Tra il Friuli e Roma, le periferie esistenziali di Pasolini
Vi sono due momenti, nella vita e nell’opera di Pasolini, che paiono richiamarsi di continuo. E l’illusione romantica li unisce entrambi (Da ilsussidiario.net di Carlo Bortolozzo)
Vi sono due momenti, nella vita e nell’opera di Pasolini, che paiono richiamarsi di continuo. Il primo è quello degli anni di Casarsa, in Friuli, paese natale della madre, in cui i due vissero stabilmente dal ’42 all’inizio del ’50; il secondo è quello conclusivo, della prima metà degli anni Settanta, segnato dall’intuizione della “mutazione antropologica” subita dagli italiani, fatta oggetto di numerosi articoli, confluiti poi nelle raccolte Lettere luterane e Scritti corsari. Le Poesie a Casarsa, di cui si accorse subito Contini, è uno dei libri più belli di Pasolini: scritto nel dialetto della riva destra del Tagliamento, di cà da l’aga (di qua dall’acqua) che mai era stato scritto; un dialetto naturalmente vivo e poetico, grezzo e dolce, pieno di una “scontrosa grazia”, avrebbe detto Saba. Il giovane poeta è influenzato dagli studi di filologia romanza (si sta laureando in lettere a Bologna) e soprattutto dall’eco dei poeti provenzali, ma i versi escono freschi e liberi, in un “paese di temporali e di primule”, per citare il titolo del libro curato da Nico Naldini, che raccoglie gli scritti friulani del poeta; vi si avvertono sullo sfondo i bagni nel fiume, le corse in bicicletta, le albe e i tramonti lungo la linea delle risorgive, dei canali che sfociano verso il mare.