E LA «VITA» DIVENTÒ UN IDOLO
La pandemia di Coronavirus ha assunto le dimensioni di uno tsunami planetario per le conseguenze che ha innescato. Eppure non è la prima volta che l’umanità si trova a fare i conti con un’epidemia, ma rispetto al passato adesso c’è qualcosa di assolutamente diverso che, se non si è rinunciato a pensare, obbliga a guardare oltre i bollettini quotidiani su numeri di contagi e di decessi, indici rt, proteste e polemiche di cui la cronaca è infarcita. Nello scorso mese di luglio in Francia Gallimard ha pubblicato un saggio di Olivier Rey, matematico e filosofo che insegna a Parigi alla Sorbona, ora riproposto in Italia dalla Società Editrice Fiorentina con il titolo «L’idolatria della “vita”». La sua è una riflessione originale e provocatoria che parte dalla Francia ma si allarga all’intera Europa. Negli ultimi cinquecento anni oltralpe carestie ed epidemie si sono alternate lasciandosi alle spalle milioni di vittime. Basti ricordare la grande carestia del 1693-94 che decimò la popolazione. Progressivamente insieme è cambiato il ruolo dello Stato, il suo potere si è allargato e sempre di più i cittadini si sono abituati a pretendere dalla cosiddetta «mano pubblica». Insieme in modo speculare si è fatta avanti una nuova concezione della vita frutto di quella che Michel Gauchet ha definito «l’uscita dalla religione». «Quando lo Stato non può nulla – osserva Rey – nessuno pensa a lamentarsi della sua inazione contro le calamità. Quando invece può di più, i cittadini tendono a esagerare i suoi poteri e, se non lo pensano onnipotente, tendono a reagire come se lo fosse e considerano che è solo per cattiva volontà, corruzione, incuria, incompetenza e sperpero che non risolve tutte le loro difficoltà. Si mette in moto un gioco perverso».
Le reazioni viste di fronte all’esplosione del Coronavirus sono eloquenti. Un caso esemplare è quello delle mascherine. Anche in Francia, come in Italia si è scoperto a epidemia conclamata che gli stock di mascherine messi da parte in base ai piani contro le pandemie erano inesistenti. Da una parte il governo non solo a Parigi (rileggersi le dichiarazioni di Conte dello scorso febbraio) dichiarava che comunque tutto era «sotto controllo», dall’altra parte piovevano accuse di incompetenza e incapacità. Cosa sarebbe successo, invece, se l’epidemia non fosse scoppiata e fossero stati stoccati comunque miliardi di mascherine? Chi oggi si scandalizza per la loro mancanza, si sarebbe indignato, «bava alla bocca», per lo sperpero di denaro pubblico in riserve inutili. In un rapporto normale tra popolazione e autorità, queste riconoscendo di non essere onnipotenti, spiega Rey, e di non poter prevedere tutto, avrebbero invitato tutte le persone a fabbricarsi da sole le mascherine usando ago e filo. Scandalo inconcepibile, ammissione di debolezza. Nel gioco delle parti meglio continuare a intestardirsi nel proprio status di onnipotenza e lasciar sfogare gli indignati.
QUESTO È SOLO un esempio di una relazione distorta tra governanti e governati che ha ormai contaminato i diversi livelli della vita sociale. È il caso dell’educazione. Sempre più genitori hanno delegato allo Stato non solo l’istruzione ma anche l’educazione dei figli. Dal compito originario di dare a tutti un certo tipo di conoscenze, l’istituzione scolastica ha via via allargato il proprio monopolio all’educazione sostituendo le famiglie. «Da qui – sottolinea Rey – l’apparente paradosso: più l’istituzione scolastica diviene potente, più diventa impotente. Semplice conseguenza, in effetti, del fatto che le responsabilità di cui è stata caricata sono cresciute più in fretta dei mezzi pur colossali che le venivano assegnati. Paradossalmente per ogni grande problema con il quale veniamo a confronto, gli esperti dichiarano che la soluzione “passa per l’educazione” – il che significa, in idioma contemporaneo: dalla scuola. Essa, all’inizio, era tenuta a insegnare a bambini educati altrove, la lettura, la scrittura e il calcolo e, in seguito, alcune materie principali aumentate con alcune materie “accessorie”. Eccola ora che deve trasmettere alcuni saper-essere, educare al vivere insieme, stabilire un’etica della discussione, sensibilizzare a uno sviluppo per gradi e costante, far evolvere le mentalità, promuovere una società inclusiva e lottare contro il razzismo e l’antisemitismo, l’omofobia e la trans-fobia, i pregiudizi e gli stereotipi di genere, garantire l’eccellenza per tutti, sviluppare le competenze psico-sociali, iniziare alle pratiche artistiche, insegnare a mangiare in modo equilibrato, a padroneggiare le nuove tecnologie, e identificare e respingere le fake news – l’elenco è infinito».
La stessa trasformazione si è verificata nell’ambito sanitario. Si è sviluppato un sistema che ha il compito di prendere in carico tutti i malati e tutte le malattie. Si parla di salute anziché di malattia, e l’attesa crescente è che il sistema sanitario assuma la funzione di «guaritore universale». Ogni mancanza di guarigione viene attribuita a un errore nelle cure. Proliferano le cause e i processi contro medici e ospedali non più solo negli Usa. Ecco i comitati «Noi denunceremo» spuntati anche a Brescia. «C’è sempre qualcosa o qualcuno – nota Rey – da accusare, un’“insufficienza” verso cui puntare il dito».
A fronte dell’apparire di un nuovo virus come il Covid che fa morire migliaia di persone, partono raffiche di accuse per l’inadeguatezza degli ospedali o la mancanza di letti di rianimazione. Più si chiede al sistema sanitario di far fronte a tutte le situazioni, più emergeranno insufficienze e le risorse non basteranno mai. Occorreranno piani Marshall per tutto: ospedali, case di riposo, scuola, università, giustizia, carceri, periferie, transizione energetica, periferie, ponti, clima, piccole imprese…
Questo è il contesto in cui ci si dibatte e che la pandemia ha contribuito a far emergere. La «vita» priva della sua apertura religiosa, ha preso il posto del sacro. La parola d’ordine di questi mesi è stata «salvare vite». Ma se la vita è solo «l’insieme dei fenomeni e delle funzioni essenziali che si manifestano dalla nascita alla morte e che caratterizzano gli esseri viventi», questa rimane senza prospettiva. Una conferma di questo Rey la ravvisa nella rimozione della morte: «Nel momento in cui la respirazione si arresta, il vivente da salvare non è che un resto ingombrante di cui non si sa cosa fare, da evacuare il più in fretta possibile». L’attenzione ai defunti ha contraddistinto l’umanità sin dalle più antiche civiltà, oggi l’esistenza stessa dei cadaveri è diventata insopportabile. Il ricorso massiccio alla cremazione ne è una prova. Nei mesi del lockdown i morti sono stati sottratti alla vista dei loro cari, i funerali sono stati giudicati «non essenziali».
«DOV’È LA VITA che abbiamo perduto vivendo?», si chiedeva Thomas Stearns Eliot. E in effetti Rey si domanda perché ci si dovrebbe spendere per salvare una vita se questa è semplicemente un lasso di tempo più o meno breve fra la nascita e la morte senza alcun significato in grado di redimerla dalla sua naturale decadenza. L’idolatria della «vita nuda», privata di qualunque apertura religiosa per il filosofo sarebbe solo «una tappa transitoria che precede di poco la sua svalutazione radicale». Il rischio di precipitare rapidamente in una condizione di schiavitù per quanto ipertecnologica è reale. Infatti l’individuo «moralmente emancipato» da ogni legame trascendente si trova sempre più «disposto a essere sottomesso alle potenze che proteggono» la sua vita residua. Chiede la protezione del Leviatano di Hobbes. Certo si può discutere, ma è un dato di fatto che l’emergenza sanitaria ha avuto l’effetto collaterale di accelerare processi per creare dispositivi di controllo che in tempi normali la popolazione rifiuterebbe. «Questo in breve è il programma – conclude Rey -: influenza totale della tecnologia, standardizzazione accresciuta dei comportamenti, estensione senza limite dell’ambito della gestione». È il mondo nuovo che avanza.
Piergiorgio Chiarini
da Bresciaoggi – 27 novembre 2020