Non ci sono vite a perdere
Ha colpito la vicenda della piccola Indi Gregory nata con una malattia rara e morta lunedì in Inghilterra dopo che i giudici avevano deciso, contro la volontà della famiglia, di interrompere tutti i trattamenti vitali, respingendo anche la disponibilità dell’ospedale romano del Bambin Gesù ad accogliere la bambina per le cure. Ai genitori è stato persino impedito di portarla a casa. Per una valutazione del caso, senza precomprensioni ideologiche di qualunque tipo ma sulla base della semplice esperienza, segnaliamo l’intervista a Eugenio Borgna, decano della psichiatria italiana, pubblicata da Repubblica, nella quale dichiara che «la legge inglese ha calpestato ogni forma di umanità. Sono dalla parte della speranza anche se questa fosse stata un’illusione». In gioco c’è «il senso stesso della dignità della vita». Quella dignità, quella «dimensione profonda dell’essere umano» per la quale «non è il tempo di arrendersi ma di combattere» come sottolinea Susanna Tamaro in un articolo sul Corriere della Sera. La scrittrice, che è stata nostra ospite a Brescia nel 2019 in una serata memorabile al Mese Letterario, propone una riflessione più generale sullo strapotere della tecnica che lascia l’uomo senza bussola e «che ha invaso e stravolto senza alcun controllo le nostre società avanzate». Gli effetti di tale condizione sono il declino del senso critico negli adulti e la diffusione del disagio psichico tra gli adolescenti. La cultura è stata ridotta a sapere tecnico e così viene meno la capacità «di farsi delle domande». Nell’articolo si cita Romano Guardini che già negli anni ’60 denunciava l’invasività di un potere che diventa «lavaggio del cervello». «Questa forza, profeticamente intravista sessant’anni fa – scrive Susanna Tamaro -, alla fine è esplosa e ha distrutto la nostra civiltà, riducendola a un consesso di fanatismi contrapposti, in grado di ridicolizzare la capacità di un qualsiasi pensiero articolato. La persona non esiste più, al suo posto è sorto l’individuo». Un individuo sempre più isolato e solo. Il lavoro a cui tutti siamo chiamati è perciò anzitutto far riemergere quella dimensione umana che oggi appare gravemente compromessa.
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Caso Indi, Borgna: “È disumano uccidere la speranza di quei genitori”
Intervista a Eugenio Borgna da la Repubblica – 12 novembre 2023
«Bisognava ascoltare i genitori, seguire anche quell’ultima speranza di cura per Indi, quale diritto avevano i giudici inglesi di staccare le macchine contro la volontà della famiglia? Chi ha diritto di decidere se una vita è degna o no di essere vissuta?». Eugenio Borgna ha 93 anni, alla psichiatria ha dedicato tutta la sua vita, così alla cognizione del dolore e alla difesa della fragilità. Sul destino della piccola Indi, otto mesi, nata con una malattia mitocondriale rarissima, legata a un respiratore fin dalla nascita, tracheotomizzata, alimentata con un sondino naso gastrico, sottoposta a molteplici interventi, dice con gravità: «Sono dalla parte della speranza anche se questa fosse stata un’illusione».
Un terreno delicatissimo professor Borgna. Tracciare confini netti può sembrare sempre arbitrario. Non crede però che di fronte a una vita così sofferente i giudici abbiano scelto per il bene della bambina?
«No, assolutamente. Per due motivi. Se un grande ospedale come il Bambin Gesù di Roma si era offerto di accogliere Indi, mettendo a rischio la propria reputazione, perché vietare ai genitori di fare quest’ultimo tentativo? È disumano uccidere la speranza, anche se si rivelasse un’illusione».
Un’illusione fatta di dolori indicibili a giudizio dei medici inglesi.
«I medici italiani però avevano aperto uno spiraglio di speranza. Ritenendo di poter migliorare le condizioni di Indi. Portandola nel nostro paese avremmo compiuto un gesto di umanità sia verso i genitori che verso la bambina. Forse non c’era più nulla da fare ma in questo modo i genitori avrebbero avuto pace. E quante volte anche le prognosi più infauste di una équipe medica vengono smentite da una équipe diversa? Qui però c’è in gioco il senso stesso della dignità della vita».
In che senso? Indi aveva otto mesi ed era in una condizione terminale.
«Ma quale diritto avevano i giudici di decidere se la sua vita fosse o meno degna di essere vissuta? Nella mia professione ho sempre difeso esistenze che per altri erano vite a perdere».
Negli ospedali psichiatrici?
«Sì, quando erano pieni di malati abbandonati, considerati dei rifiuti. Pur se curati molti non sono guariti, magari hanno vissuto poco, ma è stata loro restituita la dignità. Anche allora parte della medicina, di fronte alla non guarigione, proponeva l’abbandono dei pazienti. Se ci fosse stata anche una possibilità di cura su mille per Indi andava perseguita».
Dunque in casi così disperati chi può decidere del destino di un bambino?
«I genitori. Dovevano essere aiutati e ascoltati. La legge inglese ha calpestato ogni forma di umanità»
Susanna Tamaro: stiamo diventando incapaci di porci domande
di Susanna Tamaro – dal Corriere della Sera – 12 novembre 2023
Il dominio della tecnica lascia l’umanità senza bussola. Ma non dobbiamo arrenderci all’eclisse del pensiero. La scrittrice denuncia il declino del senso critico negli adulti e la diffusione del disagio psichico tra gli adolescenti: è tempo di reagire
«Sei preoccupato per l’arrivo dell’intelligenza artificiale?» diceva un uomo affacciandosi alla porta e l’altro, dalla sua scrivania, rispondeva: «No, sono preoccupato dalla scomparsa di quella naturale». Erano le battute di una vignetta di cui non ricordo l’autore ma che mi sembra emblematica per descrivere i tempi che stiamo vivendo.
Se ripenso ai miei anni giovanili, mi torna spesso in mente lo scrittore Giorgio Voghera e le tante mattinate trascorse insieme al mitico caffè San Marco di Trieste. Giorgio Voghera — figlio di Guido, noto matematico — è stato uno dei grandi rappresentanti della cultura triestina del secolo scorso. Nato nel 1908, è stato l’autore — anche se lo ha sempre negato — del libro Il segreto, pubblicato alla fine degli anni Cinquanta, e di molte altre opere. Aveva lasciato Trieste nel 1939 per via delle leggi razziali, e vi era tornato nel 1948 dopo anni vissuti in un kibbutz per riprendere il suo apparentemente tranquillo impiego in una compagnia di assicurazione.
Il caffè San Marco degli anni Settanta e Ottanta era ancora un vecchio locale fumoso dell’Europa centrale in cui i camerieri si aggiravano con piccoli vassoietti inox tra i tavolini e dove gli avventori bevevano caffè leggendo gratuitamente i giornali o giocando a scacchi. Giorgio Voghera — che è stato il mio primo lettore e che mi ha incoraggiato a scrivere — «riceveva» lì tutti i sabati mattina amici, conoscenti e sconosciuti, offrendo sempre nuovi motivi di discussione: un libro letto, un fatto accaduto, l’analisi di un sogno notturno, la soluzione di una sciarada. Era anche un grande appassionato di osservazione del mondo naturale come me: durante il suo soggiorno in kibbutz aveva lungamente osservato il comportamento delle galline e ne parlavamo spesso insieme. In poche ore, insomma, intorno a lui si materializzava un caleidoscopio di persone portatrici di notizie e di domande che rimanevano, nella loro stravaganza, sospese nell’aria; ne ricordo una in particolare: avete visto cartoline che raffigurano delle nubi? E se non ci sono, quale senso dobbiamo dare alla loro non esistenza?
Penso con grande riconoscenza a Giorgio Voghera e a tutti quei sabati trascorsi insieme; un pensiero che però è velato dall’ombra della malinconia perché mi rendo conto che quel mondo — che era quello della cultura che ha formato l’Europa dalla quale sono nati tutti i grandi pensatori, da Canetti e Hillesum — è irrimediabilmente scomparso; era riuscito a sopravvivere alla grande falcidia del nazismo, ma non è riuscito a sopravvivere allo tsunami della tecnologia che, diventata tecnocrazia, ha invaso e stravolto senza alcun controllo le nostre società avanzate.
La cultura si è trasformata in saper fare. Si è considerati colti se si ha una laurea che certifichi la propria preparazione; più master si hanno, più preparati si diventa e dunque più potere si ottiene; e a chi non può esibire queste «medaglie» non rimane che venir sbatacchiato sulla battigia come un barattolo vuoto. Il sapere è tecnico, e fuori dalla tecnica non c’è salvezza. La prova matematica di ciò l’abbiamo avuta nel tempo del Covid, il tempo del buio della ragione, in cui tutte le persone che hanno osato proporre qualche riflessione critica sono state perseguitate, insultate e derise da una folla di competenti laureati.
Eliminata la cultura, ora ci muoviamo unicamente tra due poli, la tecnica e la politica, e questi due poli, è ormai chiaro, si illuminano a vicenda di una luce sinistra. Cominciano, è vero, a levarsi qua e là i mea culpa di chi si lamenta della perdita del pensiero critico, ma sono mea culpa tardivi. Recentemente ho riletto un articolo dello psichiatra Giovanni Bollea del 1998 in cui parlava dell’assoluta urgenza di convocare a un tavolo i ministri e le persone competenti per creare un piano capace di controllare e arginare l’enorme influsso che i mezzi tecnologici rischiavano di avere sullo sviluppo neurologico dei bambini.
I dati attuali che la neuropsichiatria ci offre dovrebbero lasciare insonni tutte le persone che hanno a cuore il destino dei nostri figli e il futuro del Paese: l’alcolismo sempre più precoce, il consumo incontrollato di droghe sintetiche accanto ai sempre più diffusi atti di autolesionismo, che giungono a lambire anche i bambini, ci parlano di una devastazione etologica ormai fuori controllo. La ferocia sanguinaria è una compagna fedele di tutta la storia umana mentre gli istinti autodistruttivi presenti nei cuccioli della nostra specie sono una novità assoluta. Ogni essere vivente — più è evoluto, più questo è vero — possiede un’istintiva voglia di vivere e un’energia innata che lo proietta verso il suo futuro. La nostra specie ha totalmente perso la bussola e lo ha fatto in un tempo storicamente irrisorio.
Chi ricorda la pubblicità di una nota compagnia telefonica di qualche tempo fa? «Ti diamo le risposte prima ancora che tu ti faccia le domande». Ed è proprio questo il gravissimo stallo della nostra società: ricevere delle risposte prima di farsi le domande.