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Fissiamo il Pensiero

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La nostra scommessa è la nuova tenerezza

  • Data 10 Gennaio 2021

“Noi siamo rimasti a Parigi, ma molti nel nostro quartiere sono partiti per trascorrere i giorni del confinamento altrove. Allora la sera alle 20, quando dai balconi c’è l’applauso per medici e infermieri, io e mio marito (il filosofo Philippe Sollers, nota del redattore) usiamo anche le pentole per fare un po’ di rumore in più”, racconta al telefono Julia Kristeva, la grande intellettuale europea (si definisce così, oltre a bulgara e francese d’adozione) che ha appena pubblicato un saggio su Dostoevskij) e con “La Lettura” prova a riflettere sull’individuo e la società ai tempi dell’epidemia.

Accanto agli slanci di solidarietà e ai momenti di comunione sui balconi, il confinamento comincia a provocare anche invidie e aggressività. C’è l’odio per quanti hanno raggiunto le seconde case o per chi è sospettato di fare un po’ troppo jogging. Il coronavirus rischia di minare i rapporti sociali?

“E’ curioso come la parola “virale” fosse già molto usata, da qualche tempo. Le reazioni virali facevano già parte della nostra iperconnessa attualità politica ed economica. Tutto ciò che procede per contagio, precipitazione, dopo un inizio scintillante legato al piacere arriva a un’esplosione mortifera. La viralità fa parte del nostro ambiente, nei social media che si esaltano per poi maltrattare e distruggere, per esempio. Nei comportamenti che lei cita c’è qualcosa di virale, ma l’abbiamo visto anche prima, nei gilet gialli per esempio, in un movimento che insorge ma poi anche distrugge, nei black block che saccheggiavano le strade di Parigi. L’accelerazione della nostra civiltà era arrivata a uno stadio virale e oggi questa metafora ci sconvolge e si cala nel reale, perché è una minaccia esterna ma anche interna. Forse non abbiamo abbastanza difese immunitarie e il pericolo è anche dentro di noi. Alcuni hanno il virus forse senza neppure saperlo, ma sopravvivono, altri moriranno. Questo ci permette di porci delle domande sul mondo nel quale viviamo, sui fallimenti e su quello che non riusciamo a pensare. A cominciare dall’Europa”.

Come giudica la presenza dell’Europa in questa fase?

“Io sono europea, nel libro su Dostoevskij che ho appena pubblicato ne cerco il lato europeo e moderno. Vedo l’Europa ovunque  e voglio mantenerla, anche se attraversa molte difficoltà e si trova in un momento di caos. Ma il virus ha mostrato che quest’Europa non solo è un mercato privo di politica, di difesa, incapace di rivalutare la nostra grande cultura comune, ma quest’Europa mostra un’incapacità sanitaria assolutamente spaventosa. Le necessità di strumenti medici sono state sottovalutate in modo grave sia in Italia sia in Francia, e mi pare un rifiuto di pensare alla fragilità della specie umana. E questo può riportarci al  piano dei comportamenti individuali. Dalla metafora virale passiamo alla realtà virale, a quel che l’epidemia rivela dell’individuo, dell’uomo globalizzato oggi”.

Quali sono le caratteristiche di quest’uomo globalizzato?

“Sono colpita dall’incapacità contemporanea di essere soli. Tutta questa esaltazione iperconnessa fa vivere un isolamento davanti agli schermi che non ha abolito la solitudine, ma l’ha incistata nei social media, l’ha compressa nei messaggi e nei dati. Persone già devastate dalla solitudine oggi si scoprono sole, perché hanno le parole, i segni, le icone, ma hanno perso la carne delle parole, la sensazione, la condivisione, la tenerezza, il dolore verso l’altro, la preoccupazione dell’altro. La carne delle parole la offriamo in pasto al virus e alla malattia, ma eravamo già orfani di questa dimensione umana che è la passione condivisa”.

La quarantena quindi rivela uno stato che era già presente?

“Sì, all’improvviso ci rendiamo conto che siamo soli e che non abbiamo contatti con il nostro foro interiore. Siamo schiavi degli schermi che non hanno affatto abolito la solitudine, l’hanno solo assorbita. Ecco l’angoscia e la collera di questi giorni”.

Lei è psicoanalista lacaniana, sta continuando le sedute in questi giorni?

“Sì, adesso predicherò per la mia parrocchia, come si dice, ma avevo paura che i pazienti non volessero continuare e invece no, al contrario. Nelle nostre sessioni di confinamento telefonico, come le chiamo, anche senza la presenza fisica dell’analista, ci chiamiamo, lasciamo il telefono aperto, ci stendiamo e restiamo seduti, e arrivano dei momenti di crollo arcaico: riemergono il cancro della propria madre, un abbandono patito dai bambini, le difficoltà di una figlia. Cose di cui prima non riuscivano a parlare vengono affrontate con impegno, come se il pericolo spingesse a buttare fuori i dolori più profondi. In questi giorni, attraverso il telefono, arriviamo a toccare qualcosa di “nucleare” : certe difese cadono, ci si mette a nudo con una sincerità nuova”.

Perché accade, proprio adesso?

“Perchè l’epidemia ci obbliga a confrontarci con gli altri due punti che citavo prima oltre alla solitudine, ovvero i limiti e la mortalità. La situazione attuale ci fa comprendere che la vita è una sopravvivenza continua perchè esistono limiti, obblighi, fragilità, una dimensione che nelle religioni era ben presente e che l’umanesimo contemporaneo tende a cancellare. Così come si tende a espellere da noi la questione della mortalità, il limite più grande che pure fa parte della natura e della vita”.

La rimozione della mortalità è un fenomeno recente?

“Dal Rinascimento abbiamo considerato la mortalità come parametro della religione. Sono i preti a occuparsene. La troviamo nei filosofi, in Hegel o Heidegger, ma la mortalità è assente dal discorso comune, popolare, mediatico. Si preferisce dimenticarla. Ci occupiamo degli anziani, d’accordo, ma non ci confrontiamo con il fatto che la morte è in noi, nell’apoptosi che è il processo continuo di morte e rigenerazione delle cellule, anche adesso mentre le sto parlando. Il nuovo virus ci mette davanti al fatto che la mortalità fa parte integrante del processo vitale. L’arte e la letteratura, penso a Proust o Bataille per esempio, si sono occupate di questi temi: l’atto stesso di scrivere è un confrontarsi con la morte ma l’atteggiamento più diffuso, mediatico, spettacolare, nei confronti dell’umano, evita di solito questa dimensione”.

Crede che l’epidemia cambierà il nostro modo di vedere le cose?

”Potrebbe influenzare  i nostri rapporti famigliari, tra genitori e figli, indurre a ripensare il consumismo, l’ossessione dei viaggi, su quelle febbri politiche ispirate a slogan come “lavorare di più per guadagnare di più”, la competitività esibita come “paillette”. Non propongo un culto della malinconia, ma di ripensare l’insieme della vita, a cominciare dalla fragilità di tutti verso il piacere e la sessualità”.

Che cosa intende per culto della malinconia da evitare?

“Non dico di restare imprigionati nella finitudine o nei limiti, ma solo di tenerli presenti, di considerare la mortalità come parte della vita. In ogni religione c’è l’elemento della purificazione, bisogna lavarsi, non bisogna toccare questo o quello, ci sono dei divieti. Sono superstizioni, diventano culti ossessivi, però noi possiamo tenere conto di questa tradizione, criticarla, ripensarla, ma conservare il senso della precauzione, la preoccupazione per gli altri e le loro debolezze, la consapevolezza della finitezza della vita. Possiamo diventare più prudenti, e in questo modo anche più durevoli, resistenti. La vita è sopravvivenza permanente. Siamo tutti sopravvissuti, ricordiamocelo. E’ una questione di comportamento, di etica personale”.

Alla fine lei è ottimista?

“Direi pessimista energica. Sento di avere vissuto tre guerre, ero neonata durante la Seconda guerra mondiale, poi la Guerra fredda e il mio esilio benchè dorato, e adesso la guerra virale. Forse questo mi ha preparata a parlare di sopravvivenza. Siamo pronti per una nuova arte di vivere, che non avrà niente di tragico, ma sarà complessa ed esigente”.

Intervista di Stefano Montefiori

da La Lettura – 29 marzo 2019

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piergiorgio

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I mattoni nuovi del Meeting, una storia che continua
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Riprende da oggi l’appuntamento con la nostra newsletter domenicale «Fissiamo il pensiero» e, all’inizio di un nuovo tratto di cammino, vogliamo ripartire dal Meeting di Rimini che si è chiuso da pochi giorni. La passione ideale che è il vero motore di un evento come il Meeting unico per il suo carattere e la sua rilevanza in Italia, e probabilmente anche in Europa, pur con modalità e dimensioni diverse, è la stessa che ci muove come Fondazione San Benedetto. Del Meeting si sono occupati anche i media, dando spazio però, come avviene da anni, in modo prevalente agli incontri di tipo politico. Tutti appuntamenti interessanti e di livello, ma il Meeting è molto di più. Perciò abbiamo sempre invitato tutti a trascorrere almeno un giorno in fiera a Rimini, unico modo per evitare giudizi affrettati e parziali. Quest’anno attorno alla frase di T.S. Eliot «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi» (titolo dell’edizione 2025) in sei giorni si è sviluppato un programma di incontri, mostre e spettacoli davvero ricco. Solo a titolo di esempio ricordiamo gli incontri col Patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo a 1700 anni dal Concilio di Nicea, con due madri, una israeliana e l’altra palestinese, che hanno perso un figlio, testimoni di una riconciliazione possibile, con lo scrittore spagnolo Javier Cercas. E poi le mostre da quella sui martiri di Algeria a quella su Vasilij Grossman, da quella su Carlo Acutis a quella sulle voci dall’Ucraina. Nell’ultimo giorno del Meeting è stato annunciato il titolo dell’edizione del prossimo anno che riprende il verso finale della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo, tratto dal quotidiano online ilsussidiario.net, di Giuseppe Frangi, fondatore e vicepresidente di Casa Testori e amico della San Benedetto. Con lui stiamo già collaborando e altre iniziative sono in cantiere. Ricordiamo la serata dello scorso luglio a Brescia con la lettura nella chiesa di San Giovanni del dialogo sul Romanino fra Pasolini e Testori (a questo link lo potete rileggere).
Tornando al titolo del Meeting, questo sta a indicare ogni anno il passo di una storia che continua e che non si ferma a guardare indietro, bloccata su se stessa. È l’espressione di un ideale che si fa vita. Ben altro che un contenitore di eventi o, peggio, di intrattenimento. Si spiega così che dopo 46 anni il Meeting ci sia ancora e sia un luogo sempre interessante e sorprendente. Un percorso analogo lo stiamo facendo come San Benedetto. Abbiamo già in preparazione alcuni incontri sui temi dell’Europa e dell’intelligenza artificiale, e tanto altro, non mancheremo di tenervi aggiornati. Al di là delle singole iniziative la fondazione è prima di tutto un luogo di incontro e di amicizia aperto a tutti. Intanto siamo già in grado di confermarvi che da giovedì 25 settembre alle 18.30 nella nostra sede di Borgo Wührer 119 a Brescia, ci ritroveremo per la Scuola di comunità. Partendo dalla lettura di alcuni testi di don Luigi Giussani è un’occasione per mettere a confronto domande ed esperienze che riguardano la nostra vita e il suo significato. Gli incontri, della durata di un’ora, si terranno con cadenza quindicinale sempre alle 18.30. La proposta è libera, gratuita e aperta a tutti. Chiediamo solo la continuità della partecipazione come segno di serietà nel percorso che ci apprestiamo a cominciare. Il giorno 25 verranno date indicazioni su come si svolgeranno gli incontri con il calendario fino a dicembre e sul testo di riferimento.

Qualcosa di più forte e profondo della distruzione
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La newsletter di oggi è l’ultima prima della pausa estiva. Anche in queste settimane per molti dedicate al riposo e alle vacanze, mentre il mondo è in fiamme e gli orrori della guerra si moltiplicano, crediamo che non si possa far finta di nulla, aprire una parentesi o staccare la spina come si usa dire. Non si può andare in vacanza senza portarsi dietro queste ferite. Portarsele con sé rende più bello e più vero il tempo del riposo. Per questo oggi vogliamo proporvi la lettura di due testimonianze da due dei principali teatri di guerra: l’Ucraina e Gaza. Già scorse settimane avevamo ricordato il caso di Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino che dentro lo scenario di morte prodotto dalle ideologie del ’900, non aveva mai smesso di cercare «l’umano nell’uomo» come inizio di una possibilità di speranza. Le testimonianze di oggi ci dicono che anche nelle situazioni più difficili, la violenza, la distruzione e la morte possono non essere l’ultima parola. 

La prima, pubblicata sul sito «La Nuova Europa», è di Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana. Racconta la storia di Alina, giovane donna ucraina, malata di cancro in fase terminale, che nei suoi ultimi giorni di vita ha trovato accoglienza in un hospice a Charkiv, mantenuto aperto anche sotto le bombe. Tutto sembra perduto, senza speranza, in guerre ogni giorno sempre più distruttive e spregiatrici di giustizia e umanità… eppure c’è chi lotta e resiste per accompagnare sin nella morte chi è senza speranza e riaffermare una dignità e una pace che nessun malvagio può cancellare. È l’infinita sorpresa di un miracolo reale che non sapremmo neppure immaginare.

La seconda testimonianza ci è offerta dalla dichiarazione fatta dal patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al suo rientro dalla visita a Gaza insieme al patriarca ortodosso Teofilo III. «Siamo entrati – ha detto aprendo la conferenza stampa – in un luogo devastato, ma anche pieno di meravigliosa umanità. Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi».

L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 7 settembre. Buone vacanze!

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