«Le questioni radicali, oggi, sono la vita e la morte, il significato del vivere, il senso della sua conclusione». Lo scrive Luciano Violante, nel suo libro «Ma io ti ho sempre salvato» (ed. Bollati Boringhieri), che sarà presentato venerdì 15 novembre alle 18.15, a Brescia al Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30, in un incontro promosso dalla Fondazione San Benedetto. L’ex presidente della Camera dei deputati ne parlerà insieme a Julián Carrón, docente di teologia all’Università Cattolica di Milano.
Luciano Violante
In vista di tale appuntamento questa settimana vi proponiamo la lettura di alcuni brevi estratti dal libro di Violante che ci sembrano particolarmente significativi. Nel testo viene messa a tema la questione del rapporto con la morte, partendo dall’esperienza diretta e personale dell’autore raccontata in pagine molto toccanti. «Nei momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando, è necessario porsi le domande cruciali del convivere civile, imporci di tornare ai fondamentali. Quando la tenuta stessa della società civile sembra essere messa in discussione conviene fermarsi e domandarci quale sia il collante che ci tiene uniti, quale il criterio che sopra ogni altro può farci restare umani».
Julián Carrón
Ricordiamo che la partecipazione è aperta a tutti sino a esaurimento posti, previa registrazione a questo link dove è possibile iscriversi immediatamente. Chi intendesse partecipare e non si fosse ancora iscritto è invitato a farlo al più presto, in quanto, avendo già ricevuto molte richieste, stiamo valutando la possibilità di predisporre una seconda sala videocollegata.
Vivere la vita a occhi aperti
dal libro di Luciano Violante «Ma io ti ho sempre salvato» (ed. Bollati Boringhieri)
Siamo impreparati alla morte, eppure è un evento certo. Le nostre società, spinte da scienza e tecnologia, narcisiste per il predominio dell’immagine sulla parola, prigioniere di pensieri brevi e fugaci per la frammentazione dell’esistenza quotidiana, non introiettano più il concetto del limite e quindi della certezza della morte. Eppure la consapevolezza potrebbe indurci a una pausa; attendere, fermare l’azione, connettere i concetti e i fatti, radunare i fili, andare oltre il momento. Superare il rischio, dell’«altro da fare». Quando riusciamo a pensare a chi è morto, e a volte lo facciamo, ci accorgiamo che con la morte non finisce solo una persona; finiscono in modo non recuperabile fasci di affetti, di relazioni, di sentimenti, archi di vita.
Una persona non è solo corpo, voce, sguardo. E letture, ascolti, pensieri, amori, dolori, sentimenti, cose e luoghi. Nel circuito di un vitalismo fine a sé stesso, orfano di pensiero e tanto presente nelle nostre esperienze, la vita dell’altro si essicca. Spogliato della sua vita di relazione, privato della capacità di produrre e della possibilità di consumare, non più utile per i sondaggi di opinione, il morto può offrire ai vivi solo la propria vissuta umanità. Ma hanno tutti la volontà di ripercorrere quella vita, di impegnarsi a conoscerne il senso profondo, con il rischio di percorrere anche sé stessi e porsi domande scomode? (pag. 50)
Respingiamo la realtà della morte perché ci rifiutiamo di riflettere sulla realtà della vita. Eppure il rapporto è strettissimo.
I grandi miti, le grandi religioni, le grandi filosofie ruotano attorno a una interpretazione del rapporto tra vita e morte. Il tema dell’oltre la morte e del rapporto tra morte e vita vissuta ha animato miti di straordinaria potenza, è stato parte costitutiva di grandi filosofie e di grandi religioni che hanno costruito e costruiscono un «oltre» che ha rapporto con la vita vissuta. Oggi, una secolarizzazione ricca di automatismi e priva di riflessione ci ha lasciato senza difese in un mondo amministrato da razionalità puramente strumentali. Non siamo consapevoli di ciò che ci manca per capire il senso della nascita e della vita; consideriamo la morte un’improvvisa voragine nella quale precipitare. Nel dibattito pubblico discutiamo su come garantire il diritto a una morte degna, ma non ci interroghiamo su come garantire il diritto a una vita degna.
La morte non è antagonista rispetto alla vita, né è qualcosa di estraneo; presuppone la vita e ne è la conclusione. Non ci confrontiamo sul senso della morte perché non ci confrontiamo sul senso della vita. Non varchiamo la soglia; ci fermiamo alla frenesia vitalistica del giorno per giorno. (pagg. 14-15)
Le questioni radicali, oggi, sono la vita e la morte, il significato del vivere, il senso della sua conclusione. «Un istante ancora», scrive prima di morire Adriano, nel libro di Marguerite Yourcenar, «guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…». Questo è possibile solo quando anche la vita è stata vissuta a occhi aperti. Se la vita è stata vissuta superficialmente, facendo prevalere l’appropriazione o la frenesia o l’ignavia, è difficile poi guardare la morte negli occhi. Non si può parlare del senso della propria morte senza parlare del senso della propria vita.
Per un complesso di tabù, per abitudine, per la terribilità che la circonda, per il vuoto di pensiero, non si parla volentieri della morte. Tuttavia, il suo attuale silenzioso protagonismo in tutto il mondo e in tante forme diverse, ci pone domande cruciali sul crinale che la nostra generazione sta attraversando. Non possiamo essere come il navigante sul battello di cui parla Schopenhauer: «Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte, solleva e sprofonda ululando montagne d’onda, un navigante siede su un battello, confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo al mondo di affanni appoggiandosi e confidando nel principium individuationis», nel suo essere diverso da tutti gli altri. Ma quel battello non ci salverà, né ci salverà il principium individuationis, se non prendiamo nelle nostre mani il senso della vita e della morte: perché questo è il tema del nostro tempo. (pagg. 9-10)
Mentre dai diversi fronti di guerra (Ucraina, Medio Oriente, Sudan, ecc.) non arrivano segnali che possano far sperare in un cessate il fuoco in tempi brevi, questa settimana vogliamo proporre un’interessante testimonianza del filosofo Rocco Buttiglione su Papa Giovanni Paolo II e sulla sua posizione nel 2003 di fronte alla guerra in Iraq che stava per scoppiare e che ha poi lasciato uno strascico infinito di morte e distruzione senza arrivare a una vera pacificazione dell’area. «Non contestava – scrive Buttiglione – il diritto dei governi di fare la guerra per tutelare l’ordine internazionale. Era però deciso a chiarire che si trattava di una guerra tutta politica, non una guerra di religione, non una crociata, non una guerra in cui la Chiesa dovesse o potesse prendere partito. Intuiva che quella guerra poteva scatenare un conflitto epocale fra le religioni ed era deciso a fare tutto il possibile per evitarlo. Alla fine del colloquio mi disse: “Noi abbiamo lottato per la verità e la giustizia sotto il regime comunista con le armi della non violenza. Non avevamo altra arma che l’appello alla coscienza dell’avversario e alla fine abbiamo vinto. L’Occidente ha tanti mezzi per convincere Saddam a rispettare l’ordine internazionale. Possibile che si decida comunque, alla fine, di fare ricorso alla forza delle armi?”». Una domanda estremamente attuale anche di fronte agli scenari di guerra di oggi.
Intelligenza artificiale, dipendenza dagli smartphone e dai social network, multitasking mediatico, uso sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, difficoltà a distinguere le notizie vere dalle fake news. Sono solo alcuni aspetti contrastanti del mondo in cui siamo quotidianamente immersi. Su questi temi, tra luci e ombre, vogliamo soffermarci nella nostra newsletter per stimolare la riflessione. Lo facciamo attraverso due articoli, che consigliamo di leggere, dell’epistemologo Gilberto Corbellini sul Sole 24Ore, e del direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi su La Lettura. Entrambi gli interventi, che partono da approcci e punti di vista diversi, documentano alcune ricadute che l’impatto con le tecnologie digitali sta avendo sulle nostre vite e sul cervello umano, di cui occorre essere consapevoli. Un impatto che rischia di essere particolarmente aggressivo sui più giovani.
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Non si tratta assolutamente di demonizzare la tecnologia con inutili battaglie di retroguardia, fuori tempo massimo, o con altre idiozie del genere. Ci interessa invece utilizzarla in modo critico e consapevole; e questo è possibile. Tutto, come sempre, dipende dal soggetto, da ciascuno di noi. Come ha scritto recentemente lo scrittore Alessandro D’Avenia, se l’homo curvatus (quello che passa le sue giornate con lo sguardo curvato sullo smartphone e non si accorge più della realtà) «ha meno occhi non è colpa del telefono, ma di un cuore che quel telefono ha trovato vuoto». Così qualche giorno fa sul Corriere un lettore descriveva in una piccola lettera una scena emblematica: «Per un piccolo intervento, sono da pochi giorni in una camera d’ospedale a tre posti. Fino a ieri c’era anche Paolo, un degente boomer come me, andato via stamani. Da oggi ecco arrivare due sui 40 anni. Completamente rapiti dal cellulare, stanno distesi sul letto a guardarlo come un dio. Zero saluti, zero sguardi, zero di tutto. Con Paolo, invece, è bastato uno sguardo per conversare, sapere dove vive, che ha una figlia, che lui è in pensione, che non ha paura dei medici, prende farmaci e sta bene. In due giorni ci si è confidati giusto un po’, per rendere meno vuoto il tempo e non sentirsi soli. I due digitali 40enni invece… che tristezza l’adorazione di quel loro dio tascabile».
Il clima di odio politico che ormai respiriamo quotidianamente in piccola o grande scala ha un’origine religiosa? È quanto sostiene il noto psicanalista Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica. Una tesi che viene contestata dal filosofo Giovanni Maddalena, in un intervento – che vi segnaliamo – sul sito tempi.it, perché «è un pensiero che non tiene conto né della logica né della teologia né, soprattutto, dell’esperienza religiosa effettiva». In questo caso fare di tutte le erbe un fascio non rende giustizia alla realtà dei fatti, anzitutto perché «non tutte le teologie sono uguali».
Uscendo dai luoghi comuni occorre piuttosto considerare cosa sia l’esperienza religiosa. «Tutte le persone religiose, di qualsiasi religione – sottolinea Maddalena -, sanno che il rapporto con Dio è una relazione con qualcosa o qualcuno che è più di se stessi, la cui volontà è altra dalla propria perché è in ultimo misteriosa, ossia ultimamente imperscrutabile, non riconducibile alle dinamiche della mente umana. Come faceva ben capire la filosofia di Gianni Vattimo, una rivelazione che togliesse del tutto il mistero di Dio sarebbe pura secolarizzazione». E allora la violenza della società di oggi, che si esprime nella sua estrema polarizzazione, da dove viene? Nasce piuttosto – spiega Maddalena – «dall’opposto della religione, che è l’idolatria e, modernamente, l’ideologia. Essa significa mettere al posto di Dio qualcosa o qualcuno che non lo è affatto, che risponde o corrisponde ai nostri pensieri umani, e spesso al mero nostro piacere o desiderio, adorandolo come un dio. È un dio che è nostro possesso e di cui diventiamo schiavi». Che lo si chiami ordine sociale, eguaglianza, razza, classe, successo, denaro, partito, gruppo, clan, etc. tutto può essere trasformato in dio. «Lo comprendiamo – conclude il filosofo -, sappiamo che non è dio, che non parla, non comunica niente di diverso da ciò che già pensiamo, ma lo trasformiamo in dio pensando che l’affermazione sua sia l’affermazione nostra. È il dio dei (cattivi) filosofi, il dio della mente che è principio di violenza, mai il Dio vivente delle tradizioni popolari vissute da cuori di carne».