Da Omero a Guareschi per riscoprire se stessi
Nei giorni dedicati al ricordo dei morti ci hanno colpito le considerazioni, pubblicate su Sette, del filosofo Mauro Bonazzi, che ripercorrendo le pagine dell’Iliade dopo l’uccisione di Ettore da parte di Achille, osserva: «Gli uomini non sconfiggeranno la morte, ma possono comunque conferire un valore umano alla loro vita. Costruire qualcosa insieme. Achille e Priamo piangono insieme. Si scoprono uomini in un mondo indifferente. Riconoscersi uomini tra uomini, imparare a stare insieme. Di fronte allo scandalo della morte altro non possono fare». Dopo oltre 2700 anni queste pagine di Omero ci dicono dunque ancora qualcosa di molto vero, che ci riguarda personalmente. Sulla stessa lunghezza d’onda segnaliamo l’articolo di Giorgio Vittadini sul quotidiano online ilsussidiario.net. Il suggerimento arriva in questo caso dal don Camillo di Guareschi. È un invito al riscatto della coscienza che nell’epoca digitale, dell’iperconnessione, appare invece sempre più svuotata. «Non viviamo senza gli altri, senza una comunità prossima, e senza luoghi di appartenenza più ampi – scrive Vittadini -. Ma se questi luoghi non aprono a quei momenti di dialogo personale con noi stessi e con la verità che alberga in noi, si perde la strada, anche se si rimane in compagnia». La decisione spetta a ciascuno di noi. Come abbiamo ricordato alcune settimane fa citando Tolkien, in fondo «tutto ciò che dobbiamo decidere è cosa fare con il tempo che ci viene concesso».
Insieme di fronte alla morte come fece Achille con Priamo condividendo il pianto
di Mauro Bonazzi
da Sette – 27 ottobre 2023
Simone Weil lo aveva definito il «poema della forza». Ma l’Iliade è ancora di più il poema della morte, perché di quello si parla: della lotta contro la morte che toglie valore a tutto, rendendo le nostre vite così inutili. «Come le foglie, così le stirpi degli uomini: alcune vengono alcune vanno», spiega Glauco a Diomede: Qual è il senso di qualcosa che è destinato a finire nel nulla? Gli eroi che si accalcano sulla piana di Troia – greci o troiani non fa differenza – sempre eccessivi ed esagerati, sono quelli che non accettano questo destino ineluttabile. Con le loro azioni e il loro coraggio loro sono lì a mostrare che non è vero che le loro vite non hanno valore. Morire si muore tutti. I personaggi che corrono, combattono, piangono, ridono davanti a quelle mura lo sanno meglio di chiunque altro. Ma a differenza degli altri loro sono quelli che hanno deciso di affrontare a viso aperto questo nemico implacabile: l’eroe è chi ha scelto di morire bene, dando prova del proprio valore, conquistando la gloria, che rende immortali. È solo così che si può vincere questa battaglia – lasciando dietro di sé qualcosa, una memoria di sé, non conquistando vite improbabili nell’aldilà.
È la storia di Achille, il più giovane, il più forte, il più bello, il più solo. Ma Achille, l’eroe più lucido, è anche colui che a un certo punto capisce la vanità di questa ambizione. Quando Patroclo muore, Achille si rende conto sulla sua pelle cosa significa la morte – la sua potenza. Capisce che la morte vince sempre, che tutte le speranze sue e degli altri eroi sono solo patetiche illusioni. Siamo a metà del poema, e tutto cambia. Perché Achille d’ora in poi si farà servitore della morte. È morto Patroclo, la morte ha vinto: tutti devono morire. Il poema entra così in una dimensione onirica – in un incubo in cui nessuno può più salvarsi. Lo scontro finale con Ettore, l’assassino di Patroclo, e lo strazio del suo cadavere sono solo la conclusione logica di questo percorso. Ma il poema non è ancora finito, e riserva un’ultima sorpresa. Achille, arrivato al fondo della disperazione, capisce.
Nella sua tenda appare Priamo, il re di Troia, il padre di Ettore. Supplica l’assassino di suo figlio perché gli renda il cadavere, così da poterlo seppellire. Di fronte a un simile gesto Achille raggiunge una nuova consapevolezza sulla condizione umana. Una cerimonia funebre è il tentativo di dare senso e valore umano al fatto bruto di un corpo che si decompone. Questo vuole Priamo e Achille impara finalmente ad accettare la sua condizione di essere mortale. Il mondo intorno a noi probabilmente non ha senso, è un meccanismo cieco che ingloba e distrugge tutto. Gli uomini non sconfiggeranno la morte. Ma possono comunque conferire un valore umano alla loro vita. Costruire qualcosa insieme. Achille e Priamo piangono insieme. Si scoprono uomini in un mondo indifferente. È difficile immaginare una scena più intensa. Riconoscersi uomini tra uomini, imparare a stare insieme. Di fronte allo scandalo della morte, altro non possiamo fare. Ma non è poco, ed è questo, in fondo, che rende il due novembre un giorno così importante, per tutti. «Così onorarono la sepoltura d’Ettore domatore di cavalli»: è l’ultimo verso del poema, ed è il più bello.
Don Camillo, il Cristo e il riscatto della coscienza
di Giorgio Vittadini
da ilsussidiario.net – 3 novembre 2023
Come non esistiamo senza relazioni, così non possiamo esistere senza un dialogo interiore. Quest’ultimo è fortemente in crisi
In un mondo in subbuglio bisogna sapere prendere atto dei cambiamenti e “ricalcolare il percorso”, come dice il navigatore delle auto, senza guardarsi indietro, disponibili anche a rimettere in discussione i riferimenti utilizzati per una vita intera. Riflettendo su questo non ho potuto fare a meno di pensare ai dialoghi tra don Camillo e il Cristo del suo crocefisso, passaggi cruciali dell’opera “Mondo Piccolo” di Giovannino Guareschi. Come ebbe a scrivere lo stesso autore, “chi parla nelle mie storie non è il Cristo, ma il mio Cristo cioè la voce della mia coscienza”.
Don Camillo parla con il Cristo di quello che gli accade, mettendo a tema le vicende tristi e liete della vita quotidiana, sue e delle persone intorno a lui: la povertà, il lavoro, la giustizia sociale, la meschinità, la sete di vendetta e in generale il male procurato dagli uomini e quello che viene dalla natura, la politica locale e quella globale. Guareschi percorre in lungo e in largo quella dimensione orientativa dentro di sé. Il dialogo di don Camillo con il Cristo è quello di un figlio con un padre a cui ha la libertà di chiedere tutto, di esprimere senza formalismi e finzioni tutto sé stesso.
Il linguaggio della “coscienza di Guareschi” espressa dal Cristo nei racconti è quello dei Vangeli. Non si impone con violenza e autoritarismo, ma partendo dall’osservazione dei fatti spinge don Camillo, spesso con ironia, a riflettere, a ragionare, utilizzando la verità che è dentro di lui. Il dialogo interiore si mostra così potente che don Camillo cambia, si corregge e ha modo di accorgersi che la fede è il seme che non muore e rinasce dopo ogni tragedia, sconfitta, sconvolgimento. Per questo don Camillo accetta qualunque privazione e sacrificio, ma non rinuncia al dialogo con il suo Cristo in croce. Forse le pagine più commoventi di tutto “Mondo Piccolo” sono perciò quelle in cui don Camillo, confinato in un paese di montagna per le sue intemperanze politiche, torna a prendere il suo Crocifisso e camminando per una notte intera sotto la neve lo porta sulla cima del monte.
Una riduzione intimistica della fede? Che quello di Guareschi non fosse un Cristianesimo “da sacrestia” è piuttosto evidente. E anche il suo personaggio principale, don Camillo, mostra una fede tutt’altro che privata. È un’astrazione quella che divide il rapporto con Dio da quello che abbiamo con le persone. La qualità del rapporto con Dio dice della qualità del rapporto con le persone e viceversa. Non si possono dividere, perché la persona è una, unita.
Al di là di questo, il tema è quello del riferimento. Il rischio che vedo è lo svuotamento dell’autocoscienza personale, ma anche culturale, delegato a un’entità fuori di noi. Come non esistiamo senza relazioni, così non possiamo esistere senza un dialogo interiore. Quest’ultimo è fortemente in crisi. In una recente intervista, Derrick de Kerckhove parla del pericolo di un’identità personale che tende a crearsi sempre più fuori di noi, anziché dentro. Osserva il sociologo: “Quando avevo 13 o 14 anni, cominciavo ad avere le mie idee, facevo le mie letture, mi confrontavo con gli amici, ma avevo già una coscienza interna di chi fossi. I ragazzi di oggi, invece, si prendono sul serio a condizione che siano conosciuti, visti, apprezzati, che ricevano like, commenti e così via. […] Il sé del ragazzo si svuota: l’interno del suo essere evapora nel discorso permanente dei social; il chiacchiericcio dei social media dà al singolo un sentimento di valore”.
Non c’è solo l’isolamento digitale a darci l’alibi di poter ignorare il nostro riferimento interno, ma anche dinamiche di gruppo non vissute con la giusta distanza critica. È vero che nel rapporto con gli altri trovo me stesso, ma non lo trovo se non do il giusto ascolto al mio mondo interiore. Credo che questo sia un momento in cui serve rallentare, fermarsi e recuperare questa dimensione. E nel frattempo continuare a lasciarci ispirare da Guareschi. Non viviamo senza gli altri, senza una comunità prossima, e senza luoghi di appartenenza più ampi. Ma se questi luoghi non aprono a quei momenti di dialogo personale con noi stessi e con la verità che alberga in noi, si perde la strada, anche se si rimane in compagnia.