del Duomo di fronte a Palazzo Reale, dove viene ucciso da una ronda di giovani e conquista per sempre la sua bontà. La regressione, l’abbassamento come vittoria e salvezza. L’altro testo è Tre Lai, tre monologhi in poesia ambientati a Lasnigo, «il paese del mio cuore». Ci sono Cleopatràs ed Erodiàs, «due puttane» e la Madonna, Mater Strangosciàs, che fa la storia del Figlio e dice: «Che ciavada che l’è la vita!». Aggiunge: «È una ciavada resurrezionada».
Il bisogno dell’eternità è come un vissi, un vizio, per Testori: «Non solo è in noi, l’eternità, ma nei lupi, nelle capre, in tutti gli animali e nelle piante, in tutta la creazione. Neanche una furmiga resta fuori dalla resurrezione. Teologicamente sarà sbagliato, ma alcuni teologi han detto che l’Incarnazione è totale e così sarà la Resurrezione… Tutto comincia col Natale».
Si appoggia allo schienale della poltrona, respira forte, sembra svuotarsi, rimpicciolirsi: «Chi non crede, ripensi al dolore, vada da chi soffre per capire se dolore e felicità vengono solo dall’uomo o da un segno. Io sono andato. Non come dovevo, ma sono andato da malati e carcerati… Un po’ di solitudine ci vuole. Nessuno oggi vuole più stare solo. Ha paura che gli saltino fuori tutte le domande, di capire la rovina in cui vive. Tutti sono pieni di niente».
La voce è più debole: «Anche chi non crede è dentro questa storia, dentro questa Incarnazione; anche se non lo sa e non vuole. Non c’è sempre bisogno di scoprirlo. Credo nella Resurrezione comunque, per peccatori e non peccatori. È più forte di me».
Tag:Giovanni Testori