Libia. L’inferno delle madri
“Le donne e le ragazze migranti sono particolarmente esposte a stupro, prostituzione forzata e altre forme di violenza” (Da Avvenire del 2 settembre, l’editoriale di Marina Corradi)
Ultimo rapporto della Missione in Libia dell’Onu, datato 24 agosto e diffuso ieri. «Migranti e rifugiati continuano a essere sottoposti a privazione della libertà e detenzione arbitraria in luoghi di prigionia ufficiali e non ufficiali; torture, inclusa la violenza sessuale, rapimento a scopo di riscatto, estorsione, lavoro forzato, esecuzioni illegali. Il numero dei prigionieri è aumentato a causa delle intercettazioni in mare e della chiusura delle rotte nel Mediterraneo, che impediscono le partenze. Colpevoli delle violenze sono ufficiali governativi come gruppi armati, bande criminali, contrabbandieri, trafficanti». «Le donne e le ragazze migranti – prosegue il rapporto – sono particolarmente esposte a stupro, prostituzione forzata e altre forme di violenza». Ai rappresentanti della Missione è stato tra l’altro negato l’accesso alla prigione Zuwarah, che pure è governativa. Gli occhi dell’Onu non devono superare le sue mura: a scuotere le false sicurezze di chi ama dire e gridare che le notizie riferite da quanti sbarcano in Occidente sono ‘esagerazioni’, addirittura ‘invenzioni’. Proprio fra le testimonianze dei cento accolti dalla Cei e giunti a Rocca di Papa, età media 25 anni – ragazzi dunque, li chiameremmo, fossero figli nostri – ecco quella di otto giovani donne riferite a Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Acnur, tramite la mediatrice culturale. Le ragazze hanno detto di avere passato «l’inferno in terra», di aver subito «cose che nessuna donna dovrebbe sopportare». Stuprate e poi tenute prigioniere anche per anni, loro e altre compagne che non ce l’hanno fatta ad arrivare in Occidente. Rimaste incinte, hanno partorito in prigione bambini che sono morti di stenti a pochi mesi.
Sono parole che i media hanno pubblicato ieri, forse passate inosservate nella mole di notizie sui migranti. Ma, se ti fermi a pensarci, ti accorgi che descrivono qualcosa di più di ciò che già sappiamo, violenza, stupri, ricatti. Descrivono un inferno: delle donne, e poi delle madri. Prima violentate e recluse. Poi abbandonate in prigione per settimane e mesi; mentre dal loro giovane corpo arrivano i segni di una gravidanza. Riusciamo a immaginarci? Con negli occhi ancora le facce degli stupratori, sentendosi addosso ancora, e forse per sempre, le loro mani, queste ragazze si sono sapute madri di un figlio concepito nella violenza. Un figlio, forse, con gli stessi occhi dell’uomo che non dimenticheranno mai. Nel tempo immobile di una prigione, sentire in sé che quel figlio cresce. Si odia, il figlio di un tale sopruso, quasi fosse anche lui un invasore? È possibile. È possibile che nei lunghi mesi dell’attesa, mentre la sua presenza diventa evidente e il suo peso grava il ventre, una donna odi il figlio. Che il parto col suo doloresembri un’altra violenza.Ma piangono come tutti i bambini, quei bambini. Solo il seno materno li acquieta. Ci si addormentano sopra, fiduciosi. Non dilania, allora, il contrasto fra la ferocia subita e quell’abbandono inerme? Nel silenzio echeggiante di gemiti delle celle, le prigioniere in bilico su un crinale: odiare, come sarebbe umanamente anche ragionevole, oppure, tuttavia, amare. Ce ne saranno, che si stringono alla fine quel figlio al petto, spinte da un istinto antico, e perfino più forte del male.
Ma il bambino ha fame, e la madre non mangia a sufficienza, il latte le manca. È nel buio e tra lo sporco. Quei figli, forti abbastanza da venire al mondo senza esser voluti, in un tugurio, non reggono alla fame e alle infezioni. Si fanno lividi, un giorno dopo l’altro, il pianto più flebile. Dormono quasi sempre, ma è una sonnolenza malata che li tiene quieti. Come li vegliano, con quali occhi, le donne che ormai li sentono, nonostante tutto, vinte dall’istinto materno, figli? Quanto soffrono dell’annunciarsi della morte in quei volti di bambini? Una mattina trovarli accanto nel giaciglio, inerti. Piangere, per non volersene separare. Non è, quello sussurrato in poche faticose parole da povere migranti, a Rocca di Papa, l’inferno delle madri? E come mai, pure leggendo, quasi non ce ne accorgiamo? È il colore della pelle, che ci impedisce di immedesimarci?
Cose che accadono appena al di là del nostro mare. Chi fugge viene bloccato, persino riportato indietro, i porti ostentatamente sbarrati. Non possiamo accogliere tutti, dicono, ed è vero. E però lacera il pensiero di queste donne violate, e poi madri, che assistono all’agonia dei loro figli. L’inferno delle madri. Appena al di là del nostro mare.