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E LA «VITA» DIVENTÒ UN IDOLO

  • Data 6 Dicembre 2020

La pandemia di Coronavirus ha assunto le dimensioni di uno tsunami planetario per le conseguenze che ha innescato. Eppure non è la prima volta che l’umanità si trova a fare i conti con un’epidemia, ma rispetto al passato adesso c’è qualcosa di assolutamente diverso che, se non si è rinunciato a pensare, obbliga a guardare oltre i bollettini quotidiani su numeri di contagi e di decessi, indici rt, proteste e polemiche di cui la cronaca è infarcita. Nello scorso mese di luglio in Francia Gallimard ha pubblicato un saggio di Olivier Rey, matematico e filosofo che insegna a Parigi alla Sorbona, ora riproposto in Italia dalla Società Editrice Fiorentina con il titolo «L’idolatria della “vita”». La sua è una riflessione originale e provocatoria che parte dalla Francia ma si allarga all’intera Europa. Negli ultimi cinquecento anni oltralpe carestie ed epidemie si sono alternate lasciandosi alle spalle milioni di vittime. Basti ricordare la grande carestia del 1693-94 che decimò la popolazione. Progressivamente insieme è cambiato il ruolo dello Stato, il suo potere si è allargato e sempre di più i cittadini si sono abituati a pretendere dalla cosiddetta «mano pubblica». Insieme in modo speculare si è fatta avanti una nuova concezione della vita frutto di quella che Michel Gauchet ha definito «l’uscita dalla religione». «Quando lo Stato non può nulla – osserva Rey – nessuno pensa a lamentarsi della sua inazione contro le calamità. Quando invece può di più, i cittadini tendono a esagerare i suoi poteri e, se non lo pensano onnipotente, tendono a reagire come se lo fosse e considerano che è solo per cattiva volontà, corruzione, incuria, incompetenza e sperpero che non risolve tutte le loro difficoltà. Si mette in moto un gioco perverso».

Le reazioni viste di fronte all’esplosione del Coronavirus sono eloquenti. Un caso esemplare è quello delle mascherine. Anche in Francia, come in Italia si è scoperto a epidemia conclamata che gli stock di mascherine messi da parte in base ai piani contro le pandemie erano inesistenti. Da una parte il governo non solo a Parigi (rileggersi le dichiarazioni di Conte dello scorso febbraio) dichiarava che comunque tutto era «sotto controllo», dall’altra parte piovevano accuse di incompetenza e incapacità. Cosa sarebbe successo, invece, se l’epidemia non fosse scoppiata e fossero stati stoccati comunque miliardi di mascherine? Chi oggi si scandalizza per la loro mancanza, si sarebbe indignato, «bava alla bocca», per lo sperpero di denaro pubblico in riserve inutili. In un rapporto normale tra popolazione e autorità, queste riconoscendo di non essere onnipotenti, spiega Rey, e di non poter prevedere tutto, avrebbero invitato tutte le persone a fabbricarsi da sole le mascherine usando ago e filo. Scandalo inconcepibile, ammissione di debolezza. Nel gioco delle parti meglio continuare a intestardirsi nel proprio status di onnipotenza e lasciar sfogare gli indignati.

QUESTO È SOLO un esempio di una relazione distorta tra governanti e governati che ha ormai contaminato i diversi livelli della vita sociale. È il caso dell’educazione. Sempre più genitori hanno delegato allo Stato non solo l’istruzione ma anche l’educazione dei figli. Dal compito originario di dare a tutti un certo tipo di conoscenze, l’istituzione scolastica ha via via allargato il proprio monopolio all’educazione sostituendo le famiglie. «Da qui – sottolinea Rey – l’apparente paradosso: più l’istituzione scolastica diviene potente, più diventa impotente. Semplice conseguenza, in effetti, del fatto che le responsabilità di cui è stata caricata sono cresciute più in fretta dei mezzi pur colossali che le venivano assegnati. Paradossalmente per ogni grande problema con il quale veniamo a confronto, gli esperti dichiarano che la soluzione “passa per l’educazione” – il che significa, in idioma contemporaneo: dalla scuola. Essa, all’inizio, era tenuta a insegnare a bambini educati altrove, la lettura, la scrittura e il calcolo e, in seguito, alcune materie principali aumentate con alcune materie “accessorie”. Eccola ora che deve trasmettere alcuni saper-essere, educare al vivere insieme, stabilire un’etica della discussione, sensibilizzare a uno sviluppo per gradi e costante, far evolvere le mentalità, promuovere una società inclusiva e lottare contro il razzismo e l’antisemitismo, l’omofobia e la trans-fobia, i pregiudizi e gli stereotipi di genere, garantire l’eccellenza per tutti, sviluppare le competenze psico-sociali, iniziare alle pratiche artistiche, insegnare a mangiare in modo equilibrato, a padroneggiare le nuove tecnologie, e identificare e respingere le fake news – l’elenco è infinito».
La stessa trasformazione si è verificata nell’ambito sanitario. Si è sviluppato un sistema che ha il compito di prendere in carico tutti i malati e tutte le malattie. Si parla di salute anziché di malattia, e l’attesa crescente è che il sistema sanitario assuma la funzione di «guaritore universale». Ogni mancanza di guarigione viene attribuita a un errore nelle cure. Proliferano le cause e i processi contro medici e ospedali non più solo negli Usa. Ecco i comitati «Noi denunceremo» spuntati anche a Brescia. «C’è sempre qualcosa o qualcuno – nota Rey – da accusare, un’“insufficienza” verso cui puntare il dito».
A fronte dell’apparire di un nuovo virus come il Covid che fa morire migliaia di persone, partono raffiche di accuse per l’inadeguatezza degli ospedali o la mancanza di letti di rianimazione. Più si chiede al sistema sanitario di far fronte a tutte le situazioni, più emergeranno insufficienze e le risorse non basteranno mai. Occorreranno piani Marshall per tutto: ospedali, case di riposo, scuola, università, giustizia, carceri, periferie, transizione energetica, periferie, ponti, clima, piccole imprese…
Questo è il contesto in cui ci si dibatte e che la pandemia ha contribuito a far emergere. La «vita» priva della sua apertura religiosa, ha preso il posto del sacro. La parola d’ordine di questi mesi è stata «salvare vite». Ma se la vita è solo «l’insieme dei fenomeni e delle funzioni essenziali che si manifestano dalla nascita alla morte e che caratterizzano gli esseri viventi», questa rimane senza prospettiva. Una conferma di questo Rey la ravvisa nella rimozione della morte: «Nel momento in cui la respirazione si arresta, il vivente da salvare non è che un resto ingombrante di cui non si sa cosa fare, da evacuare il più in fretta possibile». L’attenzione ai defunti ha contraddistinto l’umanità sin dalle più antiche civiltà, oggi l’esistenza stessa dei cadaveri è diventata insopportabile. Il ricorso massiccio alla cremazione ne è una prova. Nei mesi del lockdown i morti sono stati sottratti alla vista dei loro cari, i funerali sono stati giudicati «non essenziali».

«DOV’È LA VITA che abbiamo perduto vivendo?», si chiedeva Thomas Stearns Eliot. E in effetti Rey si domanda perché ci si dovrebbe spendere per salvare una vita se questa è semplicemente un lasso di tempo più o meno breve fra la nascita e la morte senza alcun significato in grado di redimerla dalla sua naturale decadenza. L’idolatria della «vita nuda», privata di qualunque apertura religiosa per il filosofo sarebbe solo «una tappa transitoria che precede di poco la sua svalutazione radicale». Il rischio di precipitare rapidamente in una condizione di schiavitù per quanto ipertecnologica è reale. Infatti l’individuo «moralmente emancipato» da ogni legame trascendente si trova sempre più «disposto a essere sottomesso alle potenze che proteggono» la sua vita residua. Chiede la protezione del Leviatano di Hobbes. Certo si può discutere, ma è un dato di fatto che l’emergenza sanitaria ha avuto l’effetto collaterale di accelerare processi per creare dispositivi di controllo che in tempi normali la popolazione rifiuterebbe. «Questo in breve è il programma – conclude Rey -: influenza totale della tecnologia, standardizzazione accresciuta dei comportamenti, estensione senza limite dell’ambito della gestione». È il mondo nuovo che avanza.

Piergiorgio Chiarini

da Bresciaoggi – 27 novembre 2020 

 

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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